Corriere della Sera - La Lettura
Le nuove tribù di Israele Il primo confine di Oz
Nel 1982 lo scrittore raggiunse Ofra, insediamento di israeliani di destra, lontani dalle sue idee ma disposti ad ascoltarlo, perché gli riconoscevano autorevolezza. Ora non solo lo scrittore non c’è più ma anche il suo slancio pacifista e dialogante sopravvive a fatica soltanto in una parte della popolazione del suo Paese. Un autore di una generazione successiva ha voluto parlare con chi allora lo ascoltò e che non ha cambiato idea. Forse. O forse no
Sulle pareti delle prime case dell’insediamento di Ofra, in Cisgiordania, ora ci sono dei cartelli blu messi lì dal Consiglio per la Conservazione del Patrimonio israeliano. In uno è scritto: «Qui i padri fondatori di Ofra stabilirono il primo insediamento ebraico nella regione montana...». Un altro informa: «Qui furono prese decisioni importanti e, per prendere quelle decisioni, il pubblico fu convocato con gli altoparlanti sistemati sui tetti...». Un mito simile a quello del primo kibbutz di Israele ma a poco più di quarant’anni da allora. Quando un edificio diventa un museo, non significa che è tutto finito, che il presente è diventato storia? Che cosa significa questo per Ofra e per gli insediamenti in generale? Una delle prime case è ora una pizzeria. Dall’altra parte della strada c’è l’enorme liceo religioso femminile di Ofra e, di fronte, un supermarket. Nell’autunno del 1982, quando Amos Oz andò a visitare Ofra, non c’era nessuno di questi tre edifici: c’era invece il centro estivo ancora in funzione. Il primo capitolo che Oz ha dedicato a Ofra nel suo significativo In terra di Israele inizia proprio con la descrizione di questo centro. Fu nella sua sala da pranzo che Oz fece il discorso che divenne il secondo capitolo su Ofra del libro.
«Non ho mai capito perché il libro abbia avuto tanto successo», afferma Israel Harel, che all’epoca ospitò Oz e che fu una delle principali persone intervistate in quel primo capitolo. La serata in cui Oz fece il suo discorso al pubblico dei coloni resta indimenticabile. «Fuori non c’era un’anima, tutti erano nella sala da pranzo. Amos ci affascinò tutti. Dopo la presentazione, discutemmo con lui tutta la notte. Devo dargli atto di avere promosso un’esperienza indimenticabile».
Ci incontriamo di sera, in un affollato caffè di Tel Aviv. Harel ha 81 anni, ma dopo due ore di chiacchiere ha molta più energia di me. Oz lo ha descritto come «un uomo piacevole e riflessivo, che parla senza punti esclamativi e sa ascoltare con cuore saggio». Sono d’accordo. Quando incontrò Oz a Ofra, Harel era già a capo del Consiglio degli Yesha, che rappresentava tutti gli insediamenti nei territori occupati di Gaza e Cisgiordania, ed era il direttore del mensile dei coloni, «Nekuda», che aveva fondato e continuò a dirigere per 15 anni. È tuttora un pacato leader del movimento dei coloni e tiene una rubrica settimanale su «Haaretz», il prestigioso quotidiano liberal israeliano. Harel pensa che Oz avrebbe potuto essere dalla loro parte, se non fosse stato per l’ego del poeta Nathan Alterman: «Dopo la Guerra dei Sei Giorni, fu fondato il movimento per la Terra di Israele. Io avevo circa vent’anni, avevo pubblicato un paio di articoli in proposito e fui invitato a farne parte. Avevamo dalla nostra i principali scrittori della nazione: Alterman, Moshe Shamir, Shmuel Yosef Agnon, Hayyim Hazaz. Stesero una petizione e mi incaricarono di andare in cerca di firme. Suggerii Oz e Yehoshua, ma Alterman mi disse urlando: “Assolutamente no!”, perché questi giovani scrittori si erano ribellati contro la sua generazione. A Ofra ho chiesto ad Amos: “Se te l’avessimo chiesto, ti saresti unito a noi?”. Ci ha pensato su per un momento e ha risposto: “Non credo”. Ma io penso il contrario. C’era gente di sinistra che aveva firmato ed era passata dalla nostra parte, e se quei due avessero firmato, penso che la storia avrebbe preso un’altra piega, perché poi sono diventati due avversari intellettuali forti ed eloquenti. È stato un errore».
Harel ha smesso di parlare con Oz dopo il discorso del «culto oscuro», in cui Oz ha chiamato i coloni «un culto messianico e crudele, una masnada di gangster armati, criminali contro l’umanità, sadici, fautori di pogrom e assassini, emersi da un angolo oscuro dell’ebraismo...». Oz probabilmente si riferiva agli estremisti violenti di Jewish Underground e ai seguaci del rabbino Meir Kahana, ma Harel l’ha visto come un attacco al più ampio movimento di coloni. «Non l’ho mai perdonato. È stato un discorso violento».
La seconda persona intervistata da Oz a Ofra è stato Pinchas Wallerstein. Wallerstein ha guidato il consiglio regionale di Binyamin, che comprende la parte centrale della Samaria e la Cisgiordania settentrionale, per quasi trent’anni. Se Harel è l’ideologo, Wallerstein è il faccendiere. Nel saggio originale spiega a Oz come hanno fatto i coloni a manipolare il premier Yitzhak Rabin e il ministro della Difesa, Shimon Peres: «Siamo rimasti qui con un piccolo trucco... abbiamo approfittato del cattivo sangue che correva tra Rabin e Peres... i più importanti hanno chiuso gli occhi». Nel 2019, quando vado a trovare Wallerstein a Ofra, il suo cellulare continua a ricevere messaggi sul suo tentativo di ottenere permessi per un avamposto eretto da un gruppo di giovani nel deserto di Arava. «Perché Oz — chiede — pubblicò questo libro? S’è messo a cercare tutte le tribù della società israeliana. Teoricamente una buona idea, trovare un Israele unificato. Ma ciò che scopre è che ognuno sta nel suo cantuccio, nella sua serra. Oz venne da noi come ex membro del kibbutz e per noi è stato un onore. Rappresentava il romanticismo dei sabra, i nativi di Israele. Da allora per me è cambiata solo una cosa: ricordo di aver detto a Oz che sarei rimasto a Ofra in qualsiasi circostanza. Ora non più. Essere parte della società israeliana comunque, questo è il mio principio guida. Rinuncerei a casa mia per il bene dello Stato. Il mio scopo oggi è ridurre la veemenza degli scontri nella società israeliana».
Nonostante quest’approccio conciliante e responsabile, devo contestare l’idea che non vi siano controver
sie. Il punto di partenza può essere simile: insediamento, pionierismo, villaggi sulla linea di fuoco. Oz è stato subito in grado di riconoscerlo nel 1967, e nel 1982 faceva già una chiara distinzione. Il suo discorso nel secondo capitolo su Ofra del libro esprime in modo penetrante e ancora dolorosamente rilevante il divario tra le ragioni dei coloni e quelle degli umanisti nella società israeliana: «Voi pensate che lasciare andare la Cisgiordania creerebbe un pericolo per l’esistenza dello Stato di Israele. Io penso che l’annessione di queste terre creerebbe un pericolo per l’esistenza dello Stato di Israele». Questa è la linea di fondo, e non è cambiata, ma oltre alla «disputa sulla scelta del luogo», Oz parla dell’indifferenza dei coloni nei confronti dei conflitti morali di chi la vede come lui e pensa che dal loro punto di vista non si prenda in considerazione un legittimo dibattito tra due percezioni contrapposte, ma solo una visione paternalistica e arrogante secondo la quale da una parte ci sono ebrei autentici, reali, consapevoli e dall’altra dei miscredenti senza radici e pervertiti. «Nessuno ha il monopolio del giudaismo», scrive Oz. Ha definito il loro approccio una «civiltà di tipo museale» e li ha accusati di essere affetti da «autismo morale» e di essere ipocriti verso il mondo al di fuori di Israele. Sarebbe giusto chiedersi se le sue parole siano ancora valide alla luce dei profondi cambiamenti avvenuti nel mondo, nella regione e nello Stato dopo il 1982. Credo che la risposta sia sì, e ancora di più ora, 37 anni dopo. Il divario è lo stesso, così come l’approccio e l’impostazione di base. Soprattutto perché, da qualunque parte la si guardi, stiamo ancora occupando un’altra popolazione.
Nel 1982 Dror Etkes era un adolescente religioso del quartiere Ramat Eshkol a Gerusalemme. Vent’anni dopo ha iniziato a documentare gli insediamenti e gli avamposti in Cisgiordania, prima per l’organizzazione Peace Now, poi per Yesh Din, una ong legale, e oggi con il Kerem Navot, l’associazione non-profit che ha fondato nel 2016. Dror mi ha portato in giro con la sua piccola auto di fabbricazione cinese. «Nel 1982 Ofra era situata in edifici giordani costruiti tra il 1966 e il 1967, in una base militare che il Regno di Giordania aveva espropriato ai palestinesi. Gli edifici non erano mai stati completati. La maggior parte della terra espropriata, circa 60 acri, non era mai stata utilizzata dai giordani. Quando Ofra fu fondata, nel 1975, i residenti usarono l’infrastruttura militare che i giordani avevano abbandonato. Ma nei primi anni Ottanta Ofra iniziò a espandersi nelle terre dei villaggi vicini, al di là della terra espropriata. Oltre all’area giordana e ad altri quattro appezzamenti acquistati nel corso degli anni dai coloni, l’intero insediamento è costruito su un terreno registrato come proprietà privata della popolazione di Silwad ed Ein Yabrud. Quindi, se si parla di rubare terra, Ofra non ha eguali».
Etkes è personalmente responsabile dei tre principali insuccessi della storia di Ofra, le evacuazioni conosciute come Amona 1, Amona 2 e «le nove case». Nel febbraio 2006 nove case sono state sgombrate e distrutte nell’avamposto di Amona che si trovava sulla cima della collina a est di Ofra, a seguito di un ricorso presentato da Etkes, che sosteneva che le case erano state costruite su un terreno privato. La Corte Suprema di Israele ha accolto il ricorso. Nel gennaio 2017 il resto dell’avamposto di Amona è stato sgomberato, 40 case (le famiglie sono state compensate con terreni e case in un nuovo insediamento costruito per loro). Un mese dopo, nel cuore del quartiere meridionale di Ofra sono state evacuate e distrutte nove case.
Una delle case ancora in piedi sulla strada demolita è
quella della famiglia Sorek. All’inizio di agosto la famiglia è stata colpita da una terribile tragedia. Il loro figlio Dvir, 19 anni, è stato assassinato da un palestinese nella regione di Gush Etzion, vicino alla yeshiva Mahanayim, la scuola dove stava studiando. Il padre di Dvir, Yoav, è una figura nota nell’ambiente religioso nazionale, a 49 anni può essere visto come un rappresentante in vita della generazione successiva a quella dei fondatori di Ofra, ma non aspira a questo titolo. Ci sediamo nel suo giardino, sotto un ulivo e accanto a una piccola piscina. È un uomo piacevole, con una voce pacata. «Non sono venuto qui — afferma — per motivi ideologici, 22 anni fa io e mia moglie ci siamo trasferiti nell’avamposto di Rechelim, a pochi chilometri da qui, quando c’erano solo tre roulotte. Era un po’ troppo faticoso per noi, perciò ci siamo trasferiti nella borghese Ofra. È bello crescere i bambini qui, anche se sarebbe stato simile crescerli in un villaggio della comunità all’interno dei confini riconosciuti di Israele».
Nato a Rehovot e cresciuto in una casa simpatizzante per la destra, Sorek ha vissuto «sul lato destro della Linea verde» da quando aveva 15 anni. Penso che Oz avrebbe ammirato il suo pensiero, che cerca di ridefinire la strada dell’ebraismo religioso. In un lungo saggio si ricollega alla stessa divisione che Oz aveva criticato in quel discorso di fronte al popolo di Ofra, la divisione tra l’ebraismo fossilizzato, di stampo museale, e la versione pluralista, universale, aperta. Sorek in effetti auspica un legame tra il messianesimo e il realismo, il mitico e l’universale ma addentrandosi nell’articolo appare chiaro che la denuncia è rivolta soprattutto contro chi non approva il mitico e il messianico. In conversazione, ammette onestamente i fallimenti dell’impresa dell’insediamento: «Per la maggior parte degli israeliani siamo ancora oltre le montagne oscure, non abbiamo sovranità, nessun piano urbanistico, nessun governo che naturalizzerà la Cisgiordania». Ma crede nella «Grande storia ebraica» e pensa che il sionismo laico ne sia lontano.
Poi sostiene tesi estreme sui palestinesi. Sorek è favorevole, ad esempio, alla deportazione delle famiglie dei terroristi: «Distruggere le loro case fa poco danno. La deportazione invia il messaggio che non c’è tolleranza verso chi non ci rispetta». Credo a Sorek quando mi dice che non odia gli arabi e che educa i figli a quello che chiama un «nazionalismo ben intenzionato». Ma non posso accettare il presupposto che il sentimento nazionale dell’altra parte sia essenzialmente odioso. Quando gli chiedo delle nove case in fondo alla strada, si alza e mi porta di sopra a vedere il quartiere. «È semplice, c’è la legge e c’è la morale. La terra — dice — è privata dal punto di vista amministrativo ma non da quello morale. Non c’è mai stato nessuno che abbia pensato che questa terra fosse sua. Guardi là, verso il parco tra diversi quartieri. Quella terra appartiene a un arabo amico e nessuno la tocca. Ad Amona non ci sono mai stati arabi. Il posto era desertico. L’hanno distrutto per amore di distruzione».
Forse Amos Oz impiegò nel 1982 più di un’ora per andare da Gerusalemme a Ofra. Dev’essere andato a nord verso Ramallah, avere attraversato la città e poi avere preso la tortuosa strada Ramallah-Gerico attraverso i villaggi di Beitin ed Ein Yabrud, fino all’insediamento. Nel 2019 mi ci sono voluti 12 minuti, usando la nuova rete stradale che è stata costruita come parte dell’accordo di Oslo e che aggira le città e i villaggi arabi. Altri cambiamenti da allora: due Intifade, l’evacuazione degli insediamenti della striscia di Gaza, governi per lo più di destra. E poi il Jewish Underground, di cui tre membri erano, e sono tuttora, residenti di Ofra. Non c’è spazio per analizzare l’influenza sull’insediamento di ciascuno di questi eventi e di altri ancora, ma per essere precisi: la storia allora sembrava romantica anche nelle parole di Amos Oz, i cui unici avvertimenti riguardavano il futuro. Oggi questo futuro è dietro di noi e con noi: violento, sudato, cinico, senza vergogna, generico, profittatore, arrogante, affarista. Il numero di coloni, a Ofra e altrove, è aumentato di circa 25 volte. E lo Stato di Israele — non «il mondo», ma Israele — non riconosce ufficialmente Ofra e gli altri insediamenti ebraici in Cisgiordania come parte di sé.
Esther Brot è il capitano della squadra di netball femminile di Ofra. Ha 34 anni ed è nata pochi anni dopo la visita e il libro di Oz, che non ha letto. A differenza degli esperti fondatori veterani, che ripetono i loro mantra da decenni, c’è qualcosa di fresco e autentico in lei, persino di accattivante. Energie di una millennial. Ha occhi grandi e sorridenti, la testa coperta parzialmente e in modo elegante. Brot e la sua famiglia vivevano in una delle nove case che sono state evacuate due anni fa. È un’arredatrice, e ci sediamo nella graziosa stanza che ha progettato, nella grande casa in cui la famiglia si è trasferita dopo l’evacuazione, in una strada di case nuove all’interno dell’area di esproprio giordana, regolamentata. Era una studentessa al liceo femminile di Ofra. Con suo marito Netzach, un avvocato che lavora a Tel Aviv, stavano cercando casa, «in un buon posto nel mezzo del Paese». Sapeva che Ofra era un insediamento di spicco, «gente in gamba, intellettuali. Abbiamo comprato perché sapevamo che se non avesse funzionato, avremmo potuto rivendere facilmente. Non siamo venuti qui a
“prosciugare le paludi” (un riferimento ai primi pionieri sionisti, ndr). Ovvio, non si può essere di sinistra se si vive qui, ma le ragioni per cui ci siamo trasferiti erano la comodità, il tenore di vita, la gente e le case a buon mercato».
Apre un opuscolo con cartine e foto, realizzate per raccontare la storia delle nove case che sono state sgombrate: «Non c’era nessuno nel nostro quartiere. Mi lamento del governo che non ha regolamentato la terra. Pavimentava le strade ma esitava quando si trattava di stabilire le proprietà. E i gruppi di sinistra hanno trovato un varco». Pochi giorni dopo il ricorso in tribunale Esther Brot e famiglia si sono trasferiti nella casa, anche se non era ancora pronta. «Il gabinetto è arrivato dopo di noi e il rabbino ci ha dato il permesso di lavorare in un giorno festivo. Dovevamo entrare a tutti i costi, perché avevamo investito mezzo milione di shekel in queste mura». Siamo la «generazione due e mezzo» dei coloni, così si definisce Brot. Dobbiamo fare sacrifici, non per la terra di Israele, ma per il mezzo milione di shekel.
Parla dei suoi diritti come individuo e acquirente, non come ebrea. Hanno passato sette anni nell’incertezza, mentre il ricorso faceva il suo iter, «ma tutti pensavano che alla fine sarebbe andata bene. Non era Amona o la striscia di Gaza. In quei posti il governo ha preso decisioni scandalose, pensavamo, ma qui non succederà. Alla fine è andata peggio. Anche se la sinistra perde le elezioni, le sue organizzazioni sono vincenti nel sistema burocratico. La sinistra controlla i tribunali e i procedimenti giudiziari». Forse stanno cercando di vivere in uno Stato che rispetta la legge e si oppongono al dominio su un altro popolo. «Sono cresciuta qui. Questo è quello che so. Sto allevando la quarta generazione. Siamo ancora in guerra. Non possiamo andarcene. Avere un confine a 15 chilometri dal mare è illogico. Non c’è soluzione, neanche Trump ce l’ha, mi dispiace deluderla, ma è una guerra religiosa».
Nonostante l’intransigente visione di destra di Brot e degli altri che ho intervistato, in lei c’è qualcosa di più aperto. Sente che la generazione dei fondatori credeva in una verità assoluta che non esiste più.
Concludo la lunga giornata a Ofra su una sedia di plastica arancione sulla spiaggia di Tel Aviv. Accanto a me c’è Yehuda Etzion. Letteralmente un gentiluomo, con una lunga barba bianca, capelli bianchi e una grande papalina. Faceva parte del primo gruppo che ha dato il via a Ofra, ed era lì la sera in cui Amos Oz ha parlato, a quanto pare anche lui vociando e interrompendo. Etzion era uno dei capi di Jewish Underground, tra quelli che progettarono di far saltare in aria le moschee sul Monte del Tempio di Gerusalemme e di conseguenza rimase in prigione per 4 anni e mezzo. Cosa è successo dopo il 1982? «Un rafforzamento. Nostro, e ancora di più del nemico palestinese: i loro villaggi, l’Autorità palestinese, il loro riconoscimento internazionale. Il paradosso è che la forza cresce da entrambe le parti e continua a esserci un equilibrio, il che significa che la lotta non si è risolta. Ora siamo più forti, ma potrebbe ancora esserci un accordo che causerà dolore». Che cosa farà allora? «Ho pensato di dare vita a un movimento chiamato “Rimanere”. Resteremo in ogni caso. Se qualcuno vuole andarsene, vada».
Wallerstein disse la stessa cosa a Oz nel 1982, ma oggi mi ha detto che ha cambiato idea. «Pinchas vuole una totale sovrapposizione tra lo Stato di Israele e i coloni. Io no. Siamo amici, ma abbiamo idee diverse».
Dopo avere passato molte ore con l’ideologo, il faccendiere, il filosofo, la millennial arrabbiata e il sognatore del Tempio, riassumo e generalizzo: tutti sono appassionatamente e indiscutibilmente di destra, sono devoti alla terra di Israele e nutrono dubbi su Benjamin Netanyahu. Per loro i palestinesi sono invisibili, ma offrono soluzioni al loro problema che in qualche modo includono sempre la Giordania. Hanno preoccupazioni, ma anche convinzioni e fiducia. Continuo a pensare a una frase dell’epilogo di David Grossman all’edizione del 2009 di In terra di Israele di Oz: «Tra me e me continuavo a pensare che non avrebbe funzionato. Non c’è alcuna possibilità di avere mai una vita normale qui». Questa disperazione si percepisce, perché sembra che le due parti siano rinchiuse per sempre in questa dinamica, vedere una realtà completamente opposta. Non credo che ci sia simmetria. Credo che l’occupazione sia meno moralmente accettabile della sporadica violenza palestinese. Ma accetto il dibattito. È la vita. Ogni parte merita di esprimere la propria opinione. E la sensazione è che ancora, più che mai, la maggior parte dei coloni non accetta il dibattito. Oz lo scrisse già nel 1982. E oggi la cosa è più estrema, istituzionalizzata e tollerata.
La passione si è placata? Il progetto è terminato, limitato ai nostalgici cartelli blu? Si muove lentamente verso l’accettazione dell’universale, come afferma Yoav Sorek? Si apre un po’ nella sua visione mentale e religiosa, come in Esther Brot? O sarà bloccato da Dror Etkes e dai suoi strumenti legali? Forse, non ne sono sicuro. Con o senza passione. Di recente Ofra ha visto, per la prima volta nella sua storia, l’arrivo di una gru. L’insediamento sta iniziando a costruire edifici a sei piani. Sembra che sia qui per restarci.