Corriere della Sera - La Lettura
Vuoi vedere la mia collezione di oggetti e soggetti smarriti?
Miscellanea Ermanno Cavazzoni mette in salvo persone, luoghi e riflessioni zigzagando fra argomenti sacri, come Medjugorje, e profani. Ma anche tra episodi autobiografici (premi letterari e dintorni) e saggi critici (Pascoli)
Questione antichissima, quella che si pone Ermanno Cavazzoni nella nota introduttiva delle sue Storie vere e verissime, dove contrappone verità a invenzione riconducendoci alle origini stesse del pensiero occidentale e a quel dialogo platonico in cui Socrate e Fedro discutono della verità dei miti. Dilemma che Cavazzoni risolve con un moto di semplice e ironica reductio ad unum: le sue storie sono pure historiæ, sono vere nel senso più genuino del termine, non hanno nulla di mitico o di romanzesco ma si attengono semplicemente al mondo come è.
Il mondo, dopotutto, è più vasto della nostra fantasia e — come leggiamo in uno dei racconti più bizzarri proprio dal punto di vista dei rapporti tra inventio e
historia ( Fine ultima dei dittatori) — tutto ciò che dicerie popolari o libri di storia tramandano è irrilevante, se chi ne è coinvolto non crede sia vero. Il primum dunque sta sul piano della vita, dal momento che la letteratura è al più in grado di fornire un resoconto scorciato e «bucherellato» di un continuum esistenziale dove gli eventi galleggiano «sperduti in un tempo vuoto». Nessuna intertestualità, nessuna parola altrui potrà colmare le lacune e ricostruire le cose perdute che assumono, in questo e altri libri di Cavazzoni, una particolarissima dignità letteraria. La letteratura stessa, in effetti, non è altro che un «inestricabile garbuglio di sublime e materiale» e quell’oggetto misterioso chiamato critica letteraria si riduce (o forse si innalza) a conversazione «su alcuni amici comuni morti da un po’», come avviene esemplarmente in una delle Avventure con Celati, dove una passeggiata tra argini e paludi nelle valli di Campotto è occasione per una lunga chiacchierata su Ariosto e Boiardo.
Zigzagando tra argomenti sacri ( Miracoli a Medjugorje) e profani ( Lo squattrinato e il milionario), componendo mi
crosaggi critici ( Il fratello segreto di Pa
scoli) o rielaborando episodi autobiografici ( I premi letterari), senza tralasciare la meditazione filosofico-morale sulla storia ( Come progredisce la civiltà), Cavazzoni costeggia continuamente interrogativi metafisici, morali e sociali, che potrebbero essere riassunti nel tentativo di rispondere alla domanda: «Perché viviamo come viviamo? Perché crediamo in ciò a cui crediamo?». Con una allure intellettuale che deve molto a Voltaire, e che sfrutta le armi dello straniamento e dell’ironia, Cavazzoni riduce (o innalza) ogni questione alla sua misura umana: l’eternità non significa altro che dieci o venti miliardi di anni, cioè il residuo tempo di esistenza del nostro universo; l’aldilà può ben più coerentemente essere compreso come una peculiare forma di contratto di lavoro a tempo indeterminato; il miracolo viene spiegato come deviazione minima dalla norma, catena di eventi parziali e inconcludenti, incomprendibili se presi uno a uno, ma significativi (metafisicamente significativi) se considerati «dal punto di vista della fine», come avrebbe scritto Karl Löwith. Alla maniera di Voltaire, anche Cavazzoni pone alla fine di ogni discussione metafisica la sigla che erano soliti utilizzare gli antichi: «NL», non liquet, «non è chiaro», e così smonta a forza di ironia e paradossi la narrazione di ogni paradiso — islamico o cristiano.
L’ultimo istante, il momento prima di finire, il limite tra il qui e l’aldilà: non c’è altro di cui si possa parlare. Tra noi e quel punto è tutto un «correre via», un «nominare luoghi come venissero solo attraversati», un galleggiare «come legni dispersi e alla deriva». Non resta dunque che portare in salvo qualcuno di questi legnetti, collezionare oggetti smarriti e forse insignificanti (come già avveniva all’umanità derelitta de La galassia dei dementi) per poi consegnarli ai posteri accompagnati da qualche didascalia esplicativa. Così, in Perché si sorride in foto, Cavazzoni auspica che il XXI secolo tramandi — attraverso espressioni fotografiche attonite ed esterrefatte — un moto di disapprovazione e condanna tranciante per il susseguirsi spaventoso degli eventi. Oppure, deprecando la riduzione dell’arte a incompreso oggetto di venerazione, simile alle reliquie religiose, invita a riflettere sulla sua irrilevanza sociale (nessuna arte infatti ridarà mai la vista ai ciechi), e tuttavia le consegna un «minimo incerto potere». Questa congettura, affidata a una «comunità di solitari» che sfugge alla società civile fondata su consuetudini condivise e riti consumistici, è l’unica utopia (minima ma proprio per questo irriducibile) a cui questo originalissimo autore affida l’umanità.