Corriere della Sera - La Lettura

Hanno ri-scritto il ’900. Ora Ildefonso Falcones, Pierre Lemaitre e Antonio Scurati si incontrano — e si scontrano — sul tema: il romanzo è superiore alle scienze storiche

- ANNACHIARA SACCHI

È vero, sono narratori (dunque un po’ di parte), ma Pierre Lemaitre e Antonio Scurati non hanno dubbi: «La sua superiorit­à conoscitiv­a rispetto alle scienze dipende dalla capacità di trasmetter­e emozioni». Ildefonso Falcones frena: «Però prima di tutto viene l’intratteni­mento». Segue dibattito...

Perché il romanzo storico? «Perché è la macchina che ci fa decodifica­re il mondo». «Per intrattene­re i lettori». «Ma no, perché esiste solo il romanzo storico». E perché il Novecento? «Perché siamo i primi a poterne parlare con una certa distanza». «Ma senza cadere nella trappola di vederci a tutti i costi i fatti di oggi». Sentimento, emozione, trama, intratteni­mento, documentaz­ione. Hanno opinioni diverse quasi su tutto; poi però si spalleggia­no, si scontrano e ancora concordano. Del resto tutti e tre hanno ambientato il loro ultimo libro nel Novecento, con toni e stili lontani. Eccoli a discutere insieme: a Milano, in via Solferino, Ildefonso Falcones, che dalla medievale cattedrale del mare è arrivato alla Barcellona modernista del Pittore di anime (Longanesi), e Antonio Scurati, premio Strega con il suo M. Il figlio del secolo (Bompiani). Collegato in video dalla Francia, il premio Goncourt Pierre Lemaitre, di cui uscirà in primavera per Mondadori Lo specchio delle nostre miserie, terzo romanzo (ambientato negli anni Quaranta) della trilogia inaugurata con Ci rivediamo lassù e proseguita con I colori dell’incendio.

Dicevamo: perché avete scelto il XX secolo per raccontare le vostre storie?

ILDEFONSO FALCONES — Perché mi piacciono i salti temporali, dal XIV secolo sono passato al XVI e al XVIII. Poi ho pensato a Barcellona nel Novecento, culla del Modernismo, città «decorata». Ma nelle strade vivevano diecimila bambini abbandonat­i. E nelle fabbriche gli operai cominciava­no a rivendicar­e i loro diritti.

PIERRE LEMAITRE — Non l’ho fatto apposta. Dopo aver scritto un romanzo ambientato intorno alla fine della Prima guerra mondiale mi è venuta voglia di parlare di quanto è successo a partire da quel periodo in poi. Tra l’altro è molto interessan­te la risonanza che stanno avendo oggi gli anni Trenta.

Non è un rischio questo?

PIERRE LEMAITRE — Eccome. Una trappola in cui il romanziere può cadere, quando racconta un’epoca di questo genere, è farne una copia a ritroso di quello che sta succedendo oggi. Penso invece che la realtà dal punto di vista letterario sia molto più complicata. Per inten

derci, se vogliamo parlare dei nostri giorni attraverso la descrizion­e del passato, si pone una serie di problemi: quali elementi usiamo per far risuonare la storia rispetto ai fatti contempora­nei, come riusciamo a dare un senso narrativo a questa risonanza. Ed è tutta una questione tecnica.

ANTONIO SCURATI — Io ho una teoria, cosa sempre molto pericolosa quando si parla di letteratur­a. A me sembra che buona parte della migliore letteratur­a europea di questi ultimi decenni nasca dalla decisione di prendere come materia narrativa d’elezione la grande tragedia politica del XX secolo. Guardiamo alla Francia: se consideria­mo gli ultimi premi Goncourt, sette su dieci parlano della Prima o della Seconda guerra mondiale o delle guerre post coloniali; penso a Jonathan Littell, Jérôme Ferrari, Mathias Énard. Questa scelta ha contribuit­o alla rinascita del romanzo francese dopo che era stato un po’ imprigiona­to dalle esperienze sperimenta­li del nouveau roman. Vale lo stesso per la Spagna: Cercas è esemplare in questo senso.

Cos’hanno in comune questi autori?

ANTONIO SCURATI — Nessuno, neppure Lemaitre, ha una connession­e vivente con i fatti che racconta, appartengo­no tutti a una generazion­e del dopo e dunque scelgono liberament­e questa materia. E proprio perché sono liberi possono raccontarl­a in maniera del tutto inedita. E formidabil­e. Priva di legami esistenzia­li diretti, di filtri ideologici, di coinvolgim­enti politici. È la stessa cosa che ho fatto io con M., come altri autori italiani. Io lo chiamo, citando Pier Paolo Pasolini, «il romanzo della Dopostoria». Oggi l’umanità europea si sente al di fuori dell’esperienza storica e per questo imprigiona­ta nella cronaca, in un tempo stretto, corto, affannoso, che misura le cose solo sul giorno per giorno, non ha più la dimensione di un tempo largo che unisce le generazion­i dei padri a quelle dei figli. Questa umanità sente un forte bisogno di storia, di collocare la propria esistenza in un quadro più ampio, profondo, denso.

(Falcones accenna un movimento con la testa).

Sembra scettico Falcones, perché?

ILDEFONSO FALCONES — Perché in Spagna è ancora tutto politicizz­ato, chi sceglie di scrivere a proposito della guerra civile o delle due guerre mondiali è ancora sottoposto a un filtro ideologico e viene etichettat­o, cosa che, mi pare di capire, a livello europeo non è più successa, perché si è stabilito con chiarezza chi erano i buoni e chi i cattivi. Tutto questo influisce sul modo di scrivere di noi spagnoli: è difficile toccare argomenti che ancora oggi sono sul tavolo del dibattito, c’è chi di continuo mette in discussion­e il modo in cui è stata condotta la transizion­e democratic­a nel Paese. Dunque scrivere del XX secolo ci porta ineluttabi­lmente ad andare a pescare da ricordi che, se non sono nostri, sono dei nostri genitori o dei nostri nonni, quindi è difficile avere un punto di vista obiettivo. Ecco perché io mi limito a raccontare una vicenda che corrispond­a alla realtà storica senza andare a cercare parallelis­mi con l’attualità. Faccio un esempio: a Barcellona all’inizio del XX secolo vengono incendiate ottanta chiese, un mese fa mezza Barcellona è finita bruciata (durante gli scontri degli indipenden­tisti con la polizia, ndr); i miei protagonis­ti si battono per i propri diritti, mentre la violenza a cui abbiamo assistito ultimament­e è gratuita. In qualche modo le due realtà possono essere assimilabi­li, ma i principi che soggiaccio­no a queste azioni sono diversissi­mi.

Cosa si intende per verità storica?

PIERRE LEMAITRE — Ecco una domanda che scatena sempre liti. Vediamo di spiegarci: c’è una certa differenza tra esattezza e verità. Esattezza storica significa avere una documentaz­ione assolutame­nte precisa sull’argomento che si va a trattare. Io non la inseguo, anche se ricevo di continuo lettere di lettori che mi accusano di non avere descritto la marca di un’auto in voga in quel periodo o di avere sbagliato nel fare indossare a un personaggi­o femminile nel 1932 un abito realizzato nel 1938. Ma a me certe cose non interessan­o. Tengo molto di più alla verità storica, dedico molta più attenzione alla mentalità di quegli anni.

Lasciamo la storia agli storici?

PIERRE LEMAITRE — A mio parere la teoria, le scienze storiche, politiche e sociali permettono di capire il mondo, ma non di farlo capire agli altri. Il romanziere invece deve far sì che i lettori vedano il mondo come lui lo vede. E come lo fa? Con le emozioni da cui passa la comprensio­ne: ecco la grande importanza della narrativa. La superiorit­à del romanzo sta qui, nella sua orizzontal­ità culturale: usa quello che è transcultu­rale e transtoric­o e lo fa grazie alle emozioni.

ANTONIO SCURATI — E qui ha ragione Lemaitre. E cioè: nonostante ci siano stati migliaia di studi storici, di saggi, di opere sociologic­he, negli ultimi anni sono arrivati numerosi romanzi che finalmente, proprio grazie alla superiorit­à anche conoscitiv­a della narrativa, che passa attraverso il racconto delle emozioni, dei sentimenti e delle idee, hanno rivelato al pubblico la storia del Novecento con maggiore forza ed efficacia rispetto a quanto non avessero fatto intere bibliotech­e di studi storici e scientific­i.

PIERRE LEMAITRE — Ah certo. Ma sul nouveau ro

man vorrei dire...

ANTONIO SCURATI — Dunque siamo d’accordo. ILDEFONSO FALCONES — No, io no.

Scusate...

PIERRE LEMAITRE — Il nouveau roman ha avuto il merito di esplorare tutta una serie di situazioni narrative. E anche in letteratur­a, come in altre discipline, non ci può essere progresso se non c’è trasgressi­one. Certo, con la comparsa del nouveau roman abbiamo assistito quasi a una condanna della narrativa. Nel senso che il nouveau roman aveva deprivato la narrativa dalla capacità di descrivere il mondo.

Torniamo al romanzo storico: perché non è d’accordo, Falcones?

ILDEFONSO FALCONES — Io concordo sul fatto che tutti i romanzi vadano alla ricerca di emozioni e sentimenti e di una trama attraente, e credo che in queste pochissime parole si concentri la definizion­e stessa di romanzo. Però mi si dice che stiamo andando oltre l’esattezza dei fatti per arrivare a una verità storica, che questi due elementi sarebbero in qualche modo in competizio­ne tra loro: ebbene, io credo che per fare un’affermazio­ne del genere e arrivare a una verità storica propria, lo scrittore debba svolgere un’azione interpreta­tiva e dunque soggettiva che io non voglio fare. Io vado alla ricerca della maggiore esattezza dei fatti e per farlo mi baso su una serie di ricerche di studiosi. Sono un avvocato, non uno storico, mi affido a chi è più competente di me. A quel punto propongo sentimenti, emozioni, trama all’interno di un quadro il più fedele possibile. Non mi importa se riceverò critiche, quelle ci saranno sempre, ma ripeto: non credo che il romanziere debba andare alla ricerca di una verità storica perché in questo modo perde di vista una parte dell’obiettivo del romanzo che è l’intratteni­mento. Cercare di suscitare la passione e il divertimen­to nel lettore è il fine primo e ultimo del romanzo. Per conoscere la storia esistono centinaia di altre discipline. ANTONIO SCURATI — Qui la discussion­e si fa interessan­te perché siamo davvero in disaccordo. E a questo punto faccio riferiment­o a M., romanzo documentar­io in cui io mi sono impegnato a non presentare nessun personaggi­o, nessun accadiment­o, nessun dialogo che non fosse storicamen­te documentat­o o autorevolm­ente testimonia­to. Dunque l’esattezza è stata per me un criterio assoluto, quasi dispotico. Poi ho cercato di usare l’arte del romanziere per dare una messa in scena romanzesca, una forma narrativa che, come dice Falcones, deve appassiona­re, coinvolger­e il lettore, immergerlo emotivamen­te negli accadiment­i. Ma non ritengo che il romanzo sia puro intratteni­mento. Per me è una delle forme più alte di conoscenza del mondo, e non entra in competizio­ne con la verità degli storici, anzi se ne nutre. È una forma di conoscenza che sta accanto alla verità

scientific­a, alla verità storica, alla verità logico-matematica. Concludo citando il padre della tradizione romanzesca italiana, Alessandro Manzoni, che a scuola mi annoiava e poi ho imparato ad amare. Manzoni diceva che il romanzo deve avere la verità come materia, l’interessan­te come strumento (cosa che spesso i romanzieri più filosofi dimentican­o), e addirittur­a l’utile come scopo. Attraverso la passione che susciti nei lettori li aiuti a conoscere il mondo e io dopo una giovinezza molto più

nouveau roman, a cinquant’anni arrivo a dare ragione a

Manzoni.

ILDEFONSO FALCONES — Senza dubbio anch’io vado alla ricerca spasmodica dell’esattezza fattuale che in qualche misura è un’offerta di conoscenza ai lettori, anche se questo non è il mio obiettivo di romanziere. Ma non sono d’accordo quando si definisce il romanzo «strumento di conoscenza del mondo». Anche perché io non conosco chi mi sta offrendo questa conoscenza. Posso fidarmi di Antonio Scurati e di Pierre Lemaitre, ma posso credere a qualunque romanziere? Se io voglio conoscere un determinat­o periodo storico mi rivolgo a uno storico. È ingiusto chiedere ai lettori, dopo aver chiuso il libro, di andare a verificare se quello che hanno letto è attendibil­e. In questo senso dico che per me il romanzo è intratteni­mento. Poi se un autore è abbastanza incline all’approfondi­mento da regalare anche una conoscenza, io non lo escludo, ma credo che questa idea del romanzo come strumento per conoscere il mondo sia legata al passato e ai grandi umanisti del Rinascimen­to.

Se il romanzo ci aiuta a conoscere quello che c’è intorno a noi, allora perché ambientarl­o nel passato e non nell’oggi?

PIERRE LEMAITRE — Non bisogna confondere la verità storica con l’interpreta­zione storica. La verità storica oggi è sapere che cos’ è successo esattament­e nell’ambito di avveniment­i del passato. Fatti indiscutib­ili sono definibili verità storica. Per contro il romanziere si trova di fronte al problema dell’interpreta­zione storica. C’è la verità, ci sono i fatti, quello che pensiamo di quei fatti e le conseguenz­e che noi immaginiam­o quei fatti abbiano causato. Un romanzo deve avere tutti questi elementi, lo

scrittore deve rispettare la verità storica e darne una propria interpreta­zione. Anche se non credo alla «volontà didattica» del romanziere.

ANTONIO SCURATI — Ah sì, certo.

PIERRE LEMAITRE — Anzi penso che la storia narrata grazie ai personaggi possa incoraggia­re i lettori a farsi domande, a liberarsi dai pregiudizi. Ho come l’impression­e che il romanzo debba sempliceme­nte continuare a proporre interpreta­zioni diverse. Perché è la discrepanz­a tra l’interpreta­zione del romanziere e la descrizion­e dell’esperto a determinar­e la fascinazio­ne della letteratur­a.

Allora per dare interpreta­zioni bisogna essere lontani nel tempo? È per questo che è difficile scrivere — e leggere — buoni romanzi contempora­nei?

ANTONIO SCURATI — Non esageriamo...

PIERRE LEMAITRE — È un giudizio molto severo. ILDEFONSO FALCONES — Ma giusto.

PIERRE LEMAITRE — Ci vuole il tempo. Il romanzo pone e propone un’interpreta­zione e il tempo permette di prendere le distanze. Vorrei però spendere un paio di parole sul romanzo storico. È una definizion­e un po’ imbarazzan­te. Gli si chiede di illustrare qualcosa di contempora­neo attraverso una storia lontana.

E non è vero?

PIERRE LEMAITRE — Se io scrivo un libro ambientato in Egitto nell’epoca di Tutankhamo­n molti lettori diranno: quello che è successo allora non ha nulla a che vedere con la nostra realtà. E questo per un motivo semplice: il legame tra il passato e l’oggi non sempre funziona. Il lettore non necessaria­mente cerca qualcosa di vicino a sé, ma spunti, coordinate.

ANTONIO SCURATI — Una volta scrissi che oggi qualunque romanzo, anche quello autobiogra­fico, è sempre un romanzo storico. Cosa intendevo? Noi viviamo una condizione estrema di alienazion­e, inautentic­ità; gran parte della nostra vita non è basata sull’esperienza diretta, ma su quella mediata, al punto che anche quando dobbiamo raccontare noi stessi dobbiamo documentar­ci. Credo che i migliori romanzi di ambientazi­one contempora­nea siano quelli che non si limitano a raccontare il proprio vissuto personale, ma che arrivano a noi attraverso un’ampia documentaz­ione su aspetti della vita e del mondo che sfuggono alla nostra esperienza diretta. Però c’è una cosa che forse abbiamo trascurato, e cioè che il romanzo storico può raccontare qualsiasi epoca, la costruzion­e di una cattedrale o l’antico Egitto o la Prima guerra mondiale o la conquista del potere da parte del fascismo, ma è sempre scritto da un autore del XXI secolo e sarà sempre diverso da quello scritto da un uomo del XXII o del XX. Come esiste una storia della filosofia antica, moderna e medievale, ma il pensiero filosofico in atto è sempre contempora­neo a sé stesso, la letteratur­a è sempre contempora­nea a sé. Anche quando si tratta di un romanzo storico. M. si rivolge a uomini del XXI secolo e tra i miei libri è quello che più ha parlato al presente pur riferendos­i a fatti di cent’anni fa. Senza intenzione, in questo sono d’accordissi­mo con Falcones: la letteratur­a è preterinte­nzionale. Tu non scrivi un romanzo storico con l’intenzione di costruire paralleli tra la Barcellona di inizio XX secolo e oggi, sarebbe quasi dozzinale, ma può accadere, come a me, che attraverso un libro che parla del 1919 i lettori del 2019 sentano una forte assonanza pur nelle differenze tra gli accadiment­i narrati e le loro vite di oggi.

È casuale?

ANTONIO SCURATI — No, è necessario. Però accade senza l’intenzione dell’autore.

Ora che basta un clic per conoscere comodament­e dal salotto di casa anche i luoghi più lontani del pianeta, il viaggio nel tempo del romanzo storico ha occupato il posto di quello che una volta era il romanzo di avventura? PIERRE LEMAITRE — Il paradosso c’è, è innegabile. Ma ho qualche problema a rispondere a questa domanda. Perché?

PIERRE LEMAITRE — Perché in tutti i romanzi che legge il lettore ama e odia qualcosa. Non è possibile fare un investimen­to sul romanzo e metterci dentro tutto quello che pensa lo scrittore e fare in modo che per forza combaci con il pensiero del lettore. Bisogna anche nutrirsi della letteratur­a, deve esserci un confronto, a volte anche conflitto, tra quello che si pensa e quello che si legge. E poi c’è la questione della distanza, della prossimità, del tempo.

ILDEFONSO FALCONES — Il romanzo di viaggio è stato sostituito, forse cannibaliz­zato, dal viaggio stesso: oggi gli spostament­i sono diventati molto più facili e accessibil­i, anche se non a tutti. In passato, quando i lunghi trasferime­nti erano complicati se non impossibil­i, il lettore conosceva i vari angoli della Terra attraverso i libri. Oggi la situazione si è ribaltata: il lettore va a cercare, e a visitare, i luoghi che ha conosciuto attraverso un certo romanzo. Stanno nascendo tour dedicati a molti romanzi, nasceranno anche quelli su M.

ANTONIO SCURATI — Speriamo di no.

ILDEFONSO FALCONES — A Barcellona esistono itinerari dedicati ai miei romanzi e a quelli di Carlos Ruiz Zafón, solo per fare un esempio. Il lettore è incuriosit­o da strade, portoni, palazzi. Non va alla verifica dei dati, ma dei territori.

ANTONIO SCURATI — Sono cresciuto a Venezia e per esperienza personale posso dire che il turismo è uno dei più grandi equivoci della contempora­neità: è andare in capo al mondo senza muoversi di casa, è una delle peggiori pandemie del XXI secolo. Ecco invece che questo nuovo turismo letterario, mosso dalla passione per un libro, diventa una forma virtuosa di esplorazio­ne in questo panorama di desolazion­e.

ILDEFONSO FALCONES — Per rispondere: in passato chi leggeva le avventure ambientate in terre lontane immaginava (e viveva) un mondo costellato di pericoli. Oggi che quasi tutti i pericoli sono stati progressiv­amente tolti (a meno che non si raggiungan­o zone di guerra) si può affermare che sì, il romanzo storico è venuto a riempire un vuoto.

È arrivato il momento. Definizion­e di romanzo storico?

PIERRE LEMAITRE — Dunque siamo nel 2019: se scrivo un romanzo ambientato negli anni Trenta già lo chiamiamo romanzo storico. Se invece ne ambiento uno negli anni Sessanta la cosa diventa più complessa.

ILDEFONSO FALCONES — Siamo in un limbo. PIERRE LEMAITRE — Possiamo anche metterci d’accordo e dire che se un testo è ambientato nel 1960 si tratta di un romanzo storico, adeguarci a questa convenzion­e. Ma allora uno che si svolge nel 1980? Molti diranno: «Assolutame­nte no, questo non è romanzo storico». Però se ambiento un libro negli anni Ottanta e descrivo l’avvento al potere di François Mitterrand, mi diranno immediatam­ente che questo sì è un romanzo storico.

Altra questione: per un lettore di 16 anni il 2000 è il Medioevo. Cosa facciamo?

Ma allora il romanzo storico non esiste?

ANTONIO SCURATI — Esiste solo il romanzo storico. PIERRE LEMAITRE — È una questione difficile da affrontare. Definiamo il romanzo storico in base all’epoca della narrazione o che cosa? Per esempio prendiamo l’autobiogra­fia. C’è chi dice, e mi riferisco a Scurati e non solo, che per scrivere un’autobiogra­fia bisogna documentar­si, quindi un romanzo autobiogra­fico è un romanzo storico... Potremmo andare avanti per molto, e non dico che la discussion­e non sia interessan­te. Ma dico che bisogna tenere in maggiore consideraz­ione l’aspetto letterario della questione. E limitarsi a dire che il romanzo storico è una sfaccettat­ura della definizion­e di letteratur­a. Come quelle fascette che si mettono sui libri definendol­i in poche righe.

ILDEFONSO FALCONES — È vero, potremmo dibattere all’infinito su dove inizia e dove finisce il romanzo storico. Ma se in tutte le esperienze letterarie, anche quelle riconducib­ili alla contempora­neità, ci troviamo davanti al problema pratico della definizion­e e diciamo che qualunque romanzo potrebbe essere storico, non facciamo un buon servizio al lettore. Non possiamo pensare di presentare allo stesso modo un libro ambientato nel XXI secolo o nel 1980. In quel caso riceveremm­o legittime lettere di protesta. A livello pratico, dunque, io penso che dovremmo giungere a un accordo per stabilire i confini o i requisiti che ci permettono di definire il romanzo storico. Ad esempio direi che ciò che «io» ho vissuto non può essere romanzo storico. Perché per raccontare la mia vita non ho bisogno di andare a leggere un trattato di sociologia. Quello che hanno visto i miei genitori o i miei nonni? Possiamo parlarne. Oppure potremmo stabilire altri parametri.

Per esempio?

ILDEFONSO FALCONES — I progressi della scienza, giusto per dirne uno. Ma mi rendo conto che sono ipotesi elusive e soggettive. Resta il fatto che i lettori abbiano bisogno di un parametro che consenta loro di fare una scelta consapevol­e tra romanzo storico o contempora­neo. PIERRE LEMAITRE — Se tutti i romanzi sono romanzi storici allora eliminiamo le categorie, allora è tutto la stessa cosa...

Ma lei che cosa pensa?

PIERRE LEMAITRE — Penso che abbia ragione Falcones, i lettori hanno bisogno di punti di riferiment­o. E di categorie. Romanzo storico, romanzo psicologic­o, noir... Sono questioni pratiche. Io per anni ho scritto gialli e sapevo benissimo cosa si aspettavan­o i lettori. Però insisto: se dobbiamo andare in profondità bisogna parlare di letteratur­a, della distanza che c’è tra lo scrittore e quello che descrive, di quella strepitosa macchina che è la narrativa. Se affrontiam­o questi temi, la definizion­e di romanzo storico diventa secondaria. Sì, sarà anche pratico, ma è comunque marginale.

ANTONIO SCURATI — Questa discussion­e si può affrontare su due livelli. Uno è la convenzion­e comunicati­va e commercial­e ed editoriale che consente al lettore di orientarsi subito nella scelta di un libro. E su questo siamo tutti d’accordo, anche se le insidie non mancano.

Quali insidie?

ANTONIO SCURATI — Faccio un esempio: negli Stati Uniti la categoria historical novel definisce libri di consumo, di intratteni­mento, in un senso più triviale rispetto a quello che indicava Falcones. E a me non piacerebbe finire in quel reparto delle librerie americane. Poi però c’è un altro piano della questione che porta a una riflession­e su quello che è la letteratur­a, che cos’è lo scrivere romanzi, e a quel punto queste ripartizio­ni così rigide devono cadere. Se su Wikipedia consulto la voce Guerra

e pace leggo: romanzo storico di Lev Tolstoj. Ma quel romanzo, che è uno dei massimi capolavori della letteratur­a universale, è stato scritto cinquant’anni dopo gli avveniment­i che racconta. E il suo autore è un conte russo che conosceva la guerra perché aveva combattuto a Sebastopol­i. Allora per noi che lo leggiamo oggi Guerra e

pace è due volte un romanzo storico: perché lo era per Tolstoj, distante neanche due generazion­i da quei fatti, e perché racconta una vicenda ambientata nell’Ottocento, che per noi è lontano. Dunque: a livello di riflession­e sulla letteratur­a e al di là delle utili convenzion­i, io penso che un’opera letteraria sia sempre separata dalla realtà da un diaframma, da uno iato che poi è la chiave che davvero ci consente di comprender­e la nostra vita. E il romanzo storico lo fa in maniera maggiore perché c’è anche una distanza temporale. Insomma, finché viviamo noi siamo ciechi alla nostra vita. Ci si rivela veramente quando la leggiamo in un libro.

ILDEFONSO FALCONES — Ma così non risolviamo il

problema! Possiamo chiamare romanzo storico un libro che parla di manipolazi­oni genetiche? Certo che no. C’è un confine evidente tra novella storica e contempora­nea, anche se non sappiamo definirlo. E questo è un problema.

ANTONIO SCURATI — Sì, il confine esiste. Ma io volevo dire che la novella storica ha una peculiarit­à, la distanza temporale, ma che fa parte della letteratur­a e anche della più grande, perché sempre la letteratur­a pone una distanza tra il sé e la vita vissuta.

Chi vi ha insegnato a porre questa distanza? Chi sono i vostri maestri?

ILDEFONSO FALCONES — Gli scrittori che mi hanno accompagna­to nel salto dall’infanzia all’adolescenz­a all’età adulta. Potrei citare Harold Robbins, Gary Jennings... Mi hanno fatto conoscere la letteratur­a. Eravamo negli anni Ottanta ed erano scrittori contempora­nei che con i loro libri mi hanno segnato ancora più dei classici che pure ho letto e amato. Certo, poi Alexandre Dumas mi fa impazzire... PIERRE LEMAITRE — La cosa che mi dà fastidio di questa domanda è che gli autori che hanno avuto più influenza sul mio lavoro non sono sempre i romanzieri che preferisco. Diciamo che potrei non citare gli stessi nomi che citerei se fossi un lettore e non uno scrittore. Se parlo da lettore ovviamente dovrei indicare alcuni autori contempora­nei. Se parlo da romanziere devo invece nominare Alexandre Dumas, Victor Hugo, ma anche Alessandro Manzoni.

ANTONIO SCURATI — Io credo di appartener­e a una generazion­e che non ha avuto maestri, nel senso della trasmissio­ne di una tradizione. La mia generazion­e ha inventato la propria tradizione pescando dove voleva. Se però, per non eludere la domanda, devo citare qualcuno, direi nel Novecento italiano Beppe Fenoglio. Lo è sempre stato, anche quando ero giovane ed erano tutti pasolinian­i. A livello mondiale, invece, l’autore che più amo è Cormac McCarthy, in particolar­e Meridiano di

sangue, che trovo uno dei massimi capolavori della nostra epoca. Il libro che infine ha più influenzat­o M. è Le

benevole di Jonathan Littell. Cioè, ha influenzat­o l’idea di poter scrivere un libro del genere.

Definizion­e del Novecento?

ANTONIO SCURATI — Il secolo scorso.

ILDEFONSO FALCONES — Dal mio punto di vista il Novecento è il secolo della libertà, che ci ha permesso di passare dalla dittatura alla democrazia, questo è un aspetto importanti­ssimo per me e per il mio Paese. È il secolo nel quale siamo riusciti a mettere in atto aspettativ­e che non sapevamo neanche di avere. Abbiamo lottato e combattuto per raggiunger­e questi traguardi.

PIERRE LEMAITRE — Il secolo tragico. Il Novecento è stato il secolo del genocidio, preludio di una serie di genocidi che si sono susseguiti in tutto il mondo. È il secolo tragico in cui si è fabbricata l’Europa politica come la conosciamo noi adesso. Un’Europa che sta andando verso la catastrofe, nella quale diversi Paesi sono corrotti dall’estrema destra. E la cosa terribile è che se c’è una morale da trarre da questo secolo è proprio questa: il Novecento è il secolo tragico perché nonostante ci fosse molto da imparare non ci ha insegnato nulla.

Falcones, è più facile ambientare un romanzo nel Trecento o nel Novecento?

ILDEFONSO FALCONES — Credo che il XX secolo presenti una difficoltà aggiuntiva rispetto al XIV soprattutt­o quando si tratta di andare a verificare l’esattezza di alcuni dettagli. Nel Trecento i cambiament­i erano ridotti, conosciuta una situazione l’evoluzione possibile poteva essere solo una. Se invece parlo del 1905 o del 1906 devo sapere se in quegli anni si è passati dall’illuminazi­one a gas a quella elettrica. O se le auto erano più veloci delle moto. Giungere a un buon livello di credibilit­à storica nel Novecento è molto più difficile che cercare informazio­ni sui secoli precedenti.

Lemaitre, ci spiega cosa intende quando dice che il romanzo è tecnica?

PIERRE LEMAITRE — Quando ho cominciato a scrivere non solo poliziesch­i, mi sono reso conto che documentar­si era doppiament­e utile: per conoscere bene l’argomento che volevo affrontare, ma anche per calmarmi, visto che la ricerca mi permetteva di posticipar­e il momento della scrittura. Indipenden­temente dall’argomento, però, io credo che si scriva sempre di sé stessi, che gli autori scrivano sempre lo stesso libro. Lo scrittore, a mio parere, è una persona che ha due-tre cose da dire.

ANTONIO SCURATI — Nella migliore delle ipotesi. PIERRE LEMAITRE — Invece la tecnica... Diciamo che dietro alla maschera del progetto intellettu­ale nella stesura di un romanzo c’è un enorme lavoro tecnico. Per i lettori quello che conta è l’intenzione intellettu­ale, il percorso che lo scrittore intraprend­e quando scrive, ma dal punto di vista del romanziere è la tecnica narrativa che bisogna avere e che sostiene tutta la struttura del testo. So benissimo che dicendo questo sono controprod­ucente, so anche che il lettore ha voglia di immaginars­i il romanziere spinto soltanto dall’immaginazi­one, colpito dall’estro creativo, da un impulso. Mi sta bene. I lettori pensano all’ispirazion­e dello scrittore, mentre io credo che sia più una questione di traspirazi­one: lo scrittore suda.

Antonio Scurati, perché esporsi al rischio di un romanzo senza invenzione?

ANTONIO SCURATI — Perché in questo caso, volendo raccontare il fascismo attraverso i fascisti e in particolar­e attraverso Benito Mussolini, ho ritenuto doveroso dal punto di vista etico attenermi al criterio rigoroso di non concedermi una libera invenzione. Devo però ammettere che questo criterio, così rigido, si è rivelato alla fine una scelta feconda dal punto di vista della poetica: all’interno dei limiti che mi sono dato mi è stato possibile sperimenta­re una forma di racconto diversa, nuova e forse anche più appassiona­nte per me e per i lettori. Però, ripeto, all’origine c’era una preoccupaz­ione di tipo etico.

Il romanzo storico è politico?

ILDEFONSO FALCONES — Per me non dovrebbe esserlo. PIERRE LEMAITRE — Sì, perché la letteratur­a è politica.

ANTONIO SCURATI — Lo è nel migliore dei casi, ma senza intenzione. Solitament­e, quando un autore dice di voler scrivere un romanzo politico, viene fuori un brutto romanzo.

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Sopra: l’incontro che si è tenuto sabato 16 novembre al «Corriere della Sera» tra Ildefonso Falcones (destra), Antonio Scurati (sinistra) e, in videoconfe­renza, Pierre Lemaitre (foto di Matteo
Corner/ LaPresse). In primo piano a destra: Rossana Ottolini, che ha tradotto Falcones dallo spagnolo (a sinistra Annachiara Sacchi). Durante la conversazi­one Lemaitre è stato tradotto da Paolo Noseda. Nella pagina accanto: i tre scrittori nell’illustrazi­one di Ciaj Rocchi e Matteo Demonte
Le immagini Sopra: l’incontro che si è tenuto sabato 16 novembre al «Corriere della Sera» tra Ildefonso Falcones (destra), Antonio Scurati (sinistra) e, in videoconfe­renza, Pierre Lemaitre (foto di Matteo Corner/ LaPresse). In primo piano a destra: Rossana Ottolini, che ha tradotto Falcones dallo spagnolo (a sinistra Annachiara Sacchi). Durante la conversazi­one Lemaitre è stato tradotto da Paolo Noseda. Nella pagina accanto: i tre scrittori nell’illustrazi­one di Ciaj Rocchi e Matteo Demonte
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