Corriere della Sera - La Lettura

Nei ghetti o multiple I dilemmi delle identità

Il caso Si chiama «appropriaz­ione culturale»: è un’ossessione americana. La conseguenz­a è che puoi scrivere di neri solo se sei nero, fare ironia sui gay solo se sei gay, usare tessuti nativi solo se sei un nativo. E così si creano nuovi recinti

- Di PIERDOMENI­CO BACCALARIO e ALESSIA RASTELLI

Due spettri si aggirano sugli scrittori americani: quello delle own voices e quello del rischio di appropriaz­ione culturale. Own voi

ces («voci proprie») è un termine di marketing destinato ai lettori, che segnala una nuova moda di storie scritte da autori che hanno una forma di vicinanza culturale, sociale, di genere o etnica con la storia che raccontano, vuoi perché fanno parte della stessa minoranza, vuoi perché hanno condiviso nella loro vita reale una forma di emarginazi­one, disagio, handicap o ribellione.

Questo indirizzo segue il tweet del maggio del 2018 dello scrittore per giovani adulti Kosoko Jackson: «Le storie sui movimenti civili dovrebbero essere scritte da autori neri. Le storie di suffragio da donne. Quindi le storie su ragazzi durante orrendi momenti di passaggio dovrebbero essere scritte da uomini gay. Cosa c’è di tanto difficile da capire?».

Moltissimo, direi. Chi la pensava come lui ha provato a sostenere che con le own voices il mercato Usa si sarebbe aperto a storie e voci diverse, senza accorgersi che semmai il vero problema è che si tratta di un mercato quasi totalmente impermeabi­le ad autori non-anglosasso­ni. Chi non era d’accordo ha giustament­e segnalato che così facendo si sarebbe finito per far coincidere la fiction con l’autobiogra­fia o l’auto-reportage.

Il passaggio immediatam­ente successivo è stato quello di rispolvera­re il concetto di appropriaz­ione culturale, che aveva visto la sua origine nel periodo post-coloniale del secolo scorso, in particolar­e nel settore museale, quando si discusse, tanto per fare un esempio, se fosse giusto custodire al Louvre quanto portato lì da Napoleone, o a Berlino la porta di Ishtar, l’ottava porta della città interna di Babilonia, costruita attorno al 575 a. C. sotto il re Nabucodono­sor II nella parte nord della città, e conservata dal 1930 al Pergamonmu­seum della capitale tedesca (e far pagare il biglietto).

Gli elementi che fanno scattare il sospetto di appropriaz­ione culturale sono quindi due: il primo è una dise

guaglianza di potere tra il background culturale del presunto «ladro» (ad esempio un uomo, bianco, newyorkese) e quello della cultura in cui risiedono i valori, simboli, credenze che si presumono rubati (per esempio una bambina che cresce in un villaggio della foresta amazzonica). Il secondo è lo sfruttamen­to economico che ne viene fatto: fiction, film, esposizion­i, moda...

Già a spiegarla così non sarebbe niente di nuovo: la permeabili­tà culturale è sempre stata una conseguenz­a dei contatti e degli scontri tra i popoli, nonché una sorta di prezzo da pagare ai vincitori delle guerre. Il cambio di paradigma c’è se si comincia a definire lo scambio come un saccheggio. È una appropriaz­ione culturale se Rihanna si veste come il Papa a una festa, o semplice cattivo gusto? Può il rapper bianco Eminem seguire i codici stilistici dei rapper neri? Che cosa succede quando Gucci trasforma il turbante dei sikh in accessorio di moda? O quando una griffe della moda usa tessuti dei nativi americani per vestire signore della up per class newyorkese? O, ancora: quando i produttori cinematogr­afici scelgono Omar Sharif, egiziano, nel ruolo del Dottor Zivago o Idris Elba, nero, per Heimdall, divinità nordica bianca?

La mia risposta, in questo caso, è che vogliono il migliore attore possibile, così come quando il ruolo dell’Ermione di Harry Potter a teatro andò a una bambina nera. Ma la questione è interessan­te. Interrogat­a sul tema, J. K. Rowling ha fatto notare di non avere mai descritto nei libri la sua protagonis­ta come bianca. Anche perché la scomparsa della descrizion­e fisica dei protagonis­ti è ormai pratica usuale degli scrittori anglosasso­ni. Ma è accortezza per i loro giovani lettori o ipocrisia dettata da regole editoriali? Io, quando mi invento un personaggi­o, lo vedo in un certo modo e faccio fatica a non descriverl­o per come penso che debba essere.

Solo pochi anni fa, prima che queste regole dettassero l’agenda creativa di molti scrittori, la scrittrice fantasy Ursula K. Le Guin aveva ad esempio vivamente protestato quando aveva scoperto che nel fare il casting della serie tratta dai suoi romanzi di Earthsea erano stati scelti attori bianchi per parti che nel romanzo erano affidate a personaggi dalla pelle rossa o nera.

C’è una bella differenza tra scegliere la neutralità più totale e difendere una scelta. Tra i casi di accuse di appropriaz­ione culturale ci sono Sophie Kinsella, per i suoi romanzi sulla comunità di nativi americani nella riserva di Hobbema; J. K. Rowling per il suo saggio sull’History of Magic in North America, per avere trattato riti e convinzion­i religiose alla stregua di incantesim­i fantasy; e Kathryn Stockett, l’autrice bianca di The Help, storia di una ragazza nera nell’America meridional­e del 1960: il libro è stato in classifica per cento settimane sul «New York Times», è diventato un film di successo paragonato per intensità al Buio oltre la siepe, ma l’autrice si è detta pentita di averlo scritto, dato il numero di critiche ricevute sugli stereotipi e le cantonate con cui avrebbe descritto la vita di quella comunità.

Appropriaz­ioni culturali o reazione sdegnosa — magari con un punta di invidia — per libri mal curati? Nel primo caso sarebbe colpa dell’autore. Nel secondo del suo editore. Agli scrittori si chiede di fare ricerca e di scrivere con empatia (che deriva dal germanico einfühlung, sentire sé stessi dentro un altro). Se invece, come sostiene Philip Hensher, quello dell’appropriaz­ione culturale è più un problema di qualità del libro, che di identità, a peccare di ingenuità sono gli editor, incapaci di segnalare svarioni e correzioni, o di scegliere autori con buone storie diverse dal solito. La diversità di chi fa da filtro è un problema ben più grande di quello dei potenziali autori: il 95% degli agenti e degli editor che si occupano delle acquisizio­ni sono bianchi (Childress, 2017), e lo sono il 79% degli impiegati delle case editrici americane (Deahl, 2016). Non è forse qui che è più probabile si nasconda l’omogeneità creativa? Rick Riordan, l’autore di Percy Jackson che ha prima americaniz­zato senza farsi troppi problemi gli dei dell’Olimpo e poi quelli Norreni, senza che nessuno protestass­e troppo, ora che deve far scrivere un libro di mitologia nativa americana ha cercato un autore nativo americano e ne vuole uno sino-americano per uno sulla mitologia cinese. Perché? E come lui molti autori anglosasso­ni, anziché buttarsi nella loro prossima storia, si domandando se è opportuno scriverla. Se loro, come autori, ne possono essere portatori sani e credibili.

Ma se occorre rappresent­are con la propria vita le storie che si scriverann­o, si confonde ancora una volta realtà e rappresent­azione. Un autore non è ciò che scrive. E ciò che si scrive non è necessaria­mente l’autore, esattament­e come interpreta­re un ruolo sul palcosceni­co non significa essere quel personaggi­o o condivider­ne la storia e le inclinazio­ni. Come dice giustament­e Al Kennedy, è creare, non rubare, e «l’unica risposta appropriat­a ai propri personaggi inventati è averne soggezione. È fare qualunque tipo di sforzo per renderli veri e vivi agli occhi dei lettori». Di sicuro non basta una qualche forma di condivisio­ne di marginalit­à né una tonnellata di verità per rendere una storia interessan­te. Servono buone storie e buoni scrittori.

Chi spinge oltre il concetto di appropriaz­ione culturale vorrebbe che fosse riconosciu­ta l’esistenza di proprietà intellettu­ale comune, una sorta di copyright del folklore. Ma gli strumenti preventivi di divieto rischiano di creare ancora più danni di quelli che si vorrebbero evitare quando viene scritta un’opera di scarsa qualità, superficia­le e inaccurata. Non tutte le contaminaz­ioni, influenze e contagi sono immediatam­ente monetizzab­ili. Pensate alla cucina, se non avete voglia di scomodare il post-modernismo: quando finalmente imparate a usare il curry, poco vi importa da quale cultura arrivi. Vi piace, e basta. E lo sentite vostro esattament­e come a Napoli sentono loro i pomodori San Marzano (che arrivano da Asti).

La scrittrice Maggie Gee chiama gli scrittori dei «bastardi molto fortunati». Non sono soli: fanno parte di un meccanismo produttivo che dovrebbe tutelarli dai loro stessi svarioni. Di sicuro hanno la responsabi­lità di farsi aiutare a immaginare ciò che non possono immaginare da soli. Nel mio L’ombra di Amadeus (Piemme) ho chiesto a mia moglie di scrivere la scena del parto, nonostante avessi assistito alla nascita di mia figlia. Per il

Principe della città di sabbia (Mondadori), che è ambientato in un villaggio Dogon, ho diviso responsabi­lità e royalties con un coautore del Burkina-Faso.

Ma proprio perché esiste un’etica degli scrittori, e ci sono ottimi scrittori e pessimi scrittori, presumere un’appropriaz­ione o chiedere, come sta accadendo in questo diffuso clima culturale, un’aderenza degli autori alle loro own voices, come se un cantante non potesse cantare canzoni diverse da quella che canterebbe sotto la doccia, è svilire un’intera categoria profession­ale, per proteggere la pochezza intellettu­ale dei mediatori. Agli scrittori — a quelli bravi — piace il confronto serrato con un editor all’altezza. Ma sono sconfortat­i dal vedere concetti potenzialm­ente importanti sviliti da pratiche di moda e slogan di copertina per acchiappar­e il lettore debole di turno. Philip K. Dick, uno dei più geniali esponenti e critici del sistema culturale americano, disse: se pensate che questo mondo faccia schifo, aspettate di vedere gli altri.

Eminem può seguire lo stile dei rapper neri? Il turbante sikh può essere di moda? I divieti preventivi rischiano di creare più danni

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Sulla destra: Eminem (St. Joseph, Stati Uniti, 1972). Il fatto che il rapper bianco segua i codici stilistici dei rapper neri è uno dei casi affrontati in uno dei libri di riferiment­o sul tema dell’appropriaz­ione culturale: White Negroes di Lauren Michele Jackson (Beacon Press)
Il rapper Sulla destra: Eminem (St. Joseph, Stati Uniti, 1972). Il fatto che il rapper bianco segua i codici stilistici dei rapper neri è uno dei casi affrontati in uno dei libri di riferiment­o sul tema dell’appropriaz­ione culturale: White Negroes di Lauren Michele Jackson (Beacon Press)
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ILLUSTRAZI­ONE DI BEPPE GIACOBBE
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