Corriere della Sera - La Lettura
Le case degli scrittori e poi le mie finestre
Évelyne Bloch-Dano, francese, 71 anni, ha esplorato decine di case di scrittori: lì ha trovato le origini dei loro libri, la natura della loro anima e, spesso, sé stessa. Talvolta è stato un oggetto a evocare un mondo: la minuscola scrivania di Balzac, la poltrona di Mallarmé, la macchina per scrivere di Karen Blixen, il giardino d’oro e di porpora di Colette, il tavolo su cui Alexandra David-Néel trascriveva i suoi resoconti da Lhasa, i mobili e i tappeti di Dickens, il castello del Conte di Montecristo di Dumas... E ancora: Brecht, Camus, Céline, Erasmo, Hemingway, Hugo, Montaigne, Nietzsche, Poe, Verne, Zola... Poi Évelyne BlochDano è tornata nella sua casa, nelle sue case, a guardare giù in strada...
All’uscita della metropolitana, attraversando il viale Stéphane Mallarmé, mi sorprendo sempre ad alzare gli occhi verso la finestra del quarto piano. Fino alla fine, i miei genitori hanno scostato la tenda del salotto per farci un segno con la mano. Spiavano il nostro arrivo, o ci lanciavano un ultimo saluto. Bisognava fermarsi e rispondere con un ampio gesto. Da adolescente, questo mi dava fastidio. La loro sollecitudine mi perseguitava fuori casa e attentava alla mia libertà. Ritenevo che la s strada non dovesse essere di loro competenza. Poi, diventando madre a mia volta, ho capito quell’ultimo sguardo sul figlio che lascia la casa. La finestra del quarto piano è ormai muta. Un giorno l’appartamento sarà abitato da nuovi inquilini. Una finestra illuminata mi darà l’illusione che nulla sia cambiato. Eppure, altre sagome vi si intravederanno.
Bisognerebbe scrivere sul passato senza nostalgia. Ma la nostalgia è il gusto di ciò che fu un giorno e che più non sarà, di ciò che scompare e del poco che rimane, la nostalgia è una pianta tossica che cresce naturalmente con gli anni, con la perdita, con il ricordo, con i miraggi della memoria. La sua amarezza è paragonabile solo alla sua dolcezza. Ho scritto Le case dei miei
scrittori per imparare a separarmi dall’appartamento della mia giovinezza. Ma ogni parola, ogni gesto fanno sì che mi ci affezioni un po’ di più. Il rumore del traffico, il rombo degli autobus, le accelerazioni delle automobili, le sirene dei pompieri, i clacson compongono una musica familiare. Con le finestre aperte, è insopportabile. Ma i doppi vetri, che un tempo non esistevano, lasciano filtrare, attenuato, l’accompagnamento della mia infanzia. Lo sbuffo degli autobus, l’odore della metropolitana, la pioggia sull’asfalto, la polvere, l’anidride carbonica, le luci che si accendono intorno alla piazza, i passi dei vicini sopra la mia testa, il cigolio dell’ascensore li ho assorbiti per anni, impregnano le mie prime sensazioni, che non ritrovo in nessun’altra parte se non qui, proprio qui. Un’altra strada, e sarebbe un’altra luce, altri suoni, altri odori.
Mi piace questo quartiere che non ha nulla di piacevole, perché non ha nulla di piacevole: né monumenti, né turisti, né negozi eleganti, ma edifici eterogenei e grigi, fermate dell’autobus, stazioni della metropolitana, spazi vuoti, un tracciato informe, un sotterraneo, una chiesa dietro la tangenziale. La piazza della Porte de Champerret non ha alcun fascino. Nessuna nobiltà. Non è neanche alla moda, come certi angoli di Parigi. Sfugge alla museificazione, alla fossilizzazione. Un luogo di passaggio ai bordi della città, un vago capolinea circolare, una vecchia zona, un confine, un margine. Ma occorre una terra per fabbricare un luogo che abbia le sue tipicità? Dell’humus per le radici? Alcuni mettono in fila con fierezza secoli di sedentarietà. Altri si inorgogliscono o si affliggono per i vagabondaggi familiari.
È scesa la notte. Insegne di tutti i colori circondano la piazza, gli autobus avanzano come vermi lucenti, i semafori lampeggiano, il fascio luminoso della Tour Eiffel esplora i tetti. Le campane della chiesa Sainte-Odile suonano i vespri. Ascoltandole, ci si potrebbe credere in un villaggio.
Fino ai sei anni, la percezione che avevo della strada era modellata dal mio punto di osservazione al settimo
piano. Le persone erano piccole piccole, come bambole e soldatini di piombo, auto Dinky Toys che circolavano lontano da me. In via Jean Moréas, invece, eravamo a metà altezza, al quarto piano. I passanti, le auto si vedevano più distintamente, erano più interessanti, più vari ma meno poetici. Non si prestavano più così facilmente ai giochi dell’immaginazione. Li vedevo meglio, li distinguevo malgrado la mia miopia. Ero cresciuta, e non ero più obbligata a stare in punta di piedi per guardare dalla finestra. Potevo appannare i vetri soffiando a bocca aperta, disegnarvi sopra con il dito, con disappunto di mia madre, o appoggiarvi le labbra per sentirne il freddo. L’assenza di vis-à-vis dal lato della strada ingrandiva le prospettive ma riduceva gli edifici dell’altro lato della piazza a un semplice scenario, a un ambiente naturale, che sarebbe potuto anche essere un anfiteatro roccioso. Lì vedevo il sole tramontare, le luci accendersi. Seduta sulla poltrona del salotto, oggi faccio una verifica: non si vedono che la parte alta degli edifici e il cielo. Posso allora abbandonarmi alla fantasticheria.
Continuo a preferire i piani alti, purché lascino circolare lo spazio, il vuoto. Ho bisogno delle prospettive, nello spazio come nella vita. Detesto le stradine, gli orizzonti chiusi, le costrizioni. Se mi piace tanto Palermo è perché, persino nella strada più stretta, il sole gioca con l’ombra attraverso gli anfratti, le frane, le scale, i palazzi con le finestre spalancate, le recinzioni da cui si intravedono meraviglie, i chiostri dove si diffonde la luce, gli edifici incompiuti, le pattumiere rovesciate. Mi piace il quartiere della Kalsa dove il vento della storia ha spazzato via vetri e tetti, mettendo a nudo l’ossatura della bellezza. Dalla terrazza dell’albergo mi piace contemplare la città quando si riveste di oro e di azzurro. Sperando che a sua volta, come Venezia o Parigi, non diventi un museo e mantenga la propria vitalità scompigliata!
Nella camera di servizio che dopo la licenza liceale occupavo all’ottavo piano del nostro edificio rimanevo incantata davanti allo spettacolo del cielo e dei tetti. Le mansarde una volta riservate ai domestici erano spesso abitate da studenti, poiché sempre più raramente le famiglie potevano permettersi personale a tempo pieno offrendogli alloggio, vitto, biancheria. Fra amici ci scambiavamo le visite. I nostri amori nascevano lì, su letti stretti, sotto le luci oblique di un vasistas.
Negli edifici haussmaniani dei quartieri eleganti, le mansarde erano minuscole, senza riscaldamento e senz’acqua. Nelle abitazioni meno lussuose degli anni Trenta, invece, erano state previste stanze di una quindicina di metri quadri, luminose, con riscaldamento e acqua corrente. Solo i gabinetti alla turca, sul pianerottolo, erano comuni a tutte le case. L’ascensore si fermava al piano inferiore, vivevo come un privilegio il potermi arrampicare sulla scala che portava a casa mia. Eravamo solo tre inquilini, fra cui un delizioso vecchio signore che ascoltava la radio a tutto volume.
Finalmente avevo una camera tutta per me. Fu una delle grandi gioie della mia vita. Sfuggivo al controllo familiare, senza tuttavia tagliare il cordone ombelicale. Una porta finestra si apriva su un piccolo balcone che scavalcavo per abbronzarmi al sole sul parapetto del tetto, sull’orlo del precipizio. Ero a tu per tu con la Tour Eiffel. Danzavo davanti allo specchio. Potevo leggere tutta la notte se lo desideravo, ascoltare Barbara o Leonard Cohen, ricevere gli amici, sognare, approfondire il monologo interiore così fecondo durante l’adolescenza, senza dover parlare o rendere conto ad altri. Scaldavo l’acqua in un bollitore elettrico, sistemavo jeans sbiaditi e minigonne in una cassa di legno, i libri erano alla portata del letto, la scrivania vicino alla finestra. Traducevo i temi di latino al ritmo dei Rolling Stones. Non avevo mai paura. Un amico mi aveva regalato un ferro da stiro irto di chiodi, replica del celebre Gift di Man Ray. Ero agguerrita. I miei genitori mi facevano questo regalo: la fiducia. Avevo sofferto per la mancanza di spazio, per aver dovuto condividere la stanza con mia sorella minore. All’ultimo piano dell’edificio, respiravo un’aria più frizzante, quella della libertà.
( traduzione di Daniela Maggioni)