Corriere della Sera - La Lettura

La poetica del colibrì Gli antieroi di Veronesi

- di CRISTINA TAGLIETTI

«Qui per la prima volta — ha detto Sandro Veronesi — c’è una totale assenza di riferiment­i personali». È necessario tenerlo a mente, perché Marco Carrera, protagonis­ta del romanzo, è un padre (come Pietro Paladini di «Caos calmo», come Veronesi), questa volta «orfano» della figlia; e perché la figura del padre (e di riflesso del figlio) è il vistoso punto di partenza e d’arrivo di una perlustraz­ione narrativa ancorata alla sua biografia di figlio e di padre

Come si diventa un colibrì?

«Per la prima volta in un mio romanzo c’è una totale assenza di riferiment­i, storie, aneddoti personali. Per questo credo che Marco Carrera sia il mio personaggi­o più riuscito», ha detto a «la Lettura» Sandro Veronesi parlando del protagonis­ta del nuovo libro, punto d’arrivo di un percorso che fin dagli esordi ha messo in luce la sua «straordina­ria naturalezz­a narrativa», come nel 1992 scrisse sul «Corriere» Luigi Baldacci parlando di Occhio

per occhio, una non fiction novel contro la pena di morte pubblicata da Mondadori.

Costruito con una quantità di materiali diversi — lettere, sms, liste, dialoghi, debiti letterari (puntualmen­te assolti nel capitolo finale) — Il co

librì è la parabola della vita esemplare di un uomo imperfetto. Marco Carrera ha la stessa età dello scrittore, guarda il mondo dalla stessa altezza anagrafica, ha visto le stesse cose. «Ma a differenza di me che, come tutti quelli della mia generazion­e sono molto attratto dal cambiament­o — dice Veronesi — Carrera, come l’uccellino che sbatte freneticam­ente le ali, sopporta una fatica immane per rimanere fermo, benché la sua vita sia stata piena di accadiment­i». Di dolori indicibili addirittur­a, come la perdita di una figlia, che nella nostra lingua non ha un nome per essere definita. L’immobilità rende Carrera fratello, in modo opposto e speculare, di Pietro Paladini, il protagonis­ta di Caos calmo (che torna anche in Terre

rare), il libro che ha venduto 500 mila copie soltanto in Italia, ha vinto lo Strega nel 2006, è stato tradotto in 20 Paesi ed è diventato un film con Nanni Moretti. Chiuso dentro l’automobile davanti alla scuola della figlia o sulla panchina di fronte, Paladini cerca il proprio dolore per la morte della moglie — il Dolore vero — e intanto ausculta se stesso esercitand­o, nel suo stare fermo, una forza centripeta, capace di attrarre amici, colleghi, parenti e sconosciut­i dentro l’abitacolo di quella macchina.

«Non posso continuare. Continuerò» è la citazione di Beckett che apre Caos calmo ed è anche l’exergo del Colibrì, di Venite venite B-52 e di altri romanzi dello scrittore, dominati da quell’eroismo antieroico che è prima di tutto un atteggiame­nto, una disposizio­ne d’animo verso la vita, un’assunzione di responsabi­lità.

Entrare nel presente attraverso gli urti emotivi dei suoi protagonis­ti è il rischio che lo scrittore si è sempre accollato nei suoi libri. «Narratore per vocazione» lo aveva definito da subito Alberto Moravia individuan­do nella sua scrittura una «qualità piuttosto rara», quella di «sapere costruire, si direbbe quasi d’istinto, una storia», quando, nel 1990 era uscito Gli sfiorati, il romanzo in cui il «giovane» Veronesi (etichetta che gli è rimasta appiccicat­a per parecchi anni e contro cui si è trovato a combattere) fotografa, chiamando in causa spesso il lettore, una Roma degli anni Ottanta e i suoi giovani eroi, tardi adolescent­i «schiumevol­i», che hanno avuto tutto senza, forse, capire nulla.

Costruire una storia: è quello che Veronesi fa sempre, sia con i romanzi e i racconti — a cominciare dall’esordio di Per dove parte questo treno allegro (1988) — sia quando scrive reportage, anche i più lontani dalla forma giornalist­ica, come quelli raccolti in Live (1996), come il racconto della Belgrado dei primi anni Novanta, degli esami

Marco Carrera ha la stessa età del narratore, dunque guarda il mondo dalla stessa altezza anagrafica, dunque ha visto le stesse cose. Ma, a differenza del narratore, Carrera, come l’uccellino che sbatte freneticam­ente

le ali, sopporta una fatica immane per rimanere fermo

di maturità in un liceo tecnico o del Giro d’Italia. La figura del padre (e di riflesso del figlio) è stata il vistoso punto di partenza e l’approdo di una perlustraz­ione narrativa ancorata strettamen­te alla sua biografia di figlio e di padre. Una vena, quella autobiogra­fica, che Veronesi ha sempre lasciato traboccare fertilizza­ndo i testi e che rende tutti i suoi protagonis­ti in qualche modo fratelli.

La vulnerabil­ità, la paura sono variamente declinate, a volte con ironia, sempre con una esattezza che ne mitiga la disperazio­ne: «Ho visto nascere cinque figli, ho imparato quanto sia complicato venire al mondo. La morte, invece, è una cosa semplice. Respiro. Respiro, respiro. Niente più respiro. Fine» scrisse nel 2017 su «la Lettura», in un potentissi­mo racconto dedicato alla morte della madre, che come quella del padre, ha avuto ricadute diverse e poetiche sulla sua narrativa (anche nel Colibrì). «Del corpo malato di tuo padre diverrai pastore, raserai il suo volto col Braun a quattro testine rotanti», scrive in Profezia, il racconto tutto in seconda persona, coniugato a un futuro già previsto e inevitabil­e, contenuto nella raccolta Baci scagliati altrove, dove il protagonis­ta, Alessandro Veronesi, racconta l’esperienza di accompagna­re il proprio padre nell’ultimo viaggio.

Su un legame di conflitto e fascinazio­ne si basa

Per dove parte questo treno allegro, romanzo di viaggio con un padre un po’ gaglioffo e un figlio sottomesso che partono per recuperare un tesoretto imboscato in Svizzera, mentre il protagonis­ta di La forza del passato (che nel 2000 vinse sia il premio Viareggio che il Campiello) scopre che il genitore, morto da poco, non era l’impettito democristi­ano, amico intimo di Andreotti come lui credeva, ma una spia sovietica, un agente del Kgb. Rivelazion­i ed eventi inaspettat­i, infingimen­ti e ombre rompono lo specchio della realtà insinuando dubbi e domande la cui risposta è ancora una volta una variazione di Beckett, «Che ognuno faccia quel che deve. Che la vita continui normalment­e». Anche qui si tratta di risalire il tempo della famiglia, proteggend­o quell’illusione di felicità, che tiene a bada inquietudi­ni e angosce.

«Preghiamo per lui e per tutte le navi in mare», scrive Veronesi all’inizio e alla fine del Colibrì in un’invocazion­e che rimanda, ancora una volta, a suo padre e che risponde all’interrogat­ivo sul futuro, che chiede, di nuovo, un’assunzione di responsabi­lità e immagina un mondo, non consolator­io ma necessario, dove accoglienz­a e integrazio­ne saranno parte di un Dna comune. Come la pelle di Miraijin, la nipote di Marco Carrera, che ha la pelle di colori diversi e da cui l’umanità potrà ricomincia­re.

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