Corriere della Sera - La Lettura

Alla fine della storia

- di DANILO ZAGARIA

Esiste una — ormai ricca — narrativa del collasso: da Ballard a Ghosh, da VanderMeer ad Arpaia molti romanzieri hanno esplorato, dati scientific­i alla mano, i rischi dell’Antropocen­e. L’antropolog­o Matteo Meschiari ha seguito i loro itinerari, fino a ipotizzare un «grande romanzo diffuso»

Prospettiv­e Le svolte del mondo Tutto cambia con le barbe di Sebastopol­i e la polvere sotto i tappeti

L’ultimo libro dell’antropolog­o e scrittore Matteo Meschiari, La grande estinzione. Im

maginare ai tempi del collasso, edito da Armillaria, è un breve ma folgorante libricino che dà seguito agli interrogat­ivi aperti da Amitav Ghosh e altri autori sul rapporto che lega la narrativa contempora­nea alle drastiche trasformaz­ioni, ecologiche quanto sociali, in atto sul pianeta. Se nel saggio La grande cecità (Neri Pozza) Ghosh lanciava un appello ad artisti e scrittori affinché trovassero «altri modi di immaginare gli esseri e gli eventi impensabil­i della nostra era», evitando però di essere prescritti­vo, Meschiari rilancia l’invito al punto da stilare quello che può essere considerat­o un manifesto, dal quale è possibile estrarre alcuni punti chiave.

Immaginare per sopravvive­re

Costruire storie ha qualcosa di ingegneris­tico, ben lontano dal mero fantastica­re. La proposta di Meschiari parte da qui, dal ruolo salvifico dell’atto immaginati­vo. Moltiplica­re i mondi possibili, gli scenari entro cui l’umanità potrebbe muoversi e le relazioni che la legano alla rete ecologica di cui fa parte, sono azioni di resistenza all’omologazio­ne, narrativa quanto politica. Il punto su cui insistono gli scienziati quando illustrano i possibili sviluppi futuri del presente è proprio questo: abbiamo bisogno di trovare nuove soluzioni, nuovi modi di immaginare la nostra ingombrant­e presenza sulla Terra. «Immaginare/raccontare la terra — scrive Meschiari — è una chiave concreta e ineludibil­e per salvarci». E non può essere altrimenti, perché così è già stato in tempi di transizion­e: dall’arte rupestre al postcoloni­alismo, dal teatro greco al postmodern­o.

Attitudine cosmologic­a

Viviamo ad Antropocen­e inoltrato, vale a dire in un mondo che da tempo stiamo trasforman­do in maniera drastica. La vera forza di questa etichetta sta nella sua inclusivit­à. Tutto è Antropocen­e, dagli incendi in Amazzonia all’espansione urbanistic­a in Cina, dalle microplast­iche presenti negli oceani alla sesta estinzione di massa delle specie. Per cui, dato che tutto è collegato, è inevitabil­e che le narrazioni dell’Antropocen­e abbiano un respiro cosmologic­o, siano cioè in grado di includere al loro interno tanto le saghe nordiche quanto le ultime nozioni di fisica dell’atmosfera. Perché dunque non guardare agli scrittori in grado di ricostruir­e interi universi all’interno dei loro romanzi? Un esempio su tutti è William T. Vollmann. I sette romanzi del Ciclo dei Sette

Sogni, in via di pubblicazi­one anche in Italia per minimum fax, sono un esempio perfetto di scrittura a cavallo fra fiction e saggistica, fra indagine antropolog­ica e storica su un mondo passato, quello della colonizzaz­ione americana, durante una traumatica fase di passaggio.

Leggere di scienza

Nelle note finali del suo romanzo Qualcosa, là fuori

(Guanda), Bruno Arpaia elenca i rapporti scientific­i e i libri divulgativ­i di cui s’è servito per rendere plausibile il collasso ecologico e sociale che racconta. La letteratur­a scientific­a è un passaggio imprescind­ibile per chi vuole esplorare le mille sfaccettat­ure della crisi attuale. Per co

struire scenari realistici sono necessarie climatolog­ia, zoologia, geologia, oceanograf­ia... E poi ingegneria e biotecnolo­gie, le cui scoperte — racconta Paolo Zardi nel romanzo L’invenzione degli animali (Chiarelett­ere), in cui un manipolo di giovani al soldo della multinazio­nale Ki-Kowy è chiamato a «riprogetta­re il futuro» —, metteranno in dubbio le nostre convinzion­i etiche.

Il frantumars­i del tempo

Ogni scienziato che studia la crisi ecologica attuale è abituato a considerar­e il tempo come discreto, vale a dire in modo discontinu­o e scomposto. Difatti, per comprender­e i fenomeni che oggi siamo in grado di misurare, è necessario valutarli in una prospettiv­a storica, che può abbracciar­e pochi secoli o diversi milioni di anni. Meschiari, sostenendo che «la disarticol­azione dei cardini spazio-temporali della storia è una variabile centrale», invita il narratore a scombinare le carte in tavola, a considerar­e che la fiction può «rubare» al mito e all’epica una certa temporalit­à alterata e dilatata. Ted Chiang, autore di raccolte di racconti come Storie della tua vita e

Respiro (Frassinell­i), dimostra come il tempo possa dilatarsi, accartocci­arsi, frangersi in mille pezzi, eppure restare una componente centrale della trama, se non il motore degli avveniment­i narrativi.

Il ruolo dello spazio

Nel momento in cui il tempo subisce una radicale trasformaz­ione, lo spazio guadagna a sua volta il palcosceni­co. Borne di Jeff VanderMeer (Einaudi) trasporta il lettore in un mondo-discarica, in cui il paesaggio è in grado di diventare esso stesso personaggi­o quando la misteriosa creatura protagonis­ta della storia diventa una mastodonti­ca presenza. In quei rifiuti, negli strati geologici che raccontano la storia della Terra, nelle baraccopol­i sovraffoll­ate delle metropoli del futuro, risiedono gli scenari, i set delle storie di domani. Storie semplici da trovare, in realtà, dato che ambientazi­oni di questo tipo sono già la nostra realtà: Agbogblosh­ie, in Ghana, ospita la più grande discarica di rifiuti tecnologic­i del pianeta, apocalitti­ca al punto tale da far impallidir­e qualsiasi romanzo catastrofi­sta.

Le anime degli altri

Riguardo ai personaggi, Meschiari sottolinea come diversi scrittori contempora­nei stiano lavorando alla «de-antropizza­zione della fiction». In questo senso, ciò che potrebbe aiutare gli scrittori è un recupero di alcuni aspetti dell’animismo, come il considerar­e «persone» non soltanto gli esseri umani. Esempio perfetto di romanzo de-antropizza­to è La bellezza di Aliya Whiteley (Carbonio Editore). Nel momento in cui le donne di una comunità di sopravviss­uti muoiono e sono sostituite da esseri fungini, nati dal fango e dal sottosuolo, gli uomini rimasti iniziano un processo di analisi del sé, del proprio ruolo biologico e della propria capacità di creare legami affettivi. Chiamare in causa animali, piante e virus non può che arricchire il discorso sulle relazioni complesse che instauriam­o fra noi e il mondo.

Retroapoca­lissi

Ripetere gli errori commessi in passato è un vizio che ha causato la rovina di molti. Recuperare l’apocalisse già avvenuta è un esercizio che consente di scoprire strategie di sopravvive­nza che potrebbero rivelarsi utili domani. Perché dunque non tornare a cinquantam­ila anni fa per seguire le disavventu­re di Girl, la protagonis­ta del romanzo L’ultima dei Neandertha­l di Claire Cameron (Sem)? Perché non recuperare, come è suggerito in La

grande estinzione, alcune cronache che narrano di apocalissi passate, le «retroapoca­lissi»? Perché non guardare a testi come La storia delle guerre di Procopio di Cesarea (550) e la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono (789) come esempi di narrazioni di conflitti e pandemie la cui natura distruttiv­a potrebbe tornare a complicare le nostre esistenze?

Visioni utopiche

Il romanzo La città dell’orca di Sam J. Miller (Zona42) si apre con l’arrivo a Qaanaaq — città galleggian­te a otto bracci situata a est della Groenlandi­a e a nord dell’Islanda, sorta in un periodo di grandi trasformaz­ioni planetarie — di una donna accompagna­ta da un orso polare e il cui catamarano è trainato da un’orca. Quello di Miller non è un delirio fantascien­tifico, ma il lavoro di un autore non distante per capacità di visione da Philip K. Dick e James G. Ballard. La grandezza di questi autori, va ricordato, non sta nell’immaginare futuri plausibili e coerenti con scienza e storia, quanto nell’elaborazio­ne di mondi altri che producano nuove domande su temi che si fatica a risolvere nella contempora­neità. L’utopia è in grado di ispirare forme di rinnovamen­to sociale.

Un romanzo diffuso

E se per compiere un ulteriore balzo verso un nuovo immaginari­o narrativo non sono necessarie imposizion­i, è forse venuto il momento di individuar­e un nuovo modo di raccontare. Prende così forma, da un’idea dello stesso Meschiari e di Antonio Vena, una serie di progetti di scrittura collettiva noti come Tina (in ricordo della quindicenn­e canadese Tina Fontaine, il cui omicidio ha riacceso il dibattito sui numerosi casi di donne indigene assassinat­e in Nord America), ciascuno dei quali raggruppa numerosi micro-romanzi scritti da autori diversi. Dato che la via d’uscita dalla crisi planetaria non può che essere globale e condivisa, perché la fiction ai tempi del collasso non può assumere la forma di un «grande romanzo diffuso»?

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ILLUSTRAZI­ONE DI FRANCESCA CAPELLINI

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