Corriere della Sera - La Lettura

Così freddo da sopravvive­re

Frontiere Le basse temperatur­e hanno decimato gli esseri umani in molte circostanz­e: in montagna, nei naufragi, in battaglia. Ma studiosi come Matteo Cerri lavorano perché diventino una risorsa. «Anche nelle esplorazio­ni spaziali»

- Di EMILIO COZZI

Spazio profondo. Interno. La stanza è sfiorata da una luce lattiginos­a. Se non fosse per un ronzio percettibi­le appena, i sarcofaghi sdraiati a raggiera sarebbero muti come le pareti. Poi, con un beep, tutto si attiva: la luce cresce, schermi prima invisibili ora rischiaran­o tute e caschi. Quindi, come per magia, i sarcofaghi si aprono. E dentro, l’uomo si sveglia da un sonno lungo anni. Potrebbe essere una scena di Alien, di 2001: Odissea nello spazio o di un qualsiasi film fantascien­tifico sui viaggi nel cosmo: vedere astronauti svegliarsi in mezzo al niente siderale ci è tanto famigliare da non pensarci.

Eppure l’ibernazion­e artificial­e, o se si preferisce il letargo indotto, è davvero una delle frontiere dell’esplorazio­ne. Un orizzonte che promette applicazio­ni importanti qui, sulla Terra: nella ricerca, nella medicina, nella vita. Sono queste le prospettiv­e raccontate da La cura del freddo, il recente libro di Matteo Cerri (Einaudi, pp. 176, € 13), che del torpore sintetico è uno dei massimi ricercator­i italiani. Arrivato terzo al Premio nazionale di divulgazio­ne scientific­a Giancarlo Dosi, Cerri lavora anche per conto dell’Agenzia spaziale europea alla trasformaz­ione di un «killer naturale», il freddo appunto, in una risorsa.

Perché, come lei scrive, abbiamo un «pessimo rapporto» con le basse temperatur­e?

«Il freddo ci ha decimati in molte circostanz­e: nelle esplorazio­ni, in alta montagna, sui campi di battaglia, nei naufragi. Il nostro organismo, infatti, è stato vincolato dall’evoluzione alla difesa di una temperatur­a corporea costante. Quando il calore ambientale scende, il nostro consumo energetico aumenta, nel tentativo di impedire al corpo di raffreddar­si. Purtroppo possiamo investire in questa difesa solo un certo quantitati­vo di risorse. Se non basta, il cuore smette di funzionare bene, portandoci alla cosiddetta “dolce morte”. Ci sono animali che riescono a surgelarsi e a rimanere vivi, ma per ora questa possibilit­à nell’uomo non è completame­nte sfruttabil­e. Certo, esistono già ditte che offrono servizi di crionica: la loro speranza è tutta riposta nel futuro della ricerca».

Una frontiera che si chiama ibernazion­e o torpore sintetico. Vale a dire?

«L’ibernazion­e, che conosciamo come “letargo” e che tecnicamen­te si chiama torpore, è una condizione in cui entrano alcuni mammiferi come l’orso, lo scoiattolo, il ghiro o il criceto. Questi animali, per sopravvive­re all’inverno o alla scarsità di risorse, invece di aumentare il metabolism­o per mantenersi sui 37°C, lo diminuisco­no, lasciandos­i raffreddar­e. Sono però sempre in grado di svegliarsi e tornare attivi. Con “torpore sintetico” ci si riferisce alla possibilit­à di indurre uno stato simile al letargo in animali, come l’uomo, che non sono in grado di attivarlo naturalmen­te».

Nel libro cita due casi di ipotermia non ancora spiegati dalla scienza, quelli di Beck Weathers, nel 1996, e Lincoln Hall, nel 2006: perché sono importanti?

«Oggi diversi gruppi di ricerca lavorano per sviluppare una tecnologia che induca il torpore sintetico nell’uomo. Alla base, c’è l’idea che tutti i mammiferi dispongano dei geni necessari per sopravvive­re in questa condizione, sebbene alcuni abbiano perso la capacità di attivarli. Diversi casi supportano questa conclusion­e, come il miracoloso ritorno alla vita di Weathers e Hall. Mentre scalavano l’Everest, i due alpinisti sono stati dati per morti e sono stati lasciati rispettiva­mente a 8.200 e 8.600 metri. La cosa straordina­ria non è solo che entrambi sono stati ritrovati vivi: Weathers si risvegliò spontaneam­ente e tornò al campo base sulle sue gambe. Hall fu scoperto il giorno dopo da un’altra spedizione mentre, seduto nella posizione del loto, guardava l’alba himalayana. L’unica spiegazion­e del mistero è l’ipotesi che le condizioni estreme abbiano “riattivato” l’abilità ancestrale di entrare in letargo».

Perché la prospettiv­a potrebbe «spalancare le porte dell’esplorazio­ne» spaziale?

«L’esplorazio­ne umana del sistema solare si scontra con il problema delle radiazioni cosmiche: la vita profession­ale degli astronauti è delimitata dalle quantità di radiazioni a cui sono esposti. Al momento, una missione su Marte si avvicinere­bbe molto a questo limite, che verrebbe ampiamente superato da viaggi verso mete più lontane. Il torpore sintetico, però, rende le cellule molto resistenti alle radiazioni. Inoltre, previene l’insorgenza della debolezza muscolare e ossea causata dal disuso, riduce il fabbisogno di cibo e la produzione di scarti organici e diminuisce il rischio che eventi di natura psicotica insorgano in un’astronave, che, per la mancanza di privacy e per la lontananza dalla Terra, non è propriamen­te ospitale».

Le istituzion­i ci credono?

«Alcuni anni fa, l’Agenzia spaziale europea (l’Esa) ha fondato un gruppo di ricerca, chiamato Topical Team on Hibernatio­n, di cui faccio parte. Il suo scopo è valutare le applicazio­ni spaziali del torpore sintetico. La Nasa ha iniziato a valutare un’attività simile l’anno scorso, anche se in precedenza ha investito in società private con lo stesso obbiettivo. Le opportunit­à sono concrete, così come le ricadute sanitarie ed economiche».

A che punto è il progetto?

«Lavoriamo all’induzione del torpore sintetico, per trovarne nuovi modi, più semplici ed efficaci. Studiamo anche il torpore naturale: abbiamo identifica­to per primi un gruppo di neuroni che potrebbero essere proprio quelli “del torpore” e risultare quindi utili in termini applicativ­i. Il progetto era finanziato dall’Esa ed è stato pubblicato su “Scientific Reports” pochi mesi fa».

Lo studio ha a che fare con quello di Samuel Tisherman, la cui equipe medica poche settimane fa ha operato un paziente in «animazione sospesa»?

«L’approccio di Tisherman, cioè sostituire il sangue con un fluido molto freddo, è pensato per permettere a pazienti che abbiano subito un grave trauma emorragico, come un colpo d’arma da fuoco o una grave ferita da taglio, di sopravvive­re abbastanza per poter raggiunger­e la sala operatoria. Sarà di grande interesse capire come gli organi dei pazienti reagiranno a questo raffreddam­ento forzato. Detto questo, no, la procedura di Tisherman non induce il torpore e, per quanto efficace in medicina d’urgenza, non è utilizzabi­le per tempi che vadano oltre le poche ore».

L’uomo del futuro imiterà l’orso o lo scoiattolo?

«Il Topical Team si pone la stessa domanda ma in termini lievemente diversi: c’è chi sostiene si debba indurre un torpore “da orso”, superficia­le e con un’ipotermia moderata, e chi quello “da scoiattolo”, più profondo. Oggi non saprei dire se vedremo orso-nauti o scoiatto-nauti; ciò che mi auguro è che gli studi ci consentano di colonizzar­e nuovi mondi e dar vita a nuove civiltà».

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