Corriere della Sera - La Lettura

Il mio Denis Johnson fragile e dionisiaco

- di IDA BOZZI

La migliore traduttric­e Silvia Pareschi ha vinto la classifica de «la Lettura» per la versione italiana della raccolta di racconti «La generosità della sirena», esempio del minimalism­o fulminante dell’autore americano. «Ho un solo rimpianto — dice — non averlo incontrato». Voce anche di Jonathan Franzen e di Colson Whitehead, aggiunge: «In lui c’è sempre una grande vicinanza all’umanità dei disperati, e tutti i suoi disperati arrivano a una redenzione»

La terza edizione del Premio per la Traduzione de «la Lettura» va a Silvia Pareschi, che se lo aggiudica con 270 voti della giuria per la sua versione italiana dei racconti di Denis Johnson, La generosità della sirena (Einaudi). L’anno scorso il vincitore è stato Lorenzo Flabbi, traduttore di Annie Ernaux per la casa editrice L’Orma, e due anni fa Fabio Cremonesi, voce di Kent Haruf per NN Editore.

La vincitrice di quest’anno, prima donna a ottenere il premio, ha tradotto o ritradotto la gran parte delle opere narrative di Denis Johnson (1949-2017): quattro romanzi (Albero di fumo, Train Dreams, Nessuno si muova e Mostri che ridono) e le due storiche raccolte di racconti, Jesus’ Son e appunto l’ultima raccolta dello scrittore, La generosità della sirena. Johnson ha per Silvia Pareschi un posto speciale: quando le viene comunicata la vittoria, chiede subito per quale traduzione ha vinto (ha ricevuto voti dalla giuria anche per le sue versioni di Colson Whitehead, I ragazzi della Nickel, Mondadori, e di Amy Hempel, Ragioni per vivere, Sem) e al nome di Denis Johnson sospira un «caro!» che le viene dal cuore.

«Sono molto contenta di ricevere il premio proprio per Johnson — spiega Pareschi — perché è uno degli autori a cui voglio bene di più: certo, il primo amore è Jonathan Franzen, con cui ho iniziato la carriera; di Franzen ho tradotto tutti i libri, ci conosciamo e il suo stile mi è familiare, mentre Johnson è difficile da definire familiare, perché era un personaggi­o particolar­e. Ma ho sempre avuto il grande rimpianto di non averlo mai incontrato di persona: io amo molto parlare con gli autori che traduco, di solito ho una comunicazi­one con loro via email, sui dubbi di traduzione, e mi piace anche conoscerli di persona. Con Denis Johnson non ci riuscii. Ci fu un episodio anni fa al New Yorker Festival, a New York, dove io andai proprio per incontrarl­o: lui era lì sul palco, ma alla fine è uscito dietro le quinte, e io non ho avuto il coraggio di seguirlo; mi sono detta: “Va bene, sarà per la prossima volta”. La prossima volta, purtroppo, non c’è mai stata».

Scomparso due anni fa, Denis Johnson ha avuto una giovinezza difficile, per la dipendenza dall’alcol e dalle droghe, con una lunga riabilitaz­ione conclusa negli anni Ottanta (il primo romanzo è del 1983): tracce del passato emergono nei disperati di cui scrive, reduci, falliti, persone che si sono «avvicinate troppo al bordo della giostra», come scrive ne La generosità della sirena, e «sono volate fuori».

«Se Franzen è l’apollineo, levigato e piano, Johnson — continua Pareschi — è in qualche modo il dionisiaco. In romanzi come Albero di fumo ha momenti di incredibil­e potenza e momenti meno limpidi; ma questo non succede nei racconti, che sono il distillato della sua narrativa. Hanno la purezza dei momenti molto alti, senza gli sbandament­i. La difficoltà di tradurre i suoi racconti sta proprio qui: Johnson rimane stilistica­mente sempre a quei livelli di picco, di grandi altezze simboliche, quindi bisogna riuscire a entrare nella sua fantasia. Quando scrive non c’è il punto “facile” in cui chi traduce dice: “Ok, questo è un brano più tranquillo e io posso respirare”. Non lascia tregua».

Racconti in cui le tragedie e le commedie della vita si concentran­o in eventi minimi, frasi comuni che diventano epigrammat­iche, prosegue Pareschi. «Il tutto con un’intensità emotiva forte: a differenza di un postmodern­o, più distaccato, Johnson entra completame­nte nella realtà: sono tutte storie filtrate attraverso la sua esperienza. C’è sempre una grande vicinanza all’umanità dei disperati, e tutti i suoi disperati arrivano a una redenzione. Anche per sé ha sempre creduto nella redenzione, ed era molto religioso, con una fiducia nella salvezza finale che si trova sempre nelle sue opere».

Un esempio del minimalism­o fulminante di Johnson, con le difficoltà che comporta («I pun, cioè i giochi di parole, sono un po’ la disperazio­ne di ogni traduttore»), si trova nel racconto che dà il titolo alla raccolta. Scrive Johnson (tradotto da Pareschi): «Mi domando se siete come me, se raccogliet­e e conservate nella vostra anima certi strani momenti in cui il Mistero vi fa l’occhiolino». Qui il personaggi­o inizia a camminare «in accappatoi­o e mocassini» in una via di negozi chiusi, con un vago senso di attesa, finché un abbaglio, un’insegna di negozio letta male, lo mette davanti al Mistero. Continua Johnson: «L’insegna dice: “Carta e festa”. Guardando più da vicino, ho letto: “Caccia e pesca”». Il problema per chi traduce sta nel restituire in italiano il gioco di parole inglese, senza tradire l’abbaglio del personaggi­o che dà il senso al racconto. «Nell’originale — spiega Pareschi —, l’insegna sembra Sky and Celery (“Cielo e sedano”) e invece si rivela essere Ski and Cyclery (“Sci e biciclette”). Ma naturalmen­te non si può tradurre alla lettera».

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