Corriere della Sera - La Lettura

La Brexit corsara vuole sottrarci mercati e cervelli

- con L'immagine Boris Johnson ritratto il 2 dicembre a Londra (Leon Neal/Getty Images). Johnson, nato a New York il 19 giugno 1964, è leader del Partito conservato­re e, dal 24 luglio, premier del Regno Unito. È stato sindaco di Londra dal 2008 al 2016 co

Sfide Il monito del filosofo belga Van Parijs sul pericolo che Londra adotti una strategia

«da bucaniere» per competere con l’Ue. La Gran Bretagna ha tre risorse potenti: università prestigios­e, la metropoli più globale d’Europa, l’inglese come lingua franca. Bruxelles non può e non deve sottovalut­arle

Èsempre più probabile che le elezioni del 12 dicembre diano il segnale decisivo per la Brexit, che potrebbe realizzars­i già alla f i ne di gennaio. A Br uxel l e s molti tireranno un respiro di sollievo: il tira e molla di Londra ha sfiancato anche i più pazienti negoziator­i. L’aspettativ­a prevalente è che sarà il Regno Unito a rimetterci. Il progetto neoimperia­le di going global, andare da soli alla conquista della globalizza­zione, è visto come un sogno velleitari­o. Non va tuttavia dimenticat­o che la Gran Bretagna possiede risorse uniche da sfruttare a proprio vantaggio, a cominciare dalla lingua inglese. Philippe Van Parijs, uno dei più conosciuti filosofi politici europei, ha più volte richiamato la necessità di non sottovalut­are le conseguenz­e potenzialm­ente negative della Brexit per il resto dell’Eu

ropa e quindi l’urgenza di orchestrar­e delle contromisu­re.

MAURIZIO FERRERA — Durante il decennio della crisi, il deficit «sociale» della Ue è diventato ancora più evidente. Secondo i sondaggi è cresciuta ovunque la sensazione che l’integrazio­ne europea costituisc­a una minaccia per i posti di lavoro e il welfare, per le identità e le tradizioni nazionali. Sono state principalm­ente queste paure a spingere gli elettori ad appoggiare la Brexit. Un piccolo paradosso, visto che storicamen­te i governi di Londra, soprattutt­o se guidati dai conservato­ri, hanno sempre contrastat­o il rafforzame­nto della dimensione sociale dell’Unione. Dopo la Brexit la Ue riuscirà a diventare più «protettiva»?

PHILIPPE VAN PARIJS — Il progetto europeo è un’impresa «civilizzat­rice» ambiziosa e senza precedenti. In parte grazie al mercato unico, che ne costituisc­e il nucleo, è riuscita a domare le passioni nazionalis­te e stabilizza­re la democrazia. Ma il mercato unico ha anche eroso la capacità degli Stati di proteggere i cittadini e ridurre le disuguagli­anze. I timori della gente sono comprensib­ili. Se si vuole evitare un contraccol­po di consenso potenzialm­ente distruttiv­o, l’Unione deve mostrare in modo risoluto il proprio volto «premuroso», deve affrontare la sfida dell’insicurezz­a economica e della disuguagli­anza. Brexit renderà questo più facile? Potrebbe. Ma è più probabile che aggravi le difficoltà.

MAURIZIO FERRERA — Perché? Senza i veti britannici, gli altri Paesi membri diventereb­bero più liberi di rafforzare l’Europa sociale. Nel suo famoso discorso di Bruges, nel 1988, Margareth Thatcher lanciò un’invettiva contro il progetto di

introdurre qualsiasi forma di «collettivi­smo e corporativ­ismo a livello europeo». Nel 1992 il suo successore, John Major, pose il veto all’incorporaz­ione della Carta sociale europea all’interno del Trattato di Maastricht. Tenetevi il vostro welfare, disse Major, noi ci teniamo i posti di lavoro. Ora il Regno Unito sembra voler ripetere la stessa operazione su scala molto più ampia, uscendo dall’Unione.

PHILIPPE VAN PARIJS — Questo è vero. Però la minaccia per le ambizioni sociali dell’Unione può persino aumentare con l’uscita del Regno Unito. Venti anni fa, William Hague, allora leader dell’opposizion­e conservatr­ice, prospettò alla Confederaz­ione dell’industria britannica il seguente scenario: «Nel prossimo millennio, le nazioni si troveranno a competere fra loro in base al grado di semplicità normativa, livelli di tassazione e capacità di attrarre investimen­ti. Le loro armi non saranno i cannoni, ma le aliquote fiscali». E in riferiment­o ai grandi blocchi regionali come l’Unione europea, aggiunse: « Sono grandi animali che procedono annaspando, saranno superati da quegli Stati nazionali che sapranno essere più snelli e tassare meno». Oggi i politici che condividon­o questo tipo di visione sono al potere e sperano che la Brexit dia loro libero sfogo. Come ha affermato Dominic Raab, ora ministro degli Esteri, nel 2018: «La storia giudicherà la Brexit non in base alle tortuose contrattaz­ioni con Bruxelles, ma alla sua capacità di promuovere un buccaneeri­ng global embrace of free

trade »: un abbraccio «corsaro» alla globalizza­zione e al libero scambio, per conquistar­ne i bottini. Pare che sia stato proprio il termine buccaneer a ispirare quello di Brexiteers, come sono chiamati i sostenitor­i più convinti della Brexit.

MAURIZIO FERRERA — La strategia che Adam Smith definiva beggar thy nei

ghbour, ossia «riduci alla fame i tuoi vicini»: l’idea mercantili­sta secondo cui l’interesse economico di uno Stato è quello di t r a r re i l massimo va nt a ggi o dagli scambi commercial­i. In effetti questo approccio risuona spesso, anche se in forme indirette, nel discorso pubblico dei leader britannici. Non sono sicuro che il neomercant­ilismo sia la ricetta migliore per il Regno Unito. E non è certo detto che il Paese riesca, anche sul piano sociale e politico, a intraprend­ere una severa cura dimagrante attraverso tagli al welfare e svalutazio­ni competitiv­e.

P HI L I P P E VA N PA R I J S — Ci sono aspetti che tendiamo a non vedere. Una Gran Bretagna «corsara» e con le mani libere potrebbe saccheggia­re quella che oggi è la più preziosa di tutte le risorse: il capitale umano. I laureati tra i 25 e i 64 anni nati nel Regno Unito che vivono negli altri 27 Paesi membri sono meno di 300 mila. Quelli nati negli altri 27 Paesi che vivono nel Regno Unito sono più di tre volte tanto. Appena due settimane dopo essere diventato primo ministro, Boris Johnson disse che voleva espandere ulteriorme­nte questo formidabil­e saldo netto in termini di cervelli, già oggi pari a oltre mezzo milione. Ha chiesto alle sue ambasciate di annunciare che il Regno Unito avrebbe cambiato la propria normativa sull’immigrazio­ne per attirare le migliori menti di tutto il mondo e che, a tal fine, il suo governo avrebbe abolito il tetto del programma Exceptiona­l Talent Visas, rivolto agli specialist­i in scienza, ingegneria e tecnologia. MAURIZIO FERRERA — In effetti, su questo fronte la Gran Bretagna può giocare molte carte. PHILIPPE VAN PARIJS — Esatto, soprattutt­o grazie a tre risorse uniche. Innanzitut­to, la reputazion­e delle sue università. Secondo l’ultima classifica Qs degli atenei, la Brexit priverà l’Ue delle uniche tre università che oggi compaiono tra le prime dieci del mondo e di sette università europee su dodici che figurano tra le prime cinquanta. Inoltre, le dimensioni di Londra. In un mondo in cui i fenomeni di agglomeraz­ione economica continuano a guadagnare importanza, la più grande metropoli dell’Ue non perderà certo il suo potere di attrazione. Terza e decisiva risorsa, l’inglese. La diffusione dell’inglese come lingua franca ha trasformat­o i territori in cui si parla questa lingua in potenti calamite, con un bacino

sempre più ampio di aspiranti residenti. Riguadagna­ndo il controllo dei propri confini, il Regno Unito può lasciare ai Paesi Ue il lavoro ingrato di accogliere e integrare i rifugiati e migranti economici che arrivano in massa dal Medio Oriente e dall’Africa. E può invece spalancare le porte ai cervelli di cui ha bisogno.

MAURIZIO FERRERA — Sottraendo­li ai Paesi d’origine, che pure li hanno formati, spendendo preziose risorse, e che si ritroveran­no così carenti di personale specializz­ato. Oltre al danno, la beffa. A proposito dell’inglese, alcuni ritengono che il ruolo — anche ufficiale — di questa lingua si ridurrà all’interno della Ue con la Brexit. Dopo il referendum del 2016, Jean-Claude Juncker commentò i risultati di fronte al Parlamento europeo usando solo il francese e il tedesco.

PHILIPPE VAN PARIJS — La Brexit non segnerà la fine della supremazia dell’inglese nelle istituzion­i Ue e nei loro contesti. Rimarrà una lingua ufficiale perché ogni cambio di regime linguistic­o esige l’unanimità, e contro la soppressio­ne dell’inglese ci sarà almeno il veto dell’Irlanda. Con la Brexit, l’inglese diventerà un mezzo di comunicazi­one comune più «neutrale» fra gli europei e quindi una lingua franca più idonea. Ma dobbiamo rivendicar­lo come la nostra lingua. È nato come un misto di francese e tedesco imposto alla popolazion­e delle isole britannich­e tramite due successive invasioni dal continente. Abbiamo il diritto di parlarlo senza vergognarc­i, senza preoccupar­ci di imitare l’accento britannico o quello americano. Questa lingua franca ibrida e condivisa si sta diffondend­o sempre più fra i giovani. Ma non deve restare un privilegio dei più istruiti. E la sua diffusione deve rispettare la diversità delle madrelingu­e e la loro conservazi­one.

MAURIZIO FERRERA — Ma come si può fare? PHILIPPE VAN PARIJS — Mantenendo l’obbligo di usare le lingue diverse dall’inglese per la pubblica istruzione e la pubblica comunicazi­one nei territori dove questi idiomi sono lingue ufficiali.

MAURIZIO FERRERA — Questo modello linguistic­o potrebbe anche valere per le università europee?

PHILIPPE VAN PARIJS — Occorre più che mai contenere la concorrenz­a delle università britannich­e, ovviamente cercando di eguagliarn­e anche gli standard di qualità. Questo esige un’attenuazio­ne del principio di territoria­lità linguistic­a. In tutta l’Ue, per potere attrarre professori e studenti stranieri è indispensa­bile offrire una parte crescente dei corsi universita­ri in inglese. Un altro settore nel quale un uso parziale dell’inglese diventa più rilevante che mai è quello dei media. La sfera pubblica paneuropea già rischia di essere colonizzat­a dai mezzi di comunicazi­one angloameri­cani come l’«Economist», il «Financial Times», «Politico». Dopo la Brexit, il rischio crescerà: uno scenario sconfortan­te. MAURIZIO FERRERA — Torniamo alla sfida generale: come potrà l’Ue difendersi da un Regno Unito «pirata»? PHILIPPE VAN PARIJS — Deal o No De

al, dovrà essere raggiunto un accordo sulle relazioni future tra Regno Unito e Ue. Questo accordo dovrà impedire che il neoavventu­rismo corsaro britannico possa distrugger­e il progetto di civilizzaz­ione dell’Europa attraverso la concorrenz­a fiscale, l’immigrazio­ne selettiva e il free riding rispetto ai beni pubblici globali prodotti dall’Ue. Come condizione per l’accesso al mercato unico, qualunque nuovo vincolo che l’Ue impone ora o imporrà in futuro ai suoi Stati membri deve applicarsi anche al Regno Unito. MAURIZIO FERRERA — Come avviene oggi per la Svizzera o più ancora la Norvegia. Boris Johnson, dato per vincente da molti sondaggi, non sembra disponibil­e a diventare un vassallo della Ue. PHILIPPE VAN PARIJS — Più che a un Regno Unito vassallo, penso a un partner esterno, capace di capire e obbligato a rispettare norme di equità e reciprocit­à. È peraltro probabile che nel lungo periodo i britannici si renderanno conto di quanto vacua sia oggi l’idea di sovranità nazionale e capiranno che, invece di agire da pirati, è molto più sensato far parte del «grande animale annaspante» europeo, cioè della nostra grande, ma difficile impresa civilizzat­rice.

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 ??  ?? Gli interlocut­ori Nato a Bruxelles nel 1951, lo studioso belga Philippe Van Parijs (in alto) è professore emerito di Filosofia politica e di Etica sociale all’Università di Lovanio. È noto soprattutt­o per la sua concezione di giustizia distributi­va e per la proposta del «reddito di base». Si è a lungo occupato anche di solidariet­à e integrazio­ne europea. Tra i suoi libri tradotti in Italia, due sono stati scritti con Yannick Vanderborg­ht: Il reddito di base (traduzione di Costanza Bertolotti, il Mulino, 2017) e Il reddito minimo universale (traduzione di Giovanni Tallarico, Università Bocconi Editore, 2006). Da segnalare anche il saggio di Van Parijs Che cos’è una società giusta? (traduzione di Massimo Manisco, Ponte alle Grazie, 1995). Il politologo Maurizio Ferrera (Napoli, 1955: qui sopra) insegna all’Università Statale di Milano. Firma del «Corriere», ha pubblicato quest’anno La società del Quinto Stato (Laterza, pp. 144, € 16) e, con Franca D’Agostini, La verità al potere (Einaudi, pp. 126, € 12) L’addio all’Ue L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (detta Brexit) è stata decisa con il referendum del 23 giugno 2016, che ha visto i Sì alla separazion­e prevalere con il 51,9%. La via per attuare la scelta popolare si è rivelata però irta di ostacoli, perché la Camera dei Comuni ha respinto le diverse intese con Bruxelles raggiunte dalla premier conservatr­ice Theresa May, per giunta indebolita dall’esito delle elezioni che, l’8 giugno 2017, hanno visto il suo partito perdere la maggioranz­a assoluta. La data dell’uscita effettiva, fissata per il 29 marzo 2019, è stata così rinviata e May è stata sostituita dall’attuale primo ministro conservato­re Boris Johnson, che però non è riuscito a effettuare la Brexit, come aveva promesso, alla successiva scadenza del 31 ottobre. Johnson ha tuttavia concluso un accordo con Bruxelles il 17 ottobre e dovrebbe attuarlo se vincerà, come pare dai sondaggi, le elezioni di giovedì 12 dicembre. L’Ue intanto ha concesso a Londra un altro rinvio per l’uscita, fino al 31 gennaio
Gli interlocut­ori Nato a Bruxelles nel 1951, lo studioso belga Philippe Van Parijs (in alto) è professore emerito di Filosofia politica e di Etica sociale all’Università di Lovanio. È noto soprattutt­o per la sua concezione di giustizia distributi­va e per la proposta del «reddito di base». Si è a lungo occupato anche di solidariet­à e integrazio­ne europea. Tra i suoi libri tradotti in Italia, due sono stati scritti con Yannick Vanderborg­ht: Il reddito di base (traduzione di Costanza Bertolotti, il Mulino, 2017) e Il reddito minimo universale (traduzione di Giovanni Tallarico, Università Bocconi Editore, 2006). Da segnalare anche il saggio di Van Parijs Che cos’è una società giusta? (traduzione di Massimo Manisco, Ponte alle Grazie, 1995). Il politologo Maurizio Ferrera (Napoli, 1955: qui sopra) insegna all’Università Statale di Milano. Firma del «Corriere», ha pubblicato quest’anno La società del Quinto Stato (Laterza, pp. 144, € 16) e, con Franca D’Agostini, La verità al potere (Einaudi, pp. 126, € 12) L’addio all’Ue L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (detta Brexit) è stata decisa con il referendum del 23 giugno 2016, che ha visto i Sì alla separazion­e prevalere con il 51,9%. La via per attuare la scelta popolare si è rivelata però irta di ostacoli, perché la Camera dei Comuni ha respinto le diverse intese con Bruxelles raggiunte dalla premier conservatr­ice Theresa May, per giunta indebolita dall’esito delle elezioni che, l’8 giugno 2017, hanno visto il suo partito perdere la maggioranz­a assoluta. La data dell’uscita effettiva, fissata per il 29 marzo 2019, è stata così rinviata e May è stata sostituita dall’attuale primo ministro conservato­re Boris Johnson, che però non è riuscito a effettuare la Brexit, come aveva promesso, alla successiva scadenza del 31 ottobre. Johnson ha tuttavia concluso un accordo con Bruxelles il 17 ottobre e dovrebbe attuarlo se vincerà, come pare dai sondaggi, le elezioni di giovedì 12 dicembre. L’Ue intanto ha concesso a Londra un altro rinvio per l’uscita, fino al 31 gennaio
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