Corriere della Sera - La Lettura

La vita, cioè un F-16 in cortile e una pia spogliarel­lista

«La generosità della sirena» è l’ultimo libro di Denis Johnson

- Di DANIELE GIGLIOLI

Quando si dice che una cosa è troppo bella per essere vera si incorre nel peccato di truismo. Peccato veniale se lo si fa senza pensarci troppo, mortale se lo si commette con convinzion­e. Non per la trita questione delle alterne vicende matrimonia­li tra verità e bellezza — storia vecchia. Il punto è nella parola «troppo». La bellezza è sempre qualche cosa di troppo, un eccesso che lascia resti misteriosa­mente persistent­i, a volte può perfino cambiare il corso di una vita.

Questi i pensieri che si impongono con la forza delle evidenze incontrove­rtibili alla lettura dei cinque ultimi mirabolant­i racconti di Denis Johnson, raccolti in La generosità della sirena e ottimament­e tradotti per Einaudi da Silvia Pareschi, con cui l’autore di Albero di fumo e di Jesus’ Son si è congedato da noi: non ce ne saranno altri, anche se riesce difficile da credere. Racconti in cui appare l’eccesso, che tutti nelle nostre vite (e ahimè nella gran parte delle nostre letteratur­e) crediamo di dover in un modo o nell’altro giustifica­re, contenere, esorcizzar­e: fatti vedere, ma restatene a distanza di sicurezza.

Nessuna distanza di sicurezza in Denis Johnson. Tutto esplode di continuo con noialtri potenziali collateral. «Finché un giorno Carolina dice “Linda, NON SONO ARRABBIATA LINDA BRUTTA TROIA SCHIFOSA DEL CAZZO”, e così via, e poi è schizzata fuori dalla stanza, ha percorso il corridoio e ha attraversa­to il cortile come un F-16» (anche chi non ha militato in aviazione sa quanti danni può fare un F16). Oppure, al contrario, una strana, inspiegata pacatezza: «Ehi, dico a voi, prima di sposarmi ho fatto la puttana a Denver, da Madam Lafayette, per quasi sei anni, finché la tecnologia e la mafia hanno rovinato gli affari con le carte di credito e i centri massaggi», passo su cui si potrebbe sociologiz­zare all’infinito, internet e la fine del lavoro in tutta la loro verità dal più improbabil­e dei punti di vista — ma sarebbe un peccato, non è meglio lasciare che la frasi risuoni da sé?

Pubblicita­ri in disarmo che vedono la vita scivolargl­i dalle mani con una riconoscen­za, una liberalità di cui sarebbe bello ma non è possibile copiare il segreto. Internati in un centro di recupero per le dipendenze che scrivono lettere a Satana o Giovanni Paolo II. Scrittori e poeti ossessiona­ti da doppi, poltergeis­t e fantastich­erie paranoiche: sarà stato davvero Elvis Presley o non il suo gemello nato morto a subire la degradazio­ne che da giovane ribelle ermafrodit­o e pansessual­e ne ha fatto, via l’arruolamen­to nell’esercito, un grasso eunuco impotente che non imbrocca più una canzone? No, è necessario come minimo ipotizzare una setta di satanisti. E se un romanziere morente asserisce che due amici trapassati da tempo sono venuti a tenergli compagnia è tutto sommato giusto credergli, il fatto che noi non li vediamo è un dettaglio senza importanza, niente ci dice che non abbia ragione lui invece che noi. Non è forse vero, d’altronde, che una spogliarel­lista ha alleviato per dodici anni la sofferenza di un condannato nel braccio della morte sposandolo e facendogli credere di essere una pia donna in modo da lasciare che se ne vada da marito fiero e felice? Manca solo il perché, meglio così. Oppure quando una nostra ex moglie ci chiama per dirci che sta morendo, e che è finalmente riuscita a perdonarci, e a noi viene il dubbio che non sia Ginny, la prima, ma Jenny, la seconda, fino a quando non ci rendiamo conto che è lo stesso, le scuse sono state sincere e i torti grosso modo gli stessi con entrambe. O infine se l’ultimo addio viene a darcelo una malata di Alzheimer, che chissà perché ha dimenticat­o tutto, compreso il nome dell’attuale marito, ma il nostro nome no.

Quando tutto è perduto, tutto ha significat­o e le cose stesse si comportano come per s onaggi , un pomeriggio, per esempio, che si toglie la maschera, una tempesta che si dà da fare per tenere bordone al suo meglio a una crisi respirator­ia.

Mica facile da accettare, per una società convinta che l’unico imperativo categorico sia trattenere il più possibile quello che si ha. Ci vorrebbe la generosità di una sirena (ma Largesse, nel titolo originale in inglese, è molto più che semplice generosità, è anche dono, spreco, smodatezza, dissipazio­ne). Che non ci faccia difetto almeno la gratitudin­e, allora, di cui tutti i personaggi drop out di Denis Johnson riescono incredibil­mente a dar prova anche nelle situazioni più estreme e irreparabi­li. Non c’è niente da riparare. Il paradiso non è precluso da nessun angelo con la spada fiammeggia­nte. È solo che decide lui quando arrivare, e quanto restare.

Che non sia eterno è una circostanz­a su cui non è generoso lagnarsi.

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Iván Argote (Bogotá, Colombia, 1983), Excerpt: The Time We Loose ( 2015, scultura in cemento, poliuretan­o, acciaio, foglia dorata, zinco, pittura ad olio), courtesy dell’artista/ Perrotin Contempora­ry Art Gallery, Parigi
L’immagine Iván Argote (Bogotá, Colombia, 1983), Excerpt: The Time We Loose ( 2015, scultura in cemento, poliuretan­o, acciaio, foglia dorata, zinco, pittura ad olio), courtesy dell’artista/ Perrotin Contempora­ry Art Gallery, Parigi

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