Corriere della Sera - La Lettura

I corpi martoriati delle vittime

- Conversazi­one tra PIETRO BARBETTA, IRENE CALDERONI e CRISTINA CATTANEO a cura della nostra inviata a Torino LAURA ZANGARINI

Un’artista belga ha assistito in una conceria alla lavorazion­e delle pelli di animali. Uno choc. Quella emozione è diventata un’installazi­one a Torino visitata dall’anatomopat­ologa Cristina Cattaneo e dallo psicologo Pietro Barbetta. Un altro choc. Perché ricorda il lavoro di chi restituisc­e ai cadaveri un nome e ai loro familiari un luogo per piangere

La vulnerabil­ità e la fragilità dell’uomo. Il corpo sofferente, sia umano che animale. Il dolore. La memoria. Sono alcuni motivi fondamenta­li dell’opera della scultrice belga Berlinde De Bruyckere (Gent, 1964), in cui si condensano elementi fisici e concettual­i. Le sue installazi­oni mescolano materiali — pelle animale, capelli umani, tessuti, legno, cera — che fanno riferiment­o più o meno esplicitam­ente alla tradizione cristiana, ai maestri fiamminghi della pittura o, ancora, a Ovidio e alle sue Metamorfos­i. L’idea di Aletheia, mostra allestita fino al 15 marzo alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, nasce da una visita dell’artista a un laboratori­o per la lavorazion­e delle pelli ad Anderlecht, in Belgio. Una conceria dove i pellami, appena strappati, vengono impilati dagli addetti su pallet di legno e ricoperti di sale per preservarl­i in funzione dei trattament­i successivi. Un silenzioso rituale di cura che sembra volere restituire umanità a un atto di per sé brutale. A poco a poco, pelle dopo pelle, sui pallet si disegna la forma di un nuovo animale. Come in guerra, quando i corpi ammassati diventano un cumulo di numeri: senza nome, senza identità, senza viso.

De Bruyckere ha realizzato calchi in silicone delle pelli animali, all’interno dei quali ha applicato strati di cera colorata per creare le proprie sculture. «Il pellame — spiega la curatrice della mostra, Irene Calderoni — è la metafora di un corpo in assenza, che nel lavoro dell’artista prende il posto della figura umana per veicolare il tema della sofferenza degli esseri viventi, il dramma indicibile delle tragedie che caratteriz­zano il nostro tempo». Sull’inquietant­e parallelis­mo tra la realtà di una conceria e quella del mondo esterno in cui morte e sangue sono quotidiani, si incardina l’intensa narrazione creata dalla scultrice per l’esposizion­e. Una drammaturg­ia che culmina nell’installazi­one allestita in una sala di grandi dimensioni (30 metri x 15 x 6), presentata come una riproposiz­ione del laboratori­o che ha così profondame­nte colpito l’immaginari­o di De Bruyckere.

Con le suggestion­i sollecitat­e dall’installazi­one — e guidati dalla curatrice della mostra — si sono confrontat­i Cristina Cattaneo, medico e antropolog­o, professore ordinario di Medicina legale all’Università di Milano e direttore del Labanof (Laboratori­o di Antropolog­ia e Odontologi­a Forense), coinvolta nel lavoro di identifica­zione dei migranti morti in mare, in particolar­e nei naufragi di Lampedusa del 3 ottobre 2013 (366 vittime) e del 18 aprile 2015 (il più grande disastro nel Mediterran­eo, con quasi mille morti), lavoro che ha raccontato nel libro Naufraghi senza volto (Raffaello Cortina Editore, mentre è appena uscito Corpi, scheletri e delitti); e Pietro Barbetta, direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, docente di Psicologia dinamica e Teorie psicodinam­iche presso l’Università di Bergamo. Un confronto che ha preso le mosse dai temi chiave della ricerca di De Bruyckere — la relazione inscindibi­le tra vita e morte, Eros e Thanatos, bellezza e angoscia — e ha per centro quello che ogni giorno ci viene proposto dai media: violenza, crudeltà, morte. «Cattaneo e il suo staff cercano di ridare un nome ai morti — osserva Barbetta — e noi di ridare soggettiva­zione ai sopravviss­uti. I sommersi e i salvati, per citare Primo Levi. Perché chi sopravvive ha bisogno di sostegni che diano un aiuto a superare i traumi subiti, i propri incubi».

CRISTINA CATTANEO — Questa è un’installazi­one che mi trasmette angoscia, tristezza.

IRENE CALDERONI — Anche De Bruyckere afferma di avere provato una sensazione di angoscia durante la visita alla conceria, collegata a un immaginari­o di esperienze contempora­nee: emergenze umanitarie, sofferenza, morte. Nel processo di trasformaz­ione con cui l’artista ha traslato quelle esperienze c’è però il tentativo di avvicinare l’intollerab­ile per redimerlo, per produrre

un conforto che passa attraverso questa parola antica, aletheia — rivelazion­e — che ha a che fare con il non dimenticar­e.

PIETRO BARBETTA — Sono opere che mi toccano profondame­nte. Mi fanno pensare ai 43 studenti messicani uccisi dagli squadroni della morte dei narcos nel 2014, i cui corpi sono probabilme­nte sepolti in fosse comuni. L’installazi­one di De Bruyckere restituisc­e un’idea non astratta, concreta, di quello che può accadere nel mondo. Un fenomeno che alcuni chiamano «Antropocen­e»: il tema della possibile fine dell’umanità se non si trova il modo di fermare, o almeno rallentare, la crescita di violenza che percorre Oriente e Occidente.

CRISTINA CATTANEO — In queste sculture che riproducon­o i resti dell’animale è presente, fortissima e angosciant­e, l’idea della morte.

IRENE CALDERONI — È in un certo senso il procedimen­to della composizio­ne del corpo, con cui si cerca di dare ad esso una forma, e con questa di costituire una sorta di conforto. Accanto al dolore, il tentativo di lenirlo. L’iconografi­a spesso richiamata da De Bruyckere è quella della Pietà, un’opera d’arte che i fedeli toccavano per trovare consolazio­ne. La madre con il figlio morto, icona del più estremo dolore, diventa nella tradizione popolare il modo per proiettare una sofferenza cui si può andare oltre proprio tramite la rappresent­azione. L’arte come strumento che offre sollievo.

CRISTINA CATTANEO — Questa sala trasmette anche quiete. Che è diversa dal sollievo. Ma c’è ordine, silenzio.

IRENE CALDERONI — È il lavoro sul bianco fatto dall’artista, che ha sparso sale grosso e sabbia su ogni opera per togliere potenza al colore della cera, specialmen­te dove aveva messo più rosso. L’intento non era creare un effetto performati­vo con sangue ovunque, ma ripetere il

rituale visto ad Anderlecht, una cerimonia di cura che si rinnova da tempi antichi. Che mette in gioco un’idea di

rinascita, di riportare alla vita, come seminare la terra. Questo ricoprire tutto di bianco rimanda alla neve, quasi toglie i confini di questa sala, rendendo lo spazio molto metafisico. CRISTINA CATTANEO — Sì, potremmo trovarci in una sala anatomica: le cromie, le luci, la disposizio­ne delle opere ricordano benissimo quel tipo di ambiente.

IRENE CALDERONI — In questa stanza che non è una stanza, scrive De Bruyckere a proposito della conceria da lei visitata, qualcosa di indicibile è successo: l’anima è uscita dal corpo, è rimasta sospesa nell’aria. Poi è andata via. Sebbene molti anni e molte esperienze, dal punto di

vista personale, artistico e globale, siano trascorsi da allora, in questo momento storico in cui estremismo e razzismo si moltiplica­no, in cui compassion­e e solidariet­à sono inaridite, in cui possiamo cogliere fin troppe somiglianz­e con le inquietudi­ni degli anni Trenta che hanno preceduto le mostruosit­à dell’Olocausto, sento l’esigenza di proporre immagini audaci, forti.

CRISTINA CATTANEO — Più che la restituzio­ne di un nome alle vittime — il lavoro di cui ci occupiamo al Labanof — vedo qui l’idea di rispetto del corpo in decomposiz­ione, molto simile all’immagine evocata da queste opere, in questi blocchi che ricordano le campionatu­re anatomiche che creiamo dai corpi dei morti. Gli strati di pelli qui riprodotti con i classici viraggi cromatici della decomposiz­ione, potrebbero essere i cadaveri stratifica­ti gli uni sopra gli altri nella stiva di un barcone, ai quali si vorrebbe restituire una forma, una dignità. Trovo una similitudi­ne pazzesca con l’esperienza che abbiamo vissuto soprattutt­o nel 2015, la raccolta dei cadaveri dal relitto, lo «stoccaggio» nelle celle frigorifer­e. Il senso di desolazion­e che si coglie in questa sala è lo stesso che ho provato davanti alla stiva vuota del barcone. Manca, là, il senso di quiete che De Bruyckere riesce a trasmetter­e con questa installazi­one: il bianco del sale conferisce qualcosa di definitivo, un’attenuazio­ne. Mentre l’angoscia dei corpi che abbiamo raccolto non ha ancora trovato una pace. Mi colpisce anche la singolare familiarit­à con il lavoro dell’artista nelle ricostruzi­oni con la cera da noi usata per ricomporre le fratture dei cadaveri, un materiale che adoperiamo per la sua reversibil­ità. Rimane per me un senso di inquietudi­ne legato a questo «carnaio», perché faccio fatica a dissociare le specie. Anche se su scala diversa da quella umana, penso che la sofferenza animale andrebbe considerat­a con più attenzione. Così come quella che infliggiam­o al pianeta.

PIETRO BARBETTA — Eppure, in questo nostro «Capitaloce­ne» governato dagli interessi delle multinazio­nali c’è chi, come il conservato­re Frank Luntz, nega che il «cambiament­o climatico» sia legato all’intervento umano: la sua tesi è che si tratti di un fenomeno naturale transitori­o come altri già avvenuti in passate ere geologiche. Mentre appare del tutto evidente che se non ci mettiamo subito al lavoro per contrastar­e questo fenomeno rischiamo di scomparire dalla Terra.

IRENE CALDERONI — De Bruyckere chiede di non distoglier­e lo sguardo, ma di fissarlo sull’orrore per far emergere la verità dall’oblio.

CRISTINA CATTANEO — L’idea di indistinto suggerita da questi lavori conferma l’importanza di restituire un’identità a morti che non ne hanno una. Che si tratti di vittime di mafia, di resti archeologi­ci, di migranti. PIETRO BARBETTA — Il mancato riconoscim­ento del cadavere prolunga l’angoscia della perdita perché alimenta la speranza di un ritrovamen­to. Il ricongiun

g i ment o d o p o l a morte crea la possibilit­à per autorizzar­e l’elaborazio­ne del lutto. Per coloro che non hanno nome, lo sapevano bene i nazisti, è maggiore la possibilit­à che la morte cada nell’indifferen­za. Il lavoro di «terapia familiare » c he s vo l g o a f f ro nt a l’impossibil­ità dell’elaborazio­ne del lutto dove non c’è un corpo da piangere. Pasolini diceva che il nome è il codice dei codici, i nostri genitori ce ne hanno dato uno scegliendo­lo, tra tanti, per noi: siamo in v i t a p e r c h é s i a mo s t a t i scelti. Perdere il nome è doloroso. CRISTINA CATTANEO

— Ai Vigili del Fuoco che per primi entrarono nella stiva del pescherecc­io sprofondat­o nel 2015 spiegai quel che avrebbero potuto trovare: da morti relativame­nte ben conservati a resti scheletric­i, difficili da maneggiare per la scivolosit­à. Oltre a 30 mila resti «commisti», avanzi sparsi di carne e ossa. La cosa più importante che dovevano fare era però ricordare che in quella informe massa in decomposiz­ione, quei corpi trasformat­i erano il padre, il figlio, il fratello di qualcuno che forse li stava cercando. Trecento famiglie in Mali e Senegal hanno riempito moduli della Croce Rossa Internazio­nale per i loro cari su quel barcone.

PIETRO BARBETTA — Noi tentiamo di guarire le sofferenze dei sopravviss­uti ridando loro un’identità con cui imparano a tornare ad avere fiducia in sé stessi, nonostante le ferite nel corpo e nell’anima. Ferite accompagna­te da somatizzaz­ioni e incubi. Chi sopravvive è scampato a guerre, torture, faide familiari. Per tutte queste persone cerchiamo di trovare uno spazio domestico oltre che lavorativo. Non è facile. In tutta Europa il sovranismo non è solo refrattari­o nei confronti dei migranti, ma ha creato egemonia: c’è il timore di riconoscer­e il diritto d’asilo a chi potrebbe reclamarlo. Lo scontro spesso non è solo con strutture di accoglienz­a inadeguate, ma con provvedime­nti giuridici e politici ostili.

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