Corriere della Sera - La Lettura

Ha ri-scritto il Medioevo (nel 2020 saranno quarant’anni dall’uscita de «Il nome della rosa» di Umberto Eco, un romanzo che cambiò tutto). Siamo andati a vedere come fu possibile quell’architettu­ra, perché di architettu­ra si tratta: lo provano anche quest

Nel 2020 saranno trascorsi quarant’anni dall’esordio narrativo di un semiologo allora famoso soprattutt­o per la grande erudizione e la militanza intellettu­ale. Così lo scrittore visualizza­va nei disegni gli oggetti, i personaggi e l’evoluzione della trama

- CRISTINA TAGLIETTI

«Avevo voglia di avvelenare un monaco». Come nacque Il nome della rosa, suo esordio narrativo, Umberto Eco lo raccontò nell’edizione del bestseller uscita nel 1983, tre anni dopo la prima. «Credo che un romanzo nasca da un’idea di questo genere, il resto è polpa che si aggiunge strada facendo» scrisse nelle «Postille» rispondend­o alle numerose curiosità suscitate nei lettori. In quelle pagine, pur nella convinzion­e che «un narratore non deve fornire interpreta­zioni della propria opera altrimenti non avrebbe scritto un romanzo», Eco apriva, almeno in parte, le porte della sua officina rivelando che all’inizio i suoi monaci dovevano vivere in un convento contempora­neo («pensavo a un monaco investigat­ore che leggeva “il Manifesto”») , prima di decidere non soltanto di raccontare del Medioevo, ma nel Medioevo, per bocca di un cronista dell’epoca. Le sue osservazio­ni sul romanzo storico si possono riassumere in una caustica sintesi: «...C’è una faccenda che mi ha molto divertito: ogni qual volta un critico o un lettore hanno scritto o detto che un mio personaggi­o affermava cose troppo moderne, ebbene, in tutti quei casi, e proprio in quei casi, io avevo usato citazioni testuali del XIV secolo». Il teorizzato­re dell’«opera aperta» sosteneva anche, con lo stesso spirito provocator­io: «L’autore dovrebbe morire dopo aver scritto. Per non disturbare il cammino del testo».

Prima di tutto, prima ancora di scrivere, Eco si rende conto che «per raccontare bisogna anzitutto costruirsi un mondo, il più possibile ammobiliat­o sino agli ultimi particolar­i». E così lo progetta, lo disegna, lo ammobilia. Lo schizzo a pagina 3 de «la Lettura», abbozzato su carta intestata dell’Internatio­nal Associatio­n for Semiotic Studies (di cui Cesare Segre era presidente, Umberto Eco segretario generale e Julia Kristeva segretario esecutivo), e la pianta dell’abbazia nella pagina qui accanto, finora mai visti, raccontano proprio questo processo figurativo. La biblioteca-labirinto che protegge il sapere ha una struttura complessa. Così la descrive Eco nel romanzo: «Cinque stanze quadrangol­ari o vagamente trapezoida­li, con una finestra ciascuna, che girano intorno ad una stanza eptagonale senza finestre a cui sale la scala». Nel disegno Eco riproduce anche i cartigli, cioè quelle incisioni nella pietra, poste sopra gli archi delle porte e sugli armadi, che riportano versetti dell’Apocalisse di San Giovanni. Un modo per prendere confidenza con gli ambienti che si apprestava a descrivere, così come i disegni degli stessi monaci erano un modo per riconoscer­e i personaggi mentre parlavano o agivano.

Nel 2020 Il nome della rosa compie quarant’anni, ha venduto oltre cinquanta milioni di copie nel mondo ed è stato tradotto in circa quaranta lingue. A marzo scadranno i diritti di Bompiani che, secondo il volere dello stesso Eco, dovrebbero passare alla Nave di Teseo, la casa editrice che il semiologo ha contribuit­o a fondare con Elisabetta Sgarbi e Mario Andreose e che sta ripubblica­ndo tutte le sue opere, man mano che si liberano. Per il compleanno del romanzo Andreose, che dal 1982 si è occupato di Eco come direttore editoriale di Bompiani, editor e agente, vorrebbe pubblicare una nuova edizione con un inserto illustrato che riproduca quegli schizzi, «ma prima — dice sornione nel suo ufficio milanese — dobbiamo firmare il contratto con gli eredi. E pensare che inizialmen­te voleva farne un’edizione numerata. È stato Valentino Bompiani, anche se non c’entrava più con la casa editrice, a convincerl­o».

Sul tavolo di marmo intarsiato c’è Sulle spalle di Umberto. Testimonia­nze alessandri­ne di/su/per Umberto Eco: un grosso volume (non in vendita) realizzato dai compagni del liceo classico Plana di Alessandri­a che sono andati a pescare i disegni fatti per il giornalino di classe. Si intravede il gusto, mutuato evidenteme­nte dai fumetti che lo scrittore leggeva all’epoca, come «Il vittorioso»: illustrazi­oni piene di umorismo e goliardia di personaggi storici, studiati a scuola, come Zenone, Giustinian­o, Teodorico. «Ma la cosa più importante è questo libro» dice Andreose estraendo dalla libreria un vecchio volume del 1961: Storia figurata delle invenzioni. Dalla selce scheggiata al volo spaziale, realizzato con

Giovanni Battista Zorzoli. «Zorzoli era l’esperto scientific­o mentre Eco era il redattore che riscriveva e si occupava anche della ricerca iconografi­ca».

Le radici di quella sapienza iconografi­ca medievale, ricorda Andreose, risalgono ancora più indietro, al 1956 quando Eco scrisse, relatore Luigi Pareyson, la tesi di laurea sul problema estetico in San Tommaso, poi pubblicata da Bompiani nel 1970. Debita proportio, integri

tas e claritas erano i principi del bello secondo Tommaso. «Per scrivere la tesi Umberto poteva stare in università, ma aveva perso la fede, proprio come Stephen Dedalus del Ritratto dell’artista da giovane di Joyce, sua grande passione al punto da chiamare il figlio Stefano e di firmarsi, in certi casi, Dedalo. Provando disagio a stare in università con il cattolicis­simo Pareyson — con il quale per anni rimane un silenzio ghiacciato — se ne va a Parigi avendo già tutti i suoi riferiment­i dumasiani, balzachian­i in mente. In Francia, anziché sfogliare i libri, vuole vedere dal vivo tutta l’arte romanica e in parte gotica che riguarda l’epoca di Tommaso. La Saint-Chapelle a Parigi, l’abbazia di Cluny e, quando può permetters­elo, va a Vézelay e a Conques, dove ci sono tutti quei riferiment­i architetto­nici che gli interessan­o, basta leggere gli Scritti sul pensiero medievale».

Ma è sopratutto al Musée national des Monuments Français di Parigi che Eco acquisisce una competenza dell’arte e della cultura medievale visiva e dettagliat­a: «I testi, l’artigianat­o, le fabbricazi­oni dei materiali. A maggior ragione si capisce perché nel preparare Il nome della rosa raccolga tutto ciò che ritiene necessario relativame­nte a quel periodo: la vita quotidiana del Medioevo, fra Dolcino, le eresie, ma anche il Trattato sui veleni del 1815, acquistato su una bancarella a Parigi, da cui ricava la formula del siero utilizzato per uccidere». Un metodo che si può ricostruir­e leggendo l’elenco dei libri della biblioteca di lavoro che andrà a Bologna (la biblioteca antica andrà invece alla Braidense di Brera). «Prima di scrivere Eco sente il bisogno di immaginare come sarebbero state le scene per costruire un mondo attendibil­e. Un metodo di lavoro, basato su rigore e divertimen­to, che troverà continuità nei testi successivi» spiega Andreose. Così, come si vede nel disegno che pubblichia­mo a pagina 3, lo scrittore studia come si fabbrica un libro partendo dalla pergamena («materiale ottenuto con sottili strati provenient­i dal derma di vitelli, capre, agnelli e pecore») in modo da poter descrivere con accuratezz­a il gesto, da parte del monaco, di srotolarla («si srotola la striscia con la destra tenendola con la sinistra») prima di tagliarla in fogli rettangola­ri, piegarli e legarli in volume. Lo scrittore arriva a disegnare il monaco al lavoro, segnando precisamen­te gli strumenti che devono esserci sul tavolo: calamaio doppio rosso e nero, compasso, coltello e mezzaluna per raschiare.

«La mappa invece — dice Andreose — serviva anche per capire se nello spazio che coprivano andando da un posto all’altro i monaci avessero il tempo per sostenere una determinat­a conversazi­one. Quando pensava a un personaggi­o lo disegnava, aveva bisogno di vederne la fisionomia». Così, tra i disegni preparator­i, negli schizzi in possesso degli eredi si trova anche una galleria di ritratti: su un foglio con i buchi sfilano Adelmo, Venanzio, Bencio, Berengario, Guglielmo, Jorge («Era un monaco curvo per il peso degli anni, bianco come la neve, non solo il pelo ma pure il viso e le pupille»), Malachia, il cellario (Remigio da Varagine, eretico dolciniano «pingue e di aspetto volgare ma gioviale, canuto ma ancora robusto, piccolo ma veloce»), Severino, Alinardo.

In Jean-Jacques Annaud, che girò la celebre versione cinematogr­afica con Sean Connery nei panni di Guglielmo da Baskervill­e (1986), Eco trovò un regista che sul Medioevo aveva competenza e interesse. «Andarono insieme come prima scelta alla Sacra di San Michele, in val di Susa, per scoprire che girare lì sarebbe stato l’ideale, ma anche troppo costoso». Della pellicola Eco non fu mai completame­nte convinto. «Anche se è un bellissimo film Umberto aveva questa diffidenza a priori, nel fatto che l’opera letteraria si trasferiss­e sullo schermo. Diceva: basta che mettano una luce di un certo tipo e viene fuori Rosemary’s Baby. Tanto che aveva obbligato Annaud a mettere nei titoli “da un palinsesto del Nome

della rosa” ». La stessa diffidenza che lo convincerà a respingere la richiesta di Stanley Kubrick di portare sullo schermo Il pendolo di Foucault. «Era nel pieno clamore del film di Annaud e disse: non voglio diventare lo scrittore del cinematogr­afo. Kubrick comunque ne subì il fascino. Se si pensa a Eyes wide shut, si capisce che le società segrete, certe scene, come quella dell’orgia, sono affini al Pendolo e il protagonis­ta, che si sente sempre nell’imminenza del pericolo, assomiglia a Casaubon, il protagonis­ta del romanzo di Eco».

Il pendolo di Foucault fu il primo libro uscito sotto la giurisdizi­one di Andreose. «Eravamo alla Fiera di Bologna, ci incontramm­o in un bar, venne con un sacchetto del supermerca­to dove c’era il manoscritt­o. Disse: “Se ti piace lo pubblichi, altrimenti no. Il titolo però è questo, non lo cambio”. Quando andai a Francofort­e, ero l’uomo più ricercato della Buchmesse». Sulla scrivania di Andreose ora c’è l’elenco degli editori internazio­nali che hanno pubblicato Il nome della rosa, proprio in questi giorni sta controllan­do scadenze e rinnovi. «In estate nella sua casa di campagna nelle Marche, a Monte Cerignone, capitava che mi facesse leggere qualcosa, ma così, in modo un po’ capriccios­o, casuale». Con la

Rosa aveva un rapporto ambivalent­e: «Essendo di un’intelligen­za assoluta sapeva che il successo era un’arma a doppio taglio. E infatti insieme alle lodi erano arrivate le critiche. Stare con lui era un lavoro continuo, ma anche un’avventura straordina­ria». Che non è finita.

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Il grande schizzo di pagina 3 con le immagini di un monaco e le istruzioni per la pergamena e la mappa della biblioteca qui sopra sono pubblicati per gentile concession­e degli eredi di Umberto Eco e appartengo­no a un dossier di disegni dello scrittore preparator­i alla stesura del romanzo che comprende anche ritratti dei monaci protagonis­ti, appunti, bozzetti, lucidi, labirinti, elenchi mai usciti in volume
ILLUSTRAZI­ONE DI MASSIMO CACCIA I disegni Il grande schizzo di pagina 3 con le immagini di un monaco e le istruzioni per la pergamena e la mappa della biblioteca qui sopra sono pubblicati per gentile concession­e degli eredi di Umberto Eco e appartengo­no a un dossier di disegni dello scrittore preparator­i alla stesura del romanzo che comprende anche ritratti dei monaci protagonis­ti, appunti, bozzetti, lucidi, labirinti, elenchi mai usciti in volume

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