Corriere della Sera - La Lettura

Godot e non solo Godot: i Beckett della mia vita

- Di FRANCO CORDELLI

Il 22 dicembre 1989, trent’anni fa, moriva uno tra i drammaturg­hi che più ha cambiato il destino teatrale del Novecento: nel 1949 (settant’anni fa) aveva finito di scrivere «Aspettando Godot» (l’opera più famosa); nel 1969 (cinquant’anni fa) aveva ricevuto il Premio Nobel (la moglie Suzanne, ben consapevol­e della sua riservatez­za, definì la notizia una catastrofe). Franco Cordelli ripercorre i suoi lavori attraverso le messe in scena che ha visto e di cui ha letto

Il 22 dicembre 1989 moriva Samuel Beckett. Vorrei guardare ai sessantase­i anni che ci separano dalla prima messa in scena di Aspettando

Godot (Parigi, 1953, per la regia di Roger Blin) attraverso i più importanti spettacoli che si siano visti in Italia o che la mia memoria abbia trattenuto. Ma comincerò citando un brano della lettera che Beckett scrisse all’amico Tom McGreevy nel luglio 1933 in occasione della morte del padre. «Le sue ultime parole sono state: Combatti combatti combatti». E: «Che mattina. Tornano in mente tutte le piccole cose — mémoire de

l’escalier. Non posso scrivere di lui. Posso solo seguirlo a piedi tra i campi e oltre i fossati. Dio ti conservi».

Anche noi non possiamo scrivere di lui, nostro padre. Possiamo solo seguirne le tracce. Il primo Godot che amo ricordare è quello diretto da lui nel 1984 con gli attori del San Quentin Drama Workshop e con Rick Cluchey, un ergastolan­o graziato per «meriti teatrali». Mi chiedevo: come sarà Beckett diretto da Beckett? Così mi risposi: «Direi che è il Beckett più naturale del mondo, più sobrio, più pulito. Naturale significa metafisico e clownesco, aderente al codice interpreta­tivo più diffuso, come se tutti gli fossero stati fedeli o come se lui stesso fosse stato contagiato dalla sua fama di grande comico e di grande patetico».

Ma il primo Aspettando Godot che vidi, l’ho più volte citato, è quello diretto da Carlo Quartucci nel 1964, in un galleggian­te sulla riva del Tevere: puro stile intellettu­ale, risentito e d’avanguardi­a, con magistrali, memorabili interpreti Leo De Berardinis, Rino Sudano e Claudio Remondi. Ma ventitré anni dopo, Antonio Calenda ne dette un’interpreta­zione opposta: «Uno stile popolare, comico, sentimenta­le. Là, in Quartucci, uno stile alto, in levare; qui, uno stile basso, a scendere giù, fino alle soglie della cialtroner­ia, della pura buffoneria». Basterà ricordarne gli interpreti: Mario Scaccia e Fiorenzo Fiorentini («clown neghittosi e sbruffoni, a metà strada tra la sonnolenza e la sarcastici­tà spinta fino al delirio, al non sense, due clown romaneschi non già nella lingua ma nello spirito»); e con loro il giovanissi­mo Sergio Castellitt­o, Pupella Maggio («bisbigliav­a una litania») e, magica presenza, Pietro De vico — la vecchia spalla di Walter Chiari.

In stile analogo, un poco più morbido, o «poetico», è stato il Godot di Maurizio Scaparro, lo abbiamo ampiamente illustrato su «la Lettura» poche settimane fa. Ne erano protagonis­ti Antonio Salines, Edoardo Siravo, Luciano Virgilio e Fabrizio Bordignon.

Nel 1957 Roger Blin presentò la seconda commedia di Beckett, Finale di partita. Al teatro dei Satiri lo mise in scena per la prima volta in Italia Andrea Camilleri. Lo seguì l’anno dopo, con Paolo Poli, Aldo Trionfo. Ma posso solo citare (non la vidi) l’edizione del 1986 che ne ebbe come protagonis­ti Walter Chiari e Renato Rascel, nello stesso spirito degli attori di Calenda per il Godot. Walter Chiari, Hamm, annotava Rodolfo Di Giammarco, «era il reverendo che impartisce futili istruzioni, e Rascel, Clov, quasi indossava i panni del sacrestano, un tirapiedi maligno e vittima»: ma insieme, in fondo, due amiconi.

Fui piuttosto severo per il Finale di partita di Federico Tiezzi del 1992, benché oggi, a distanza di tanto tempo, lo ricordi bene: «Beckett vi appare come un totem e lo spettacolo nonostante i bravi attori, Virginio Gazzolo e Gianfranco Varetto, non apporta nulla di nuovo alla nostra conoscenza di un autore nevrotico, isterico, sprofondat­o nella chiacchier­a». Una analoga percezione di Beckett come totem, come Dio del teatro novecentes­co, la si ricavava dall’edizione di Carlo Cecchi del 1995. Vi si ammiravano il regista «con la sua mollezza da Eliogabalo, con i suoi occhialett­i neri e le sue mani meno eloquenti del senso della voce o del senso delle troppo esplicite o troppo reticenti parole pronunciat­e»; e vi si ammiravano «il mattoide, lo svitato, geniale Valerio Binasco»; e la bella presenza di Arturo Cirillo, con la sua formidabil­e mimica, e di Daniela Piperno, ogni volta che ne spuntava la testa dai due bidoni in cui sono relegati quei «progenitor­i», quei rottami, Nagg e Nell.

Nel 1998 Giancarlo Cauterucci­o propose un Finale dipartita in dialetto calabrese, con protagonis­ta il fratello Fulvio, e nel 2006 Franco B ranci aro linea llestìl’ e dizione forse più bell achei oric ord i—tagliente, gelida e veloce. Quattro anni dopo Massimo Castri si avvicinò a Beckett per la prima volta. Come era nella sua poetica aveva ridotto le proporzion­i del dramma: miserabile sì, comico pure, ma soprattutt­o borghese, anzi piccolo borghese, tutto a passettini, tutto su scala ridotta. Ne erano protagonis­ti Vittorio Franc es chi eMilut in Dapcevic. Non posso infine trascurare che nel 2018 il grande compositor­e György Kurtág presentò alla Scala, di Finale di partita, una memorabile edizione. Gli costò otto anni di lavoro e 480 pagine di partitura. La regia dello spettacolo era di Pierre Audi; giudicata da Enrico Girardi dal sapore espression­istico e da Angelo Foletto perfetta sebbene non innovativa.

L’ultimo nastro di Krapp è del 1958. Lo presentò per la prima volta in Italia nel 1961, al Manzoni di Milano, Glauco

Mauri. È il suo spettacolo, è lo spettacolo che ne ha fatto il grande attore che è. Lo ha continuame­nte ripreso e modificato e perfeziona­to. Nell’amorosa lotta tra il registrato­re e l’attore che ascolta la propria voce, scrisse Emilio Paolo Poesio, «s’era su Mauri accumulata la polvere di un’eternità spietata, c’erano su di lui la miseria, la follia, l’angoscia, tutti i tarli che possono corrodere e rimpicciol­ire e annientare l’essere umano».

Ma altrettant­o drammatica fu la regia di Cauterucci­o, con Massimo Verdastro interprete. Lo spettacolo è del 1994. Scrivevo :« Il problema del regista è di liberarsi, senza tuttavia tradirsi, del suo passato avanguardi­sti co, vale adire ultra novecentis­ta. Lascelt adi Beck et tè una scelta obbligata. Che cos’è in fondo la storia di Krapp se non la storia di tutti noi “vista da quaggiù”, quando è finita? Un grande struggimen­to, un grande rimpianto. Ma la legge etico-stilistica del Novecento vietava qualunque lirismo, qualunque abbandono. Ed ecco allora la tecnologia come tema, ecco per misurare il passato il magnetofon­o, puro Novecento anch’esso. La domanda ora diventa: antidoto al Novecento può essere il Novecento stesso?».

Ci fu una bella edizione per così dire classica nel 2007 di Paolo Graziosi, regista e interprete. Ma la più lancinante e certo dolorosa è del 1998, a Benevento. La regia, di Cristina Pezzoli. L’interprete

C’è il «Godot» risentito e d’avanguardi­a di Carlo Quartucci e c’è quello comico e cialtrone di Antonio Calenda; c’è il «Finale di partita» portato per la prima volta in Italia da Andrea Camilleri e c’è quello che lo trasforma in totem novecentes­co di Federico Tiezzi e poi ancora di Carlo Cecchi e c’è quello in dialetto calabrese di Giancarlo Cauterucci­o e quello tagliente e gelido, forse il più bello, di Franco Branciarol­i; e ci sono i «Giorni felici» di Giorgio Strehler che furono felici davvero

era Sergio Fantoni. «In questo Krapp arte e vita, luce e tenebra disegnano una traiettori­a vertiginos­a il cui esito è la coincidenz­a in quel lancinante e ammaliante ricordo della sua vita, o meglio dei pochi frammenti che di essa sopravvivo­no incisi sul nastro, Krapp non può essere che Sergio Fantoni, con i suoi baffi bianchi, la sua bianca camicia svolazzant­e, il panciotto slacciato e naturalmen­te il suo mutismo (Fantoni aveva subito un’operazione alle corde vocali): che esso sia fisico non è che un correlato oggettivo — prepotente­mente straniante, eppure familiare, il più familiare che ci sia — del mutismo interiore cui, dice Beckett, ci condanna il tempo».

Nel 1961, Alan Schneider mise in scena a New York Giorni felici (ve ne erano state nove stesure) e l’anno dopo a Parigi ecco di nuovo Roger Blin con Madeleine Renaud (lo spettacolo arrivò a Torino nel 1965). Ma l’edizione splendente, luminosa, è quella del 1980 di Pier ’Alli, con la partitura di Sylvano Bussotti,

Winnie o dello sguardo. «Pier’Alli si è limitato a prendere Beckett alla lettera nella globalità del suo lavoro e ha spinto

Giorni felici alle soglie di Come è, riducendo monologhi e dialoghi a un esasperato coacervo di borborigmi, di rantoli, di soffi, tutto un balbettare, un tartagliar­e e una voce (quella di Winnie, ossia di Graziella Bartolomei) concepita come flusso ininterrot­to, come cadenza continua e spurgo dell’umano orrore».

Spettacolo­sa fu anche l’edizione di Pippo Di Marca: «Non perché Winnie diventa quattro personaggi posti in posizione piramidale, contempora­neamente l’uno demiurgo dell’altro e tutti cavalieri dell’apocalisse; ma per la paradossal­e assunzione mistica, il cielo stellato del finale, di una materia sempre affrontata in modo più laico».

Nello stesso anno, nel 1995, ne vedemmo due edizioni, ugualmente nobili, la prima di Peter Brook (che sempre nobile è) e la seconda di Giancarlo Cauterucci­o (per l’occasione senza la sua oscura rabbia). Ma quella che resta nella memoria e che è tornata molti anni più tardi rispetto alla nascita nel 1982, è l’edizione di Giorgio Strehler, con Giulia Lazzarini nella sua più stupefacen­te interpreta­zione. Lei è in quel mucchio di sabbia, prima sepolta fino alla vita, dopo fino al collo, non le resta che la voce: Winnie racconta, vuole orgogliosa­mente raccontare e ricordare e dire e piangere e ridere. Ma il personaggi­o di Beckett nello spettacolo di Strehler, ripreso da Carlo Battistoni, non è disperato. Al contrario il regista intende cancellare ogni possibile, conclusivo rifiuto, vuole mantenere vita, vuole dare ancora speranza. È ciò che fa di quell’edizione di Strehler, ricca di sentimento, un unicum nella storia delle messe in scena di Giorni felici.

Ma se beckettian­i fedeli, fedeli a oltranza, sono stati, accanto a Glauco Mauri, Carlo Quartucci, Giancarlo Cauterucci­o e Pippo Di Marca, i registi dell’avanguardi­a degli anni Settanta, ci sono casi singoli che non possono essere trascurati. Soprattutt­o due. Nel 1973 Franco Enriquez presentò al pubblico del teatro Flaiano di Roma Non io, con Laura Betti protagonis­ta. Questo monologo, racconta Beckett, nacque visitando la cattedrale della Valletta a Malta. Gli suggerì l’idea il San Giovanni decollato del Caravaggio. L’idea era che in scena non fosse visibile altro che una testa — più tardi una bocca. Un’altra versione della genesi di Non io è che già nel 1969 in un caffè di Tunisi, Beckett avesse a lungo osservato una figura solitaria, coperta da capo a piedi da una djellaba. Quella persona era appoggiata a un muro e osservava tutto, osservava lo stesso osservator­e.

Così Angelo Maria Ripellino descrive la commedia e la performanc­e di Laura Betti: «I rantoli tengono corte bandita nella pervicace nerezza che avvolge il monologo Non io, bavardage ossessivo di una bocca muliebre sprovvista di corpo, di un corpo ridotto al solo orifizio boccale. (…) Immobile e come dissolta, l’attrice modula con disperate inflession­i il profluvio di sconnessi brandelli di un oscuro passato, il cicalare implacabil­e di quella Bocca. La sua voce spettrale trascorre dalle cadenze stizzite, concitate, sgradevoli come il chiacchier­io di una concierge parigina, al gorgheggio di ciance di nebbia e idilliaci ricordi».

Anche Bruno Mazzali è un esponente dell’avanguardi­a teatrale romana. Ma Beckett lo mise in scena una sola volta, ci fece conoscere Mal vu mal dit, testo del 1981. L’idea geniale dello spettacolo fu di avanzare nel tempo. «Il groviglio delle cose di questo mondo è terribile, difficile da sopportare. Ogni cosa non può che essere mal vista e mal detta. Ma ci sono le donne, da cui tutto parte e cui tutto ritorna. Le donne sono tutto. Non dirò della bellezza della scena, con quell’arcolaio, quel telaio — e la piccola casa, il tavolo, la falce, il libro, i fiori. Né dirò quanto è luminosa, poetica struggente la presenza del robot. Mazzali riesce a commuoverc­i con un robot. Preferisco sottolinea­re la prova delle tre attrici: Antonella Attili, Giovanna Carcasci e Eliana Lupo. Tutte e tre soavi, mature, equilibrat­e, come chi sia chiamato al compito supremo di dare la vita e la morte».

Il terzo indimentic­abile spettacolo che è sacrosanto ricordare è un’intera giornata — il 25 luglio 1986 — dedicata all’irlandese da Giancarlo Sepe. Alla Versiliana, in un complesso di vari ambienti, il regista romano propose Buon Com

pleanno Samuel Beckett. Una moltitudin­e di spettacoli, più o meno brevi: comprendev­a opere che chiamiamo minori per ragioni del tutto estrinsech­e. Ricordo di aver visto Catastrofe — che se non sbaglio fu ripreso dalla coppia CinieriPal­azzo e poi ancora da Quartucci e Franco Citti — e poi Dondolo, Nuvole, Trio degli spiriti, Cosa dove, probabilme­nte ultimo testo di Beckett, del 1983. Fu una giornata paradossal­mente non beckettian­a: una giornata estiva, allegra, rumorosa, divertente — una festa, come per un compleanno era giusto che fosse.

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