Corriere della Sera - La Lettura

Un convento fra i monti Ma i ragazzi dove sono?

- Di FABIO GENOVESI

Io sono un educatore. Perché sulla cartolina del servizio civile c’è scritto: educatore. E come educatore sono salito fino a questo convento isolato, nel cuore delle Alpi Apuane. Un edificio enorme e antico, da almeno trecento posti letto. Appena arrivo sembra deserto, se non fosse per don Mauro, il custode che aggiusta tutto. Ha mani gigantesch­e e quando stringe le mie sento le ossa che si scambiano di posto. Ma questo è soltanto l’inizio

Educatore. Così c’era scritto sulla cartolina, insieme a un posto, e a un giorno.

Il giorno era oggi, il posto era questo, e l’educatore ero io. Perché lì c’era una scuola, una scuola media privata dentro un convento di preti, una specie di collegio in cima ai monti dove i ragazzi studiavano e vivevano. E io venivo a dargli una mano.

L’avevo chiesto io, quando avevo scelto di non fare il militare e dichiararm­i obiettore di coscienza. Era un diritto, però questo diritto lo gestiva il ministero della Difesa, gli obiettori di coscienza erano affidati all’Esercito. Come affidare un maiale a un norcino. Infatti eccomi qua, appeso come un salame in un enorme piazzale di cemento, a stagionare per un anno in mezzo al nulla.

Stavo sotto il sole con la cartolina in mano, la valigia nell’altra, intorno tante finestre che squadravan­o il piazzale in un rettangolo grigio, tutte chiuse.

Ho puntato una facciata a caso, ho tossito, ho chiesto: «C’è nessuno?». Poi mi sono voltato e l’ho detto dall’altra parte, più forte, «c’è nessuno?». Ma alle orecchie mi tornava solo l’eco, a farmi sentire quanto era scema la mia domanda.

Ho posato la valigia, la stessa che avevo preparato per Siviglia. Avevo solo aggiunto un giubbotto, perché la mamma e la zia pensavano che in montagna magari c’era più fresco. I miei amici invece mi avevano telefonato e mandato messaggi, tutti per darmi dello scemo, che loro in Spagna si divertivan­o come animali e io invece coi preti sui monti. Dove magari la sera c’era fresco, ma intanto qua nel piazzale stavo cuocendo, e le mie parole rimbalzava­no sempre meno convinte tra finestre e muri. E più mi tornavano addosso, più la mia domanda suonava come un’affermazio­ne: «C’è nessuno? C’è nessuno?». No, non c’è proprio nessuno.

E avrei voluto che fosse strano, ma l’unica cosa strana davvero era che ci fossi io, lì in mezzo al nulla.

Fino a stamani ero a casa mia. Fino all’altro giorno dovevo partire per Siviglia. Ieri e il giorno prima ero al bar La Gazzella, stretto al banco col babbo e gli altri a guardare le prime tappe del Giro d’Italia.

Dove finalmente, dopo quattro anni di sfortune, c’era anche Pantani. E chissà cosa faceva, chissà cosa si inventava. E chissà se potevo vederlo. Qua. Fermo in un piazzale vuoto in cima ai monti.

Poi, dal nulla: «Lei! Chi è, cosa vuole, perché non ha suonato il campanello!».

Mi sono guardato intorno, non si vedeva nessuno. Allora ho risposto all’aria: «L’ho suonato, giuro, però non funziona!».

«Peccato!» ha detto la voce. Che veniva da laggiù in fondo, dalla parte opposta all’ingresso, dove c’era un altro passaggio. Sono andato lì, e qualche scalino portava appena sotto, a uno spiazzo con un campo da calcio, un orto e un pollaio. E uno scuolabus giallo, antico ma insieme nuovissimo. E un vecchio coi capelli bianchi a spazzola, in tuta blu da lavoro macchiata di morchia e vernice. «Peccato, quel campanello non mi riesce di sistemarlo, è la mia grande vergogna!».

Si è passato la mano enorme sulla tuta e poi me l’ha stretta. Ho sentito le ossa dentro le dita che si scambiavan­o di posto.

«Piacere, io sono don Mauro. Sono il custode del convento. Custodisco e aggiusto tutto. Tranne quel campanello, sono anni che mi fa dannare. Gliel’ho detto, che è la mia grande vergogna, gliel’ho detto già?».

«Sì».

«Ah, ecco. Perché a volte ripeto le cose. In compenso, non dico mai bugie. Mai. Non mi riesce proprio. E lei, è venuto per confessars­i? Allora bisogna che aspetti, oppure mi racconta tutto mentre aggiusto lo specchiett­o del pulmino. Bello, vero? Io faccio questo, sa, aggiusto tutto».

«Tranne il campanello».

«Bravo! Quello è la mia vergogna! Come lo sapeva?». «Ho tirato a indovinare. Però io non devo confessarm­i, sono qui per il servizio civile».

«Ah!», ha detto don Mauro. «Ma qua non c’è nessuno ora che fa il servizio civile, sa».

«Sì, cioè, da oggi ci sono io, credo».

«Ah!», ha fatto di nuovo. E: «Ma benissimo! Allora staremo tanto tempo insieme, piacere di conoscerti!».

E purtroppo ha allungato ancora la sua mano gigante. Ci ho messo dentro la mia con rassegnazi­one, le ossa si sono mischiate ancora un po’.

«Allora, dimmi figliolo, ti serve qualcosa?».

«Sì. Cioè, tutto. Non so cosa devo fare, dove...».

«Ah, quelle son cose che devi parlarne col direttore». «Sì, benissimo! Mi può dire dov’è?».

«Non c’è. O meglio, c’è, ma sta per conto suo. Aspetta un po’ e vedrai che lo conosci. Intanto lo informo che ci sei».

«Grazie, molto gentile, allora se non disturbo mi metto nel piazzale e lo aspetto».

«No, meglio se ti sistemi, ci vorrà un po’».

«Non importa, non ho nulla da fare, posso aspettarlo finché vuole. Mezz’ora, un’ora?».

«Facciamo qualche giorno».

«Ma come, qualche giorno! Io non ho idea di cosa devo fare, non... cioè, la scuola sta finendo, forse ci sono dei corsi estivi? Non posso parlare con qualcun altro? Qualche professore magari».

«Con chi?».

«Con un professore, una professore­ssa, un vicedirett­ore».

«Senti, vieni con me». Ha posato a terra la chiave inglese e due bulloni, è partito verso le scale, e io dietro di lui. Spaesato ma un po’ più leggero, perché finalmente andavamo da qualche parte. Attraverso il piazzone e fino all’arco da dove ero entrato. Lì, incastrata nel muro di cemento, prima non l’avevo vista ma c’era una finestrell­a quadrata col vetro scorrevole. Don Mauro me l’ha indicata.

«Intanto puoi metterti al tuo posto, in guardiola», mi ha sorriso, e già tornava da dov’era venuto.

«In guardiola?».

«Sì, la porticina è di là lungo il muro, entra e mettiti comodo, il tuo posto è quello. Scusa la polvere, ma il tuo collega ultimo è andato via da un pezzo, saranno tre o quattro anni che non abbiamo più un portinaio».

«Ma no, padre, io non sono un portinaio, io sono un educatore!».

«Educatore? Ma di chi, nostro? Siamo maleducati, noi? Ah, scusa! Mi sono dimenticat­o, non ti ho chiesto se hai sete, vuoi un bicchiere d’acqua?».

«No, no, grazie, non ho sete, e lei è educatissi­mo».

«Figurati. Ti serve magari qualcos’altro?».

«Sì, padre. Io dovrei parlare col direttore, ma subito». «Sì, sì, te l’ho detto, intanto ci parlo io. Altro?».

«No, grazie. Cioè, ecco... non è che da qualche parte c’è una tv da guardare?».

«Una tv? E che te ne fai? Danno solo scemenze, alla tv, è tutto tempo perso che uno potrebbe sfruttarlo lavorando».

«Sì, ma c’è il Giro d’Italia».

«Ah! Quello è bello! Ma io non ho tempo. Ho da lavorare».

«Sì, ma se uno avesse tempo, c’è per caso una tv per guardarlo?».

«Certo, una c’è».

«Evviva, e dove?».

«Ce l’ha il direttore. Ma nella guardiola c’è una radio. E tu la puoi ascoltare, perché tanto il tuo lavoro è lì dentro».

«Sì. Io però glielo ripeto, non sono portinaio, io sarei educatore».

«Educatore? Ma di chi, nostro?».

«No no, padre, lei è educatissi­mo. Io devo educare i ragazzi».

«I ragazzi? Ma quali ragazzi!».

«Come quali, quelli che vengono a scuola, no?».

«Ah! Certo, la scuola!» e ha sorriso con la sua bocca piena di denti perfetti e giganti. La mascella forte di un uomo di una volta, di quelli che mangiavano le mele a morsi, a morsi spaccavano le noci. L’ho guardato, ed è venuto da sorridere anche a me. Per un attimo, poi lui: «La scuola non c’è più, figliolo. Anche quella saranno tre o quattro anni».

Non sono riuscito a fiatare, ma don Mauro parlava per tutti e due. E mi ha spiegato che una grande impresa specializz­ata in alberghi di lusso e stabilimen­ti termali si era accorta di questo convento, tanto cemento prezioso in mezzo al parco naturale delle Alpi Apuane, e aveva fatto una grande offerta. Ma grande davvero, infatti la diocesi aveva subito chiuso la scuola e stavano per firmare. Poi però erano venute fuori delle difficoltà, l’edificio era una donazione di una signora ricca e molto devota, che l’aveva lasciato alla chiesa col vincolo che fosse dedicato all’educazione cristiana dei fanciulli. Gli avvocati dell’impresa sostenevan­o che le cure termali, portando sollievo ai sofferenti, erano comunque in linea con gli insegnamen­ti di Gesù, e la questione era al vaglio dei giudici.

Ma mentre la giustizia andava avanti col suo passo, e cioè non andava avanti, la diocesi aveva chiuso la scuola e tutto quanto, trasforman­dola in un ospizio per preti troppo vecchi per dare una mano in altre parrocchie ma troppo vivi per portarli al cimitero. Dove finivano uno per uno a un ritmo assai regolare, e ormai quassù erano rimasti solo don Mauro e il direttore: in questo posto gigantesco, che tra preti e ragazzi aveva almeno trecento posti letto, vivevano in due. Anzi, da oggi in tre, con me che all’ospizio ero arrivato a fare l’educatore.

«Qua non serve mica un educatore» ripeteva intanto don Mauro. «Qua serve solo il portinaio, per accogliere le persone che vengono a trovarci».

«Ma com’è possibile che non c’è più la scuola, io sono qui per quella!».

«Credimi, tu sei qui per accogliere le persone che vengono a trovarci».

«Ma no, io non... ma poi cosa faccio quando vengono queste persone, non sono pratico, non...».

«Non ti preoccupar­e, tanto non viene mai nessuno». Don Mauro ha detto così, e stavolta se n’è andato davvero. È sparito là in fondo, giù per le scale, e tutto è tornato vuoto e zitto.

Allora ho trovato la porticina, l’ho aperta, sono entrato nella portineria che era uno stanzino con tre mura dai lati a proteggere l’odore di muffa, una sedia, un tavolinett­o di legno, e davanti al tavolino la finestrell­a scorrevole. Era stretta quasi come camera mia, a casa. Ho pensato a lei, poi ai miei, a cosa stavano facendo adesso, i miei e la mia stanza, laggiù lontani, lontani da me.

Ho posato la valigia sul tavolo, l’ho aperta per prendere l’acqua, perché a don Mauro avevo detto di no, ma avevo sete. Cercando la bottiglia tra i vestiti, ho sentito qualcosa di liscio e spigoloso. Il pacchetto da dodici preservati­vi che avevo preparato per Siviglia. Mi ero scordato di toglierli. O forse li avevo lasciati lì apposta, perché boh, nella vita le occasioni non si sa mai quando arrivano. Li ho presi, li ho guardati, li ho messi di nuovo dentro la valigia. Mi sono seduto, ho bevuto un sorso d’acqua, ho appoggiato la bottigliet­ta sul tavolo.

E lì, sotto la finestra, c’era davvero la radio. Una radiolina vecchia con l’antenna piegata.

L’ho accesa e funzionava, ma giravo la rotellina e usciva solo fruscio, un soffio sofferto e ogni tanto qualche scarica elettrica in mezzo. E solo verso la fine, in quel mare di rumori incasinati, una stazione che si sentiva bene, anzi benissimo: le preghiere di Radio Maria.

«Un Padre Nostro da Mirella di Frascati, per la piccola Simonetta e la sua mamma Piera che hanno la febbre. Padre Nostro, che sei nei cieli...». L’ho spenta. L’ho posata sul tavolo accanto alla bottiglia.

Poi ci ho appoggiato anche i gomiti e ho guardato fisso là davanti, il panorama oltre il vetro scorrevole della mia guardiola.

Un muro di cemento.

Senza fretta, ho cominciato a piangere.

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