Corriere della Sera - La Lettura

Il signore degli anelli ha una nuova voce

La versione di Ottavio Fatica del «Signore degli anelli» è stata accolta dalla vivace ostilità dei fan già prima della sua effettiva pubblicazi­one. È vero, si perde un po’ dell’aura epica, ma le scelte si rivelano — quasi tutte — vincenti

- Di VANNI SANTONI

«Non è uno strano destino patire tante paure e tanti dubbi per un oggetto così pi ccolo?». Parole rivolte da Boromir a Frodo, e naturalmen­te riferite all’Anello, ma che bene si adatterebb­ero al primo volume della nuova traduzione del capolavoro di Tolkien ad opera di Ottavio Fatica (con la consulenza dell’Aist, Associazio­ne italiana Studi tolkienian­i) che sostituisc­e nel catalogo Bompiani quella storica di Vittoria Alliata di Villafranc­a. Lungamente attesa e annunciata, oggetto di polemiche preventive e scambi più che aspri fra i due traduttori — Alliata ha anche querelato Fatica — questa versione del Signore degli anelli, accompagna­ta da un cambio integrale dei paratesti, è nata sotto il segno di una sua personale «guerra dell’Anello».

Quando l’Aist, attraverso la sua pagina Facebook, ha diffuso la nuova «filastrocc­a dell’Anello», si è scatenata una bufera d’inaudita ostilità: oltre mille commenti che definire negativi sarebbe eufemistic­o. E ammetto che, da tolkienian­o di lungo corso, anche la mia risposta a tale versione, non più in rima né in metrica e priva di passaggi iconici come «un Anello per ghermirli e nel buio incatenarl­i», è stata di rifiuto. Di un lancio così goffo non c’è forse memoria nella storia dell’editoria italiana, e di fronte a esso — e a quell’oceano di ringhiante disappunto — poco valevano le voci isolate che invitavano a leggere prima di giudicare: la filastrocc­a era lì, con le sue cacofonie («trono tetro»? «Vincerli/avvincerli»?!), e tanto bastava ad alimentare la tempesta.

Non diverso il destino della copertina. La scelta di Bompiani è andata su un’immagine quasi astratta: niente glifi né rune, panoramich­e di Isengard né scorci di Contea come nella storica edizione Rusconi, ma la foto aerea di un territorio adusto che si è scoperto poi essere la superficie di Marte, fatto che ha contribuit­o a esacerbare la ricezione negativa. Ad aggravare le cose, una scelta ingiustifi­cabile come l’eliminazio­ne della mappa — facile arguire che apparirà in uno dei prossimi volumi, ma Il signore degli anelli, in quanto romanzo di viaggio e compendio di lande e culture, è la propria mappa, e una simile ingenuità andrebbe corretta fin dalla prima ristampa — che ha in parte oscurato l’altra scelta, invero encomiabil­e: la sostituzio­ne della prefazione di Elémire Zolla, un misto di occultismo e spoiler selvaggio, con quella scritta dallo stesso Tolkien per la seconda edizione originale. Con simili premesse, e consideran­do l’atteggiame­nto degli appassiona­ti di fantasy rispetto ai loro tesssssori, era facile immaginare che anche la prima accoglienz­a del testo sarebbe stata negativa: il giorno stesso dell’uscita è partita la caccia alle modifiche, e giù polemiche. Lungopasso il Forestale? La locanda del Cavallino Inalberato? Il Castaldo di Gondor...? Samplicio?!

Di fronte a una reazione così emotiva, la prima cosa sensata da fare è leggere per intero la nuova traduzione; la seconda è mettersi al tavolino con la nuova, la vecchia e l’originale, e imbastire una lettura filologica. Cominciamo dai nomi: non è questione oziosa, dato che Il signore degli anelli nasce a partire da una pletora di lingue di finzione, e onomastica e toponomast­ica gli sono cruciali.

Al di là del fatto che molti dei nuovi adattament­i suonano bene, si scopre che anche quelli più discutibil­i hanno le loro ragioni. Se Grampasso e Lungopasso (per Strider) si equivalgon­o, ed è evidente che ramingo ha un bel carico evocativo mentre forestale fa pensare a Terence Hill, consideran­do la parola originale — ranger — e la funzione svolta dai discendent­i dei Dúnedain — pattugliam­ento, ancorché informale, delle terre di confine — si capisce che non è una soluzione così insensata. La polemica su Cavallino Inalberato ( Puledro Impennato nella vecchia traduzione) per Prancing Pony ha il fiato ancora più corto, dato che un pony non è un puledro e in araldica i cavalli rampanti si dicono, appunto, inalberati. Anche Castaldo per Sovrintend­ente è da approvare, dato che si tratta del lemma longobardo che indica l’amministra­tore dei territori del re, con attribuzio­ni civili, militari e giudiziari­e.

Veniamo a Samplicio, pietra, più di altre, dello scandalo. Ciò che molti non sanno è che i nomi originali degli hobbit sono a loro volta degli adattament­i in inglese. Qualcuno si stupirà a scoprire che il ver o n o me d i F r o d o B a g g i n s è Maur a Labingi, nato a partire dalla parola labin, in lingua hobbit borsa (e quindi bag). Anche per questo, la soluzione all’apparenza più salomonica — mantenere i nomi originali — non è così valida. Stante allora che il vero nome di Sam è tutt’altro — Banazîr Galbasi, in effetti — Samplicio appare una buona resa di Samwise, visto che il significat­o della parola hobbit banazîr è sempliciot­to (in inglese half-wise, da cui Samwise).

Tutto ciò non significa che ogni scelta di Fatica sia condivisib­ile: la resa di barrow-wight (prima «spettro dei tumuli») in un generico «essere dei tumuli», sebbene motivata dal fatto che in inglese antico wight indica una generica creatura, è obiettabil­e consideran­do che, proprio in seguito all’uso che ne fa Tolkien, la parola è andata a indicare, nel bestiario fantasy, una tipologia di non-morto (quale è, del resto, l’entità che intrappola i quattro hobbit). Allo stesso modo, non sempre la prosa del nuovo traduttore, improntata a un diffuso abbassamen­to dell’epicità laddove quella di Alliata puntava a un innalz a mento, re nde onore a gl i i nte nt i di Tolkien: di fronte al « Behold the Argonath, the Pillars of the Kings! » gridato da Aragorn al ritorno nella sua terra, è naturale preferire il «mirate gli Argonath» di questa al generico «ecco gli Argonath» scelto da Fatica; pure, nella maggior parte dei casi, le scelte del secondo corrispond­ono alle espression­i usate dall’autore, mentre la traduzione precedente si concedeva libertà spesso eccessive (ben noti sono i «raddoppi di aggettivo» che, per quanto giustifica­ti da un rimando all’italiano medievale, restano aggiunte di parole da zero: se Tolkien scrive « vague and distant legends », è ovvio preferire il «vaghe e remote leggende» di Fatica al «vaghe, lontane e misteriose leggende» di Alliata). Se poi, per quanto riguarda la filastrocc­a dell’Anello, l’approccio della precedente traduttric­e ci dava un testo più evocativo di quello di Fatica, vale la pena dire che tutte le altre traduzioni di canzoni e poesie sono migliori nella versione di costui, il quale, anche nella resa della prosa tolkienian­a (sia pure al prezzo di qualche indebito abbassamen­to del tasso di epicità) si mostra più aderente, oltre che più fluido, rispetto alla pur mirabile versione finora nota.

Al netto, allora, del clamoroso errore di comunicazi­one rappresent­ato dall’ostensione della poco riuscita filastrocc­a dell’Anello al posto di una delle tante pagine tradotte meglio, si può affermare con buona approssima­zione che la nuova traduzione, pur coi suoi limiti, è superiore alla vecchia. La si legga, dunque, senza dubbi e paure: si perderà magari un pezzo d’infanzia per strada, ma quel che se ne trarrà sarà un’esperienza nuova, più fresca, e in ultimo migliore, della più grande saga del Novecento.

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