Corriere della Sera - La Lettura
Giacomo Debenedetti: il maestro e il padre
Prima ancora di salire sul treno che da Mosca lo dovrebbe portare alla vicina Petuškì per raggiungere la sua amata, dopo una «vodka del Bisonte» l’ionarrante di Mosca-Petuškì poema ferroviario (Quodlibet, pp. 216, €15) di Venedikt Erofeev (Kirovsk, Urss, ora Russia, 1938-Mosca, 1990) si scola almeno un’altra decina di bicchieri. Inizia fin da subito in stato di alterazione uno dei testi fondamentali del secondo Novecento russo, scritto nel 1970, proibito in Unione
Sovietica fino al 1990, ma già diffusissimo come samizdat, in copie clandestine del dattiloscritto create con la carta carbone. Romanzo di culto che la presente traduzione del 2014 di Paolo Nori, complice il suo stile, rende con sbilenco tono colloquiale, il libro è un’autofiction bizzarra in cui lo stesso Erofeev dialoga spesso con un altro sé, dal nomignolo Venicka, con alcuni passeggeri e ripercorre i suoi ricordi. Il risultato è simile a un flusso di coscienza ad alto tasso alcolemico, ma il reale, mentre le stazioni scandiscono i capitoli, progressivamente svanisce. Da un principio di narrazione autobiografica paradossale — come nel racconto della perdita sul lavoro del ruolo di caposquadra per aver inventato i «grafici individuali» che segnano il rapporto tra tempo d’occupazione e quantità d’alcol bevuta ogni giorno — si slitta verso «il lato mistico, il lato ultraspirituale» tra sogni, come quello d’aver fondato uno Stato, e personaggi che ostacolano l’arrivo, da Satana a una sfinge, al carnefice re Mitridate, con raffreddore e pugnale. Un fiume di visioni in piena, tra l’ilare, il malinconico e il tragico, sgorgato da un rapido gesto: «E giù a bere».