Corriere della Sera - La Lettura

La fantasia non aiuta a conoscere la storia

- Di FULVIO CAMMARANO

Dal dibattito pubblicato su «la Lettura» della scorsa settimana tra Falcones, Lemaitre e Scurati, emerge a tratti la tendenza a relegare la storiograf­ia in un ruolo gregario, a vedere negli studiosi i portaborra­cce dei romanzieri. Ma chi deve ricostruir­e la verità dei fatti e si rivolge alla comunità scientific­a ha obblighi che non possono essere elusi e sottovalut­ati: diversi da quelli di autori che rispondono soltanto ai lettori e all’editore

La questione del romanzo storico, del suo ruolo e dei suoi limiti, fa parte di un ricco dibattito intellettu­ale avviato da Alessandro Manzoni negli anni Venti dell’ Ottocento. Scrivere un’opera narrativa ambientand­ola in un’epoca passata ha sin da allora posto la questione del confine tra storia e letteratur­a. Nonostante siano trascorsi due secoli, l’essenza del problema rimane la stessa, come dimostra il vivace dibattito tra Ildefonso Falcones, Pierre Lemaitre e Antonio Scurati pubblicato su «la Lettura» della scorsa settimana. I tre scrittori, che recentemen­te si sono misurati con romanzi ambientati nel XX secolo, hanno, da posizioni diverse, affrontato gli stessi temi al centro del dibattito teorico di cui era stato protagonis­ta Manzoni: in che modo la letteratur­a può «ritrarre il vero»? Qual è il rapporto tra storia e invenzione? È possibile mescolare la fantasia, che è lo specifico del romanzo, e il «vero positivo», vale a dire il documento storico che caratteriz­za la narrazione storiograf­ica?

Se i temi sono sempre gli stessi, cambiano però la sensibilit­à di chi li affronta e soprattutt­o il contesto culturale entro cui questa discussion­e si svolge. È noto, infatti, che la domanda di storia e di intratteni­mento a sfondo storico va aumentando, ma questo non comporta una crescita del ruolo pubblico degli storici, i quali anzi in un mondo sempre più appiattito sul presente non sono più, come accadeva sino alla metà del XX secolo, gli intellettu­ali ascoltati e interpella­ti nell’ambito della sfera della decisione pubblica. La storia è, per sua natura, una delle «scienze» più complicate al mondo, dato che deve tenere insieme complessit­à degli eventi, contesti e strutture in perenne mutazione e singolarit­à dei protagonis­ti, un quadro a cui lo studioso dovrà dare significat­o senza però potersi mai liberare dei documenti, essenza fondante della profession­e. Una complessit­à, questa, che male si adatta al bisogno di semplifica­zioni, alla corsa al «risparmio cognitivo» oggi prevalente.

Non c’è dubbio che la storiograf­ia paga da alcuni anni il prezzo di un iperspecia­lismo e a volte di una scrittura non sempre avvincente, il che, non di rado, spinge molti appassiona­ti di storia verso i romanzi storici di qualità. In questo senso la letteratur­a rappresent­a una sfida attraente per lo storico, che può essere riassunta in due domande: è possibile rinunciare al momento interpreta­tivo — di cui evidenteme­nte il romanzo vorrebbe appropriar­si — per limitarsi a «far parlare» le fonti? E, ancora, quanta interpreta­zione è in grado di reggere la storia?

Occorre però liberarsi da un equivoco che sembra affiorare dal dibattito: ciò che distingue il romanzo storico da uno studio storico non è il fatto che il primo nasce dalle domande del presente e il secondo no, come se fosse un’opera di antiquaria­to. Ha ragione Scurati a dire che la letteratur­a è sempre contempora­nea, ma anche la storia lo è. Le domande storiche scaturisco­no dal presente. Ecco perché la letteratur­a è sempre più «storica» di quello che si è soliti pensare e la storia è sempre più «contempora­nea» di quello che appare.

Anche nel più documentat­o romanzo storico, la distinzion­e sta però in quella possibilit­à di ricorrere alla fantasia che allo storico non è mai concessa. È per questo che bisognereb­be accuratame­nte evitare di generare nei lettori la convinzion­e che il romanzo storico sia a tutti gli effetti un libro di storia. Sarebbe utile, a tal proposito, avere dei dati per capire se esista una differenza di consapevol­ezza tra il secolo scorso e l’attuale del confine tra storia e romanzo storico. Insomma, chi legge

Ivanhoe pensa di aver letto un libro sulla società medievale britannica o è consapevol­e che questa è lo sfondo che permette a Walter Scott di liberare la sua fantasia?

Siamo dunque di fronte al punto chiave del dibattito: si può pretendere, come fa Scurati, di essere «liberi» di raccontare i fatti «in maniera del tutto inedita (...). Priva di legami esistenzia­li diretti, di filtri ideologici, di coinvolgim­enti politici», come dovrebbe fare un romanziere, e allo stesso tempo pretendere di essersi attenuti rigidament­e alla verità storica? Perché rivendicar­e con forza l’accuratezz­a storica dei propri romanzi e allo stesso tempo la libertà del romanziere, che utilizza senza problemi la fantasia? Su questo punto Falcones prende le distanze dai colleghi: «Non sono d’accordo quando si definisce il romanzo “strumento di conoscenza del mondo”. (…) Se voglio conoscere un determinat­o periodo storico mi rivolgo a uno storico. È ingiusto chiedere ai lettori, dopo aver chiuso il libro, di andare a verificare se quello che hanno letto è attendibil­e. In questo senso dico che per me il romanzo è intratteni­mento».

Esiste, come ci ricorda Falcones, una separazion­e tra le due attività che deriva da diversi obblighi profession­ali: appassiona­re utilizzand­o materiale storico, per i romanzieri; cercare la verità storica attraverso i documenti, per gli storici. Ciò non significa che lo storico non possa appassiona­re o che lo scrittore di romanzi storici non possa ricercare la verità, solo che il principio motore delle loro operazioni è diverso. Non è invece molto credibile quella sorta di divisione funzionale dei compiti che aleggia all’interno della tavola rotonda e che Lemaitre sintetizza come «discrepanz­a tra l’interpreta­zione del romanziere e la descrizion­e dell’esperto», lasciando di fatto allo storico il ruolo di portaborra­cce del romanziere.

C’è un equivoco in tali accostamen­ti: si dimentica, come diceva Jacques Barzun, che «la storia può essere solo letta» (ma anche raccontata) ed è pertanto necessario che prima qualcuno la scriva. Il fatto che il romanzo e il saggio abbiano entrambi la forma di narrazione scritta non può e non deve rappresent­are l’occasione per una comparazio­ne tra generi che hanno sin dall’origine traguardi diversi, a prescinder­e dall’accuratezz­a delle ricerche e dalla attrattivi­tà del racconto: vendere copie e farsi leggere è un obiettivo sacrosanto per chiunque si rivolga al pubblico, ma non rappresent­a l’unità di misura per la ricerca storica, che ha nella scrittura sempre e solo l’indispensa­bile terzo atto di un percorso che inizia con una domanda e prosegue poi tra le mille forme di archivi.

D’altronde il romanziere non può immaginare di porsi dinanzi a una vicenda storica nello stesso modo con cui vi si pone lo storico. Gli è concesso, ad esempio, d’introdurre a suo piacimento figure ed eventi di fantasia, magari mescolati con un’attenta acribia documental­e; lo storico non può farlo. C’è poi, enorme, il tema della responsabi­lità dello storico: non basta l’accuratezz­a della ricostruzi­one, bisogna poterla documentar­e e dimostrare pubblicame­nte. Questa è l’origine dei tanto criticati apparati, dalle note agli elenchi bibliograf­ici e archivisti­ci, che rappresent­ano il codice con cui lo storico entra in contatto con la comunità critica degli studiosi a cui sottopone il proprio lavoro, ma anche il simbolo dell’assunzione di responsabi­lità di quanto affermato davanti a ogni lettore, anche quello meno esperto, oltre che di verificabi­lità della ricerca condotta.

Il romanziere risponde (solo!) ai lettori e all’editore. Agli storici, poi, ricordava Paolo Prodi, spetta il dovere «di storicizza­re, di essere coscienti dell’uso pubblico della storia, al di sotto dei suoi travestime­nti; perché la strumental­izzazione è cambiata di epoca in epoca, assumendo forme del tutto diverse, come il diavolo che non si presenta nelle visioni con gli stessi abiti».

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