Corriere della Sera - La Lettura
Molta nostalgia, troppa. Andiamo via
Tempi moderni I due protagonisti di «La mia ombra è tua» ripropongono la rodata coppia giovane/anziano, con il giovane che è già anziano e l’anziano che vuole essere giovane. Per Edoardo Nesi le nuove generazioni sono vittime del «sistema»
«Chi è lo scrittore più importante degli ultimi 20 anni?... Attenta però, non il più bravo, la bravura è degli arroganti: l’autore che ha destato una curiosità così morbosa da diventare il più importante...?», chiede, in The Young Pope di Paolo Sorrentino, Pio XIII alla responsabile comunicazione del Vaticano; lei dice «Philip Roth»; lui risponde «Salinger», prima di lanciarsi in un catalogo di personalità arrivate alla preminenza anche grazie al fatto di non farsi vedere o intervistare: Kubrick nel cinema, Banksy nell’arte, i Daft Punk nella musica elettronica, Mina nella canzone italiana... Una categoria, quella dei grandi reclusi, che trova particolare rappresentanza nella letteratura: aJ.D.Salinger si possono affiancare T ho masPynchon,C orma cM cCarthy eH ar per Le e, fino alla nostra Elena Ferrante o l’ oggi semi sconosciuto, ma in vita celeberrimo, B. Traven, autore del Tesoro della Sierra Madre, per tacere, poi, degli scrittori di finzione, come il Morelli immaginato da Cortáza rin Rayuela o il Benno von Arcimboldi al centro del 2666 di Roberto Bolaño.
E, da oggi, anche Vittorio Vezzosi, protagonista del nuovo romanzo di Edoardo Nesi, La mia ombra è tua (ma già noto ai suoi lettori, dato che figurava nell’Estate infinita a fianco del padre, il costruttore Cesare) e autore di un solo libro, I lupi dentro, uscito nel 1995 e subito al centro di un incredibile successo; un romanzo forse giovanilista, come suggerisce il titolo, criticato dal suo stesso autore, tratto da una poesia di Jim Morrison (il titolo del romanzo di Nesi viene invece da Malcolm Lowry e da Sotto il vulcano) ma che di certo è rimasto nel cuore dei lettori.
Ci è rimasto Vezzosi, che però preferisce starsene recluso in una villa poco fuori Firenze, unico contatto col mondo il suo erculeo factotum Mamadou: un’accoppiata che porta subito l’appassionato di anni Ottanta (e di cose anni Ottanta se ne vedranno, in questo libro) a pensare al wrestler Ted DiBiase e al suo sgherro/ guardia del corpo Virgil.
Per tirar fuori lo scrittore dalla gabbia aurea che si è autoimposto ci vorrà una vera e propria incursione (progettata dal suo editore, che spera in un secondo romanzo, ma questo Vezzosi non lo sa): quella di Emiliano De Vito, giovane laureato in lettere che, non trovando un lavoro, ha dovuto ripiegare su quello di assistente dello scrittore, scoprendone subito il carattere non facile: basterà dire che viene accolto a fucilate.
Non si creda però di essere di fronte a un romanzo sullo scontro generazionale. A Nesi sta a cuore un altro tema — il tradimento dei giovani da parte del sistema, più che da parte della generazione precedente: si vedano Storia della mia gente ma anche Tutto è in frantumi e danza, scritto con Guido Maria Brera — ed è narratore troppo consumato per non essere consapevole del rischio, e lo disinnesca subito, facendolo esplodere nelle parole che un De Vito alticcio scaglia addosso al futuro datore di lavoro, il quale le accoglie bonariamente, anzi le vede come positivo segno di carattere.
Il sodalizio che segue, quello tra un «giovane vecchio» (Emiliano De Vito — subito ribattezzato antifrasticamente, oltre che per accostamento col nome proprio, «Zapata» — è un ragazzo timorato, studiosissimo e per lo più inadatto alla vita) e un uomo di mezza età che sotto sotto ha voglia di sentirsi giovane un’ultima volta, è il sigillo sotto il quale va a dipanarsi una vicenda per la quale, forse, road novel è la miglior definizione: la mente del lettore, seguendo il Vezzosi e
Zapata nel loro viaggio verso nord — la destinazione, scopriremo, sarà una fiera del modernariato e della nostalgia, ma anche un antico amore dello scrittore — torna a quel filone cinematografico che va da Badlands a Thelma & Louise passando per i Blues Brothers, ma anche ai buddy movie, i film al cui centro c’è una coppia di protagonisti fortemente assortita coi suoi dialoghi e battibecchi. E Vittorio Vezzosi e Emiliano «Zapata» De Vito non potrebbero essere più diversi, sebbene li unisca, oltre alla passione per i libri, la direzione convergente dei loro percorsi: se il primo si decide a inseguire un nodo irrisolto della propria giovinezza — e quindi, di fatto, a tentare di vivere di nuovo, in un’età in cui si rischia sempre più di guardare solo al passato — il secondo dovrà necessariamente diventare adulto, abbandonando quelle ansie e quei timori che — scoprirà — sono per lo più socialmente indotti, epifenomeno di una società che pretende di circondare i giovani di ovatta per nascondere il fatto di non saper più dar loro un futuro.
Meglio, allora, i riti apotropaici a base di vino buono, crudité di mare e di terra, cocaina, tatuaggi (ma non in faccia: nella critica a un fan dalle probabili simpatie trap il protagonista mostra i propri anni) e jeep snudate del Vezzosi, almeno fino al momento di arrivare a Milano. Lì, alla fiera del modernariato, Vezzosi si allontana, almeno idealmente, dal proprio assistente, per formare una nuova diade con la figura-specchio di Franco Casamonti, organizzatore della fiera e marito della donna da lui sempre amata, che, sentendosi minacciato dall’arrivo dell’antico rivale, si lancia in un elogio del passato che desta l’ammirazione di tutti, Vezzosi compreso, e mette a fuoco il secondo grande tema di La mia ombra è tua: l’ossessione dei nostri tempi per la nostalgia, quella voglia di guardare indietro che tradisce una sopravvenuta incapacità di immaginare il futuro, e che si svela quindi come sintomo della crisi di quella democrazia liberale che finora avevamo dato per scontata.
C’è anche — sottotraccia, ma inevitabile visti il mestiere del protagonista, gli studi del coprotagonista e l’amore per la letteratura dell’autore — un filone metaletterario: oltre a quelle di Lowry e Salinger, nel romanzo di Nesi sono ben presenti le ombre di Francis Scott Fitzgerald, di J.R.R. Tolkien e, sul finale, di W.G. Sebald, come a ricordarci che, tra tutte le colonne sonore che possiamo affiancare al nostro personale road movie, l’eco generata dai libri sarà sempre la più affidabile e sincera. È anche per via di quest’atto d’amore che La mia ombra è tua, pur essendo un romanzo veloce al pari della corsa su una jeep senza parabrezza né sportelli che fa da snodo centrale alla vicenda, lascia una scia lunga, complessa e persistente, come quella che si vede nell’appropriatissima copertina; il che ci dà l’occasione per un plauso all’editore, oltre che all’autore: a 4 anni da un debutto che si presentava incerto solo da questo punto di vista, La nave di Teseo oggi non ha soltanto trovato la propria identità estetica, ma ne ha imposta una: la copertina di questo romanzo, come quella de Il colibrì di Sandro Veronesi, quella de La straniera di Claudia Durastanti e quelle disegnate da Manuele Fior per la riedizione delle opere di Giorgio Scerbanenco, sono state tra le più belle e iconiche dell’anno.