Corriere della Sera - La Lettura
Nei ghetti o multiple I dilemmi delle identità
Il caso Si chiama «appropriazione culturale»: è un’ossessione americana. La conseguenza è che puoi scrivere di neri solo se sei nero, fare ironia sui gay solo se sei gay, usare tessuti nativi solo se sei un nativo. E così si creano nuovi recinti
Due spettri si aggirano sugli scrittori americani: quello delle own voices e quello del rischio di appropriazione culturale. Own voi
ces («voci proprie») è un termine di marketing destinato ai lettori, che segnala una nuova moda di storie scritte da autori che hanno una forma di vicinanza culturale, sociale, di genere o etnica con la storia che raccontano, vuoi perché fanno parte della stessa minoranza, vuoi perché hanno condiviso nella loro vita reale una forma di emarginazione, disagio, handicap o ribellione.
Questo indirizzo segue il tweet del maggio del 2018 dello scrittore per giovani adulti Kosoko Jackson: «Le storie sui movimenti civili dovrebbero essere scritte da autori neri. Le storie di suffragio da donne. Quindi le storie su ragazzi durante orrendi momenti di passaggio dovrebbero essere scritte da uomini gay. Cosa c’è di tanto difficile da capire?».
Moltissimo, direi. Chi la pensava come lui ha provato a sostenere che con le own voices il mercato Usa si sarebbe aperto a storie e voci diverse, senza accorgersi che semmai il vero problema è che si tratta di un mercato quasi totalmente impermeabile ad autori non-anglosassoni. Chi non era d’accordo ha giustamente segnalato che così facendo si sarebbe finito per far coincidere la fiction con l’autobiografia o l’auto-reportage.
Il passaggio immediatamente successivo è stato quello di rispolverare il concetto di appropriazione culturale, che aveva visto la sua origine nel periodo post-coloniale del secolo scorso, in particolare nel settore museale, quando si discusse, tanto per fare un esempio, se fosse giusto custodire al Louvre quanto portato lì da Napoleone, o a Berlino la porta di Ishtar, l’ottava porta della città interna di Babilonia, costruita attorno al 575 a. C. sotto il re Nabucodonosor II nella parte nord della città, e conservata dal 1930 al Pergamonmuseum della capitale tedesca (e far pagare il biglietto).
Gli elementi che fanno scattare il sospetto di appropriazione culturale sono quindi due: il primo è una dise
guaglianza di potere tra il background culturale del presunto «ladro» (ad esempio un uomo, bianco, newyorkese) e quello della cultura in cui risiedono i valori, simboli, credenze che si presumono rubati (per esempio una bambina che cresce in un villaggio della foresta amazzonica). Il secondo è lo sfruttamento economico che ne viene fatto: fiction, film, esposizioni, moda...
Già a spiegarla così non sarebbe niente di nuovo: la permeabilità culturale è sempre stata una conseguenza dei contatti e degli scontri tra i popoli, nonché una sorta di prezzo da pagare ai vincitori delle guerre. Il cambio di paradigma c’è se si comincia a definire lo scambio come un saccheggio. È una appropriazione culturale se Rihanna si veste come il Papa a una festa, o semplice cattivo gusto? Può il rapper bianco Eminem seguire i codici stilistici dei rapper neri? Che cosa succede quando Gucci trasforma il turbante dei sikh in accessorio di moda? O quando una griffe della moda usa tessuti dei nativi americani per vestire signore della up per class newyorkese? O, ancora: quando i produttori cinematografici scelgono Omar Sharif, egiziano, nel ruolo del Dottor Zivago o Idris Elba, nero, per Heimdall, divinità nordica bianca?
La mia risposta, in questo caso, è che vogliono il migliore attore possibile, così come quando il ruolo dell’Ermione di Harry Potter a teatro andò a una bambina nera. Ma la questione è interessante. Interrogata sul tema, J. K. Rowling ha fatto notare di non avere mai descritto nei libri la sua protagonista come bianca. Anche perché la scomparsa della descrizione fisica dei protagonisti è ormai pratica usuale degli scrittori anglosassoni. Ma è accortezza per i loro giovani lettori o ipocrisia dettata da regole editoriali? Io, quando mi invento un personaggio, lo vedo in un certo modo e faccio fatica a non descriverlo per come penso che debba essere.
Solo pochi anni fa, prima che queste regole dettassero l’agenda creativa di molti scrittori, la scrittrice fantasy Ursula K. Le Guin aveva ad esempio vivamente protestato quando aveva scoperto che nel fare il casting della serie tratta dai suoi romanzi di Earthsea erano stati scelti attori bianchi per parti che nel romanzo erano affidate a personaggi dalla pelle rossa o nera.
C’è una bella differenza tra scegliere la neutralità più totale e difendere una scelta. Tra i casi di accuse di appropriazione culturale ci sono Sophie Kinsella, per i suoi romanzi sulla comunità di nativi americani nella riserva di Hobbema; J. K. Rowling per il suo saggio sull’History of Magic in North America, per avere trattato riti e convinzioni religiose alla stregua di incantesimi fantasy; e Kathryn Stockett, l’autrice bianca di The Help, storia di una ragazza nera nell’America meridionale del 1960: il libro è stato in classifica per cento settimane sul «New York Times», è diventato un film di successo paragonato per intensità al Buio oltre la siepe, ma l’autrice si è detta pentita di averlo scritto, dato il numero di critiche ricevute sugli stereotipi e le cantonate con cui avrebbe descritto la vita di quella comunità.
Appropriazioni culturali o reazione sdegnosa — magari con un punta di invidia — per libri mal curati? Nel primo caso sarebbe colpa dell’autore. Nel secondo del suo editore. Agli scrittori si chiede di fare ricerca e di scrivere con empatia (che deriva dal germanico einfühlung, sentire sé stessi dentro un altro). Se invece, come sostiene Philip Hensher, quello dell’appropriazione culturale è più un problema di qualità del libro, che di identità, a peccare di ingenuità sono gli editor, incapaci di segnalare svarioni e correzioni, o di scegliere autori con buone storie diverse dal solito. La diversità di chi fa da filtro è un problema ben più grande di quello dei potenziali autori: il 95% degli agenti e degli editor che si occupano delle acquisizioni sono bianchi (Childress, 2017), e lo sono il 79% degli impiegati delle case editrici americane (Deahl, 2016). Non è forse qui che è più probabile si nasconda l’omogeneità creativa? Rick Riordan, l’autore di Percy Jackson che ha prima americanizzato senza farsi troppi problemi gli dei dell’Olimpo e poi quelli Norreni, senza che nessuno protestasse troppo, ora che deve far scrivere un libro di mitologia nativa americana ha cercato un autore nativo americano e ne vuole uno sino-americano per uno sulla mitologia cinese. Perché? E come lui molti autori anglosassoni, anziché buttarsi nella loro prossima storia, si domandando se è opportuno scriverla. Se loro, come autori, ne possono essere portatori sani e credibili.
Ma se occorre rappresentare con la propria vita le storie che si scriveranno, si confonde ancora una volta realtà e rappresentazione. Un autore non è ciò che scrive. E ciò che si scrive non è necessariamente l’autore, esattamente come interpretare un ruolo sul palcoscenico non significa essere quel personaggio o condividerne la storia e le inclinazioni. Come dice giustamente Al Kennedy, è creare, non rubare, e «l’unica risposta appropriata ai propri personaggi inventati è averne soggezione. È fare qualunque tipo di sforzo per renderli veri e vivi agli occhi dei lettori». Di sicuro non basta una qualche forma di condivisione di marginalità né una tonnellata di verità per rendere una storia interessante. Servono buone storie e buoni scrittori.
Chi spinge oltre il concetto di appropriazione culturale vorrebbe che fosse riconosciuta l’esistenza di proprietà intellettuale comune, una sorta di copyright del folklore. Ma gli strumenti preventivi di divieto rischiano di creare ancora più danni di quelli che si vorrebbero evitare quando viene scritta un’opera di scarsa qualità, superficiale e inaccurata. Non tutte le contaminazioni, influenze e contagi sono immediatamente monetizzabili. Pensate alla cucina, se non avete voglia di scomodare il post-modernismo: quando finalmente imparate a usare il curry, poco vi importa da quale cultura arrivi. Vi piace, e basta. E lo sentite vostro esattamente come a Napoli sentono loro i pomodori San Marzano (che arrivano da Asti).
La scrittrice Maggie Gee chiama gli scrittori dei «bastardi molto fortunati». Non sono soli: fanno parte di un meccanismo produttivo che dovrebbe tutelarli dai loro stessi svarioni. Di sicuro hanno la responsabilità di farsi aiutare a immaginare ciò che non possono immaginare da soli. Nel mio L’ombra di Amadeus (Piemme) ho chiesto a mia moglie di scrivere la scena del parto, nonostante avessi assistito alla nascita di mia figlia. Per il
Principe della città di sabbia (Mondadori), che è ambientato in un villaggio Dogon, ho diviso responsabilità e royalties con un coautore del Burkina-Faso.
Ma proprio perché esiste un’etica degli scrittori, e ci sono ottimi scrittori e pessimi scrittori, presumere un’appropriazione o chiedere, come sta accadendo in questo diffuso clima culturale, un’aderenza degli autori alle loro own voices, come se un cantante non potesse cantare canzoni diverse da quella che canterebbe sotto la doccia, è svilire un’intera categoria professionale, per proteggere la pochezza intellettuale dei mediatori. Agli scrittori — a quelli bravi — piace il confronto serrato con un editor all’altezza. Ma sono sconfortati dal vedere concetti potenzialmente importanti sviliti da pratiche di moda e slogan di copertina per acchiappare il lettore debole di turno. Philip K. Dick, uno dei più geniali esponenti e critici del sistema culturale americano, disse: se pensate che questo mondo faccia schifo, aspettate di vedere gli altri.
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