Corriere della Sera - La Lettura
T. Singer, bibliotecario, sono io, al mio massimo
Angelo Ferracuti è tornato a Oslo, in Norvegia, per incontrare un gigante della letteratura nordica, Dag Solstad, mentre esce in Italia il nuovo romanzo (la storia di un Bartleby scandinavo e di un fallimento), a proposito del quale l’autore non ha timore di dire che...
La casa di Dag Solstad si trova a Frogner, quartiere residenziale di Oslo fatto di vie spaziose e grandi palazzi sontuosi e squadrati. Ci arrivo a metà mattinata con il tram numero 11 da Majorstuen, passeggio per le vie silenziose, fa molto freddo, la gente è rintanata nei caffè. Quando mi fermo al 16 di Bjørn Farmanns gate, mi ricordo. Sono già venuto in questa casa, ho già fatto la prima rampa di scale, aspettando come ora al piano sulla soglia di questo portone. Quando sua moglie gira la maniglia e m’invita a entrare, lui appare al centro del soggiorno impacciato, il fare imbarazzato di un uomo timido, le spalle incurvate, e sembra uno dei personaggi enigmatici dei suoi romanzi: indossa un giubbino grigio di pelle, una camicia bianca linda, i capelli sono più corti, lisci e bianchissimi, e la faccia sbarbata di fresco.
Forse per difendersi, dice che un taxi verrà a prenderlo tra mezz’ora. Devo fare in fretta. T. Singer (Iperborea) è il libro appena uscito in Italia, dove c’è un personaggio tra i più riusciti di Solstad, un cupo individualista che vive dentro la sua «fondamentale solitudine», la sua «particolare forma di vergogna», il quale pensava che «il suo posto era nel più completo anonimato», ed «era sempre stato affascinato dall’idea di scomparire», approdato alla carriera di bibliotecario dopo aver fallito come scrittore.
Questo Bartleby scandinavo, infatti, si ferma all’incipit di un libro che non scriverà mai, lì inizia e finisce la sua breve carriera, si blocca per sempre alla frase sibillina «Un bel giorno si trovò faccia a faccia con una visione memorabile»; è quindi una creatura di un romanzo, di una letteratura che lui non riesce a fare.
Solstad che è un autore molto famoso, non solo in Norvegia, dice che era curioso di indagare questo fallimento.
Il romanzo comincia con un viaggio, quando T. Singer è sul treno che lo porterà a Notodden, cittadina industriale del sud-est; ha 34 anni e da quel momento è come se superasse la sua «linea d’ombra», entrasse nell’età adulta, nel clou dell’esistenza, risucchiato dal caso, dalla necessità, ma soprattutto dall’assurdo della vita. Come in molti suoi libri, trascinato da una scrittura ipnotica, il lettore dopo poche pagine precipita dentro un vortice. Gli dico che T. Singer somiglia ad altri personaggi dei suoi romanzi, al professor Anderson, per esempio, o a un altro insegnante, Elias Rukla, l’intellettuale rissoso e sconfitto di Timidezza e dignità, forse il suo capolavoro. Solstad si tocca i capelli con la mano destra, poi comincia a parlare, con una ritmica veloce ma faticosa, scandendo le frasi con una meccanica che sembra quella di un ingranaggio. «Non è strano, gli scrittori usano personaggi con un tratto comune per vedere la vita dalla stessa angolazione, ma in modo diverso. Nell’ultimo romanzo che ho scritto il personaggio principale si trova nella vecchiaia, è una riflessione sulla vecchiaia e la morte, ho pensato come avrebbe reagito il professor Andersen, ma alla fine ho optato per Bhornhausen, protagonista di due miei libri: se ne avessi scelto un altro il punto di vista sarebbe stato ancora diverso».
Continua a parlare senza guardarmi negli occhi, il capo chino. Dice che ha usato la terza persona, quello che definisce «un trucco poetico» o anche «una specie di travestimento», per essere libero di descrivere senza entrare direttamente in scena: «Mi sono liberato della prima persona, ma non dall’usare me stesso», aggiunge.
Abbiamo poco tempo, penso che tra poco arriverà un taxi, lui si congederà e non riuscirò a finire l’intervista, quindi insisto sul destino dei personaggi, sul rapporto tra loro e chi li inventa. «In questo libro sono arrivato al massimo delle mie possibilità — dice soddisfatto — non significa che non scriverò più, ma qui sono arrivato al punto finale, ho un legame genetico con T. Singer. Se è questo che vuoi sapere, gli somiglio molto. Nel modo più assoluto».
I personaggi di Solstad sono molto norvegesi, come quelli di Pinter molto inglesi, e quelli di Bernhard molto svizzeri, invece quelli di Handke fortemente austriaci, giusto per citare gli autori che po
co fa ha ammesso di amare molto, insieme ad Antonio Tabucchi, ma d’altronde lui lo ha già detto in un’altra occasione: «Quello che da sempre mi preme descrivere più di ogni altra cosa è la peculiarità dell’essere norvegesi. Sono norvegese, la mia coscienza linguistica è legata alla Norvegia — racconta — quindi non posso parlare di altre cose che non siano queste, quando parlo di norvegesità la rappresento con la letteratura».
E T. Singer, il personaggio che dà il titolo al romanzo, si definisce addirittura un «custode dei libri». Arrivato a Notodden, dopo uno strano incontro in treno, si trasforma in una specie di Meursault, il personaggio de Lo straniero di Albert Camus, ma riflessivo e meno disperato, quindi si sposa con una donna separata, madre di una figlia piccola, la sua vocazione alla solitudine dirotta, la sua vita entra in un’altra dimensione. «Ho scritto questo libro vent’anni fa, non ricordo la genesi, penso di esserci arrivato da una via traversa».
Sono già passati 35 minuti, ma il taxi stranamente non è ancora arrivato; sua moglie è scomparsa in un’altra stanza dopo avere apparecchiato tazzine e teiera. Forse tra un istante potremmo sentire il suono del campanello, o il suo cellulare squillare, e rimanere appesi all’ultima domanda, senza riuscire a finire la frase. Ma il romanzo forse è nato da una questione molto più banale, tutto comincia e il destino di T. Singer si compie proprio perché per diventare bibliotecario e per la legge norvegese ci deve essere un numero preciso e pari di posti tra uomini e donne, proprio così, «c’è questo aspetto curioso — dice — una legge ti cambia la vita».
Gli dico che secondo me il suo è un romanzo dell’assurdo quotidiano, e Solstad annuisce: «È vero, questo aspetto c ’è, molto forte, T. Singer diventa bibliotecario in una piccola città industriale, poi si sposa e il matrimonio fallisce, ma l’ex moglie muore e l’assurdità è che lui si prende cura della figliastra». Anzi, adesso il ruolo si ribalta, è l’autore che dice a proposito del suo personaggio qualcosa di sé stesso: «Il fatto che l’abbia adottata mi piace molto. In una situazione simile avrei fatto la stessa cosa».
Ha svelato la trama, ma questo non è un romanzo di trama: i fatti, le cose che accadono, hanno sempre anche una valenza altra, filosofica, si combinano elementi diversi, concetti come la «convenienza», la forza di gravità che esercita un potere molto forte sulla vita degli uomini. La scrittura è sobria, essenziale, severa, e Dag Solstad mischia sapientemente narrazione del quotidiano, meditazioni sul senso della vita, aspetti storici frutto del contesto sociale, la dicotomia tra città e provincia, le loro diverse antropologie e paesaggi, come la natura di questo sud-est estremamente marginale che condiziona vite e destini. «Ho scelto un posto del nord paesaggisticamente più quieto. La natura norvegese — racconta — è caratterizzata da luoghi drammatici, montagne maestose, fiordi, una natura rissosa, ho voluto evitare questi aspetti, mi manca il linguaggio appropriato per raccontare tutto questo, lo guardo come uno straniero può guardare un paesaggio esotico».
Oggi la sua è una voce forte, politicamente connotata, e forse con T. Singer ha in comune una postura, un certo disadattamento esistenziale. Gli ricordo che una volta ha detto: «Ho sempre avuto la sensazione d’essere vissuto sul lato della parte sbagliata», che ricorda la leggendaria frase di Bertolt Brecht «Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati»: voleva dire dalla parte degli ultimi, dei diseredati, degli sfruttati. Lui dice che è vero: «Mi considero un lottatore per il romanzo, la lingua che uso è la verità che viene trasmessa nei miei romanzi, una lingua diversa da quella dei politici. La verità dei politici — ride — è la stessa del marketing, della pubblicità».
Mentre ci salutiamo, mi ricordo che il taxi non è ancora arrivato ed è già passata un’ora e mezza. Forse a questo punto non arriverà più.