Corriere della Sera - La Lettura
Critica della ragion crepuscolare
Novecento A quarant’anni dalla scomparsa, torna il volume nel quale Marino Moretti condensò la sua produzione tra il 1905 e il 1914. Le ragioni, le scelte stilistiche, il passo teatrale e narrativo, e anche l’ironia, ne confermano lo spessore
Quando nel 1919 Marino Moretti pubblica il volume delle sue Poesie, era già tutto finito. La Grande Guerra aveva mutato se non spazzato via ogni cosa, relegando in un passato irrecuperabile tutto quello che era accaduto prima. Poteva dunque apparire come il semplice consuntivo di una stagione di poesia ormai conclusa, tanto più guardando alle indicazioni del sottotitolo, 1905-1914, e pensando poi che da qualche anno lo scrittore di Cesenatico aveva abbandonato l’arte del verso in favore della prosa. Ma non era soltanto così.
A portare luce su quest’importante episodio della vicenda artistica di Moretti contribuisce ora la riproposta delle Poesie 1905-1914 (La nave di Teseo), ben curate da Renzo Cremante. «Questo non è un volume, come si dice, di poesie scelte — specifica l’autore stesso in una nota — ma è, senz’altro, il volume delle mie poesie». Sta dicendo insomma che a questi componimenti, e non ad altri, ha inteso affidare la sua immagine di poeta. In ogni caso le poesie sono tratte quasi tutte, o come dice il poeta «tolte», dai suoi libri più noti, quelli insomma che hanno consentito a Moretti di lasciare un suo segno nella storia della nostra poesia: Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911), Il giardino dei frutti (1916). Si tratta dunque di testi scritti tutti tra i venti e i trent’anni (era nato nel 1885 a Cesenatico, dov’è mancato quarant’anni fa, nel 1979), e legati ovviamente all’esperienza cosiddetta crepuscolare.
Quanto a questo, si può senz’altro dire che quella di Moretti sia la poesia crepuscolare per antonomasia. Lo notarono fin da subito i suoi lettori più autorevoli. Temi e motivi che in quegli anni erano, diciamo così, nell’aria e dunque nei libri di tutta una generazione di poeti (Sergio
Corazzini, Corrado Govoni, l’amico e compagno di strada Aldo Palazzeschi, anche Guido Gozzano), nei suoi versi vengono infatti registrati e inventariati come pezzi da repertorio, quasi al quadrato. Moretti contribuisce insomma alla definizione di quella poesia nel momento stesso in cui ne compone la grammatica o la piccola enciclopedia. Così il crepuscolarismo diventa con lui anche una maniera.
Il fatto stesso che la celebre e fortunatissima definizione di Giuseppe Antonio Borgese — poesia crepuscolare, appunto — fosse stata suggerita anzitutto dalla lettura delle Poesie scritte col lapis, appare emblematico. Non si tratta di un manifesto, di un programma condiviso, ma di una qualifica che nasce in qualche misura già postuma, e per questo in qualche misura consustanziale al proprio oggetto. La si accompagna sempre con una serie di eccezioni e di distinguo, ma poche volte un’etichetta è risultata altrettanto appropriata.
«Io non ho niente da dire», confessa Moretti in una sua poesia. Ecco allora scorrere davanti a noi l’intero catalogo crepuscolare: gli organetti di Barberia e le beghine di Bruggia, gli interni borghesi e piccolo-borghesi, le suore e le maestrine, le cucine e le aule scolastiche, le stazioni dei treni, le cose e i sentimenti minuti, il motivo dominante del grigio, il tono anti-retorico e diminutivo, l’abbassamento se non l’umiliazione della figura del poeta, e via dicendo. Ma quello che per un verso può apparire un limite, diventa poi una prerogativa per l’altro. È vero infatti che questo repertorio viene come spinto al limite della caricatura, o dell’auto-caricatura, visto che coinvolge anche e soprattutto il poeta fatto personaggio. Il discorso poetico, insomma, porta con sé, pur senza mai strappare il quadro, una criticità interna, un’ironia che rendono tutt’altro che scontata o pacificante come si vorrebbe la lettura delle sue poesie. Moretti amava il suo grande conterraneo Giovanni Pascoli. Ma non bisogna comunque prendere troppo in parola il fanciullino o il poeta puer che intende farsi sentire nei suoi versi.
L’originalità di Moretti e insieme delle Poesie del ’19 sta proprio qui. Come Cremante nella sua introduzione spiega bene, la selezione del poeta è andata a discapito delle produzione più breve e propriamente lirica, per favorire invece quella di marca narrativa e teatrale (i poemetti, i prevalenti endecasillabi in quartine o terzine rimate), in cui evidentemente riteneva si trovasse il carattere più vitale delle sua poesia. Non senza ragione. Come narratore in versi Moretti spicca davvero: per la naturalezza del discorso, per la capacità di far parlare i personaggi, per la precisione e fulmineità dell’individuazione psicologica. Spesso i suoi protagonisti sembrano gli attori di un dramma che non si può dire, come se avessero un coltello nascosto in tasca o sotto la gonna.
Eugenio Montale, che per altro stimava di più il narratore, ha scritto che «accanto al Marino lattemiele» bisogna sentire anche «il Marino che ha zampe di gatto e artigli fasciati di velluto». Proprio così. Ancora qualche decennio e questa aggressività sarebbe esplosa, solo a pochi chilometri di distanza, nelle idiosincrasie dei dialoghi e dei monologhi urlati alla luna di Raffaello Baldini, stavolta nel dialetto di Santarcangelo di Romagna.