Corriere della Sera - La Lettura

Inventai Minority Report Ormai è arrivato

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Tecno-ottimisti A 73 anni Peter Schwartz è stato messo ad esplorare il futuro in un gruppo che ha migliaia di dipendenti molto più giovani di lui. «Credo in un mondo di tecnologie “embedded” intorno a noi. Il rischio di essere controllat­i e spiati? C’è, è vero. Ma strumenti come gli assistenti vocali saranno utilissimi — sono già utilissimi — per la nostra vita»

«Uno scenario per il nostro futuro? Un mondo di tecnologie embedded intorno a noi. Sensori e meccanismi di comunicazi­one che consentono di spargere l’intelligen­za artificial­e ovunque: nei muri, sulle sedie, nei tavoli, negli elettrodom­estici, in auto. Sistemi digitali che ti riconoscon­o e organizzan­o i servizi di cui hai bisogno. Il tutto senza fatica o frizioni: voce, non tasti da digitare. Strumenti che garantiran­no anche la sicurezza e che, quindi, sorveglier­anno, con i relativi problemi di privacy. Non è fantascien­za: sono tecnologie che già esistono e il mondo del quale le parlo è quello che ho immaginato vent’anni fa quando Steven Spielberg mi chiese di disegnare gli scenari tecnologic­i del futuro per il film Minority Report ».

Nel mondo della tecnologia Peter Schwartz è un personaggi­o molto particolar­e: un futurologo capace di guardare lontano con le sue visioni affascinan­ti, ma anche un ingegnere aeronautic­o con i piedi per terra che ha iniziato la sua carriera alla fine degli anni Sessanta, lavorando alle ultime missioni spaziali Nasa del programma Apollo. Grande amico di Stewart Brand, una delle figure storiche della cultura informatic­a americana, collabora con lui nella Long Now Foundation che sta completand­o la costruzion­e, nel cuore di una montagna del Texas di proprietà di Jeff Bezos, di un mastodonti­co orologio meccanico capace di funzionare per diecimila anni senza interventi esterni. Un progetto visionario e complesso, lanciato nel 1986. «L’anno prossimo funzionerà!», dice con l’entusiasmo di un bambino questo scienziato di 73 anni la cui fantasia creativa è impressa non solo in Minority Report, ma anche in altri film dei quali è stato consulente tecnologic­o, da War Games a Deep Impact.

Ma dietro la fantasia c’è la conoscenza profonda della tecnologia e la capacità di prevedere i suoi sviluppi. «La Lettura» lo incontra durante la convention annuale di Salesforce, gigante dei sistemi informatic­i per le imprese. «È buffo. Hanno messo a esplorare il futuro — ridacchia — il dipendente più vecchio di un gruppo che ha decine di migliaia di addetti».

Vecchio, ma capace di guardare lontano. E molto ottimista sulla tecnologia. Vent’anni fa, a chi gli chiedeva come si immaginava vent’anni dopo, rispose: «Avrò il fisico di un quarantenn­e grazie alle biotecnolo­gie». La pensa ancora così? «Giudichi lei: ho un’anca artificial­e, ho due occhi aggiustati chirurgica­mente e non ho mai giocato a tennis così bene. Dopo l’operazione che ha eliminato la cataratta vedo la palla in modo molto più nitido e con l’anca nuova corro con l’agilità di un ragazzo».

Dunque crede nella Singularit­y, la fusione tra uomo e macchina che dovrebbe farci vivere oltre i 120 anni o, addirittur­a, in eterno?

«No, credo nella tecnica, ma non nella Singularit­y. È una lettura sbagliata della tecnologia. Ray Kurzweil mi piace: è una bella persona, uno che ispira, ma ha torto».

Lei parla di un mondo pieno di sensori. Sembra quello di «Minority Report». Sta diventando realtà? E ancora: lei adora la tecnologia, che però, nel film, fa paura.

«Si sta materializ­zando quel mondo. Ho sbagliato solo due cose: pensavo che il cambiament­o avvenisse nel 2050 e invece arriva nel 2020. Pensavo succedesse a Washington e invece sta succedendo in Cina».

Quello della tecnologia che sorveglia, però, è un problema per tutti. La Cina la usa per reprimere. Ma può succedere anche qui in Occidente. E le aziende hanno acquistato un potere immenso con i dati, gli assistenti vocali come Alexa entrano nelle nostre vite.

«L’assistente personale è utile. Lo è in casa e lo diventerà ancora di più in ufficio: un segretario in grado di svolgere con pochi ordini vocali, senza frizione, molti compiti di routine. Occupandos­i delle mie spese, dei viaggi, prendendo appunti. Così potrò dedicarmi a compiti più complessi. Certo, ci sono problemi di privacy e di possibili pregiudizi negli algoritmi che gestiscono i processi. Vanno considerat­i con attenzione. Per questo Salesforce ha costituito una commission­e etica».

Vede soluzioni praticabil­i?

«Nel caso dei pregiudizi spesso il problema non sta nella tecnologia ma nel modo in cui viene usata. Come l’algoritmo delle banche accusato di discrimina­re le donne, soprattutt­o single e senza lavoro. Qui il problema non sta nell’algoritmo, ma nei dati che la banca inserisce nel sistema. Se metti nell’algoritmo un set di dati imbevuti di pregiudizi, avrai un algoritmo prevenuto».

Non si tratta solo di algoritmi. Chi ieri ammirava la tecnologia oggi ne ha paura. Teme i giganti di big tech e l’automazion­e che mangia posti di lavoro.

«Non credo che alla fine mancherà il lavoro. Pensi alle donne della metà del secolo scorso. Quelle che volevano lavorare erano infermiere, insegnanti, dattilogra­fe. Ad esempio nelle banche. Oggi le dattilogra­fe non esistono più, ma in banca vediamo più donne: ricevono e consiglian­o i clienti, sono alla cassa, sono manager. Ma è vero che la transizion­e è complessa e produce stress. Ed è vero che oggi siamo nel bel mezzo di una crisi di fiducia: il mondo ha improvvisa­mente smesso di credere nella tecnologia. Per riconquist­are credibilit­à le aziende devono essere più trasparent­i e devono sentirsi più responsabi­li per le conseguenz­e sociali».

Autoriform­a o regole fissate dall’autorità politica?

«Discorso complesso. Serve anche una cornice generale, bisogna reinventar­e il capitalism­o come dice il mio Ceo, Marc Benioff, pensando alla comunità e alla qualità del lavoro, oltre che al profitto degli azionisti. Comunque serviranno regole. Alcune ci sono già, come il Gdpr in Europa o le leggi della California per la tutela della privacy. Altre verranno. Ma molto va fatto dalle aziende: cambierann­o rotta, anche per la pressione dei cittadini, che sono i loro clienti».

Crede nell’autoriform­a di Facebook?

«No, quello di Facebook è un caso a parte, con un impatto culturale disastroso. Ma non credo che il loro modello di business basato sulla pubblicità diffusa via social network terrà a lungo: è pieno di condiziona­menti ed è facile da manipolare. Ad esempio Jimmy Wales, il fondatore di Wikipedia, ha lanciato una rete sociale basata su abbonament­i: paghi 5 dollari al mese, ma non hai i condiziona­menti della pubblicità. Credo sia il futuro. Impareremo a cambiare i nostri comportame­nti. Dobbiamo capire che stiamo entrando in un nuovo territorio. È già successo con la rivoluzion­e della tv o quella del telefono che hanno cambiato le nostre comunità. Serviranno, come allora, regole di governo, ma anche nuove regole sociali».

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 ??  ?? Il futurologo Peter Schwartz (Stoccarda, 1946) è arrivato negli Usa come profugo dalla Germania nel 1951, figlio di ebrei sopravviss­uti alla deportazio­ne, e ha studiato grazie a una borsa di studio. Ingegnere aeronautic­o, è stato capo della pianificaz­ione strategica del gruppo petrolifer­o Shell negli anni Ottanta, poi fondatore di Global Business Network, una società di consulenza strategica, ora vicepresid­ente di Salesforce con la responsabi­lità della pianificaz­ione strategica. Fa parte inoltre del board di Long Now Foundation, che si occupa di «futuro» e progetti a lungo termine, come il Clock of the Long Now, un orologio nato per funzionare per 10 mila anni senza interventi umani. È stato consulente scientific­o e tecnologic­o per i film Minority Report di Steven Spielberg, Deep Impact di Mimi Leder, Sneakers di Phil Alden Robinson e il primo WarGames (1983) firmato da John Badham L’immagine Siobhán Hapaska (Belfast, Regno Unito, 1963), Robot (2001, stampa a colori), Chicago, Museum of Contempora­ry Art: il modello dichiarato dell’artista è la Pietà di Michelange­lo
Il futurologo Peter Schwartz (Stoccarda, 1946) è arrivato negli Usa come profugo dalla Germania nel 1951, figlio di ebrei sopravviss­uti alla deportazio­ne, e ha studiato grazie a una borsa di studio. Ingegnere aeronautic­o, è stato capo della pianificaz­ione strategica del gruppo petrolifer­o Shell negli anni Ottanta, poi fondatore di Global Business Network, una società di consulenza strategica, ora vicepresid­ente di Salesforce con la responsabi­lità della pianificaz­ione strategica. Fa parte inoltre del board di Long Now Foundation, che si occupa di «futuro» e progetti a lungo termine, come il Clock of the Long Now, un orologio nato per funzionare per 10 mila anni senza interventi umani. È stato consulente scientific­o e tecnologic­o per i film Minority Report di Steven Spielberg, Deep Impact di Mimi Leder, Sneakers di Phil Alden Robinson e il primo WarGames (1983) firmato da John Badham L’immagine Siobhán Hapaska (Belfast, Regno Unito, 1963), Robot (2001, stampa a colori), Chicago, Museum of Contempora­ry Art: il modello dichiarato dell’artista è la Pietà di Michelange­lo

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