Corriere della Sera - La Lettura
Alla fine della storia
Esiste una — ormai ricca — narrativa del collasso: da Ballard a Ghosh, da VanderMeer ad Arpaia molti romanzieri hanno esplorato, dati scientifici alla mano, i rischi dell’Antropocene. L’antropologo Matteo Meschiari ha seguito i loro itinerari, fino a ipotizzare un «grande romanzo diffuso»
Prospettive Le svolte del mondo Tutto cambia con le barbe di Sebastopoli e la polvere sotto i tappeti
L’ultimo libro dell’antropologo e scrittore Matteo Meschiari, La grande estinzione. Im
maginare ai tempi del collasso, edito da Armillaria, è un breve ma folgorante libricino che dà seguito agli interrogativi aperti da Amitav Ghosh e altri autori sul rapporto che lega la narrativa contemporanea alle drastiche trasformazioni, ecologiche quanto sociali, in atto sul pianeta. Se nel saggio La grande cecità (Neri Pozza) Ghosh lanciava un appello ad artisti e scrittori affinché trovassero «altri modi di immaginare gli esseri e gli eventi impensabili della nostra era», evitando però di essere prescrittivo, Meschiari rilancia l’invito al punto da stilare quello che può essere considerato un manifesto, dal quale è possibile estrarre alcuni punti chiave.
Immaginare per sopravvivere
Costruire storie ha qualcosa di ingegneristico, ben lontano dal mero fantasticare. La proposta di Meschiari parte da qui, dal ruolo salvifico dell’atto immaginativo. Moltiplicare i mondi possibili, gli scenari entro cui l’umanità potrebbe muoversi e le relazioni che la legano alla rete ecologica di cui fa parte, sono azioni di resistenza all’omologazione, narrativa quanto politica. Il punto su cui insistono gli scienziati quando illustrano i possibili sviluppi futuri del presente è proprio questo: abbiamo bisogno di trovare nuove soluzioni, nuovi modi di immaginare la nostra ingombrante presenza sulla Terra. «Immaginare/raccontare la terra — scrive Meschiari — è una chiave concreta e ineludibile per salvarci». E non può essere altrimenti, perché così è già stato in tempi di transizione: dall’arte rupestre al postcolonialismo, dal teatro greco al postmoderno.
Attitudine cosmologica
Viviamo ad Antropocene inoltrato, vale a dire in un mondo che da tempo stiamo trasformando in maniera drastica. La vera forza di questa etichetta sta nella sua inclusività. Tutto è Antropocene, dagli incendi in Amazzonia all’espansione urbanistica in Cina, dalle microplastiche presenti negli oceani alla sesta estinzione di massa delle specie. Per cui, dato che tutto è collegato, è inevitabile che le narrazioni dell’Antropocene abbiano un respiro cosmologico, siano cioè in grado di includere al loro interno tanto le saghe nordiche quanto le ultime nozioni di fisica dell’atmosfera. Perché dunque non guardare agli scrittori in grado di ricostruire interi universi all’interno dei loro romanzi? Un esempio su tutti è William T. Vollmann. I sette romanzi del Ciclo dei Sette
Sogni, in via di pubblicazione anche in Italia per minimum fax, sono un esempio perfetto di scrittura a cavallo fra fiction e saggistica, fra indagine antropologica e storica su un mondo passato, quello della colonizzazione americana, durante una traumatica fase di passaggio.
Leggere di scienza
Nelle note finali del suo romanzo Qualcosa, là fuori
(Guanda), Bruno Arpaia elenca i rapporti scientifici e i libri divulgativi di cui s’è servito per rendere plausibile il collasso ecologico e sociale che racconta. La letteratura scientifica è un passaggio imprescindibile per chi vuole esplorare le mille sfaccettature della crisi attuale. Per co
struire scenari realistici sono necessarie climatologia, zoologia, geologia, oceanografia... E poi ingegneria e biotecnologie, le cui scoperte — racconta Paolo Zardi nel romanzo L’invenzione degli animali (Chiarelettere), in cui un manipolo di giovani al soldo della multinazionale Ki-Kowy è chiamato a «riprogettare il futuro» —, metteranno in dubbio le nostre convinzioni etiche.
Il frantumarsi del tempo
Ogni scienziato che studia la crisi ecologica attuale è abituato a considerare il tempo come discreto, vale a dire in modo discontinuo e scomposto. Difatti, per comprendere i fenomeni che oggi siamo in grado di misurare, è necessario valutarli in una prospettiva storica, che può abbracciare pochi secoli o diversi milioni di anni. Meschiari, sostenendo che «la disarticolazione dei cardini spazio-temporali della storia è una variabile centrale», invita il narratore a scombinare le carte in tavola, a considerare che la fiction può «rubare» al mito e all’epica una certa temporalità alterata e dilatata. Ted Chiang, autore di raccolte di racconti come Storie della tua vita e
Respiro (Frassinelli), dimostra come il tempo possa dilatarsi, accartocciarsi, frangersi in mille pezzi, eppure restare una componente centrale della trama, se non il motore degli avvenimenti narrativi.
Il ruolo dello spazio
Nel momento in cui il tempo subisce una radicale trasformazione, lo spazio guadagna a sua volta il palcoscenico. Borne di Jeff VanderMeer (Einaudi) trasporta il lettore in un mondo-discarica, in cui il paesaggio è in grado di diventare esso stesso personaggio quando la misteriosa creatura protagonista della storia diventa una mastodontica presenza. In quei rifiuti, negli strati geologici che raccontano la storia della Terra, nelle baraccopoli sovraffollate delle metropoli del futuro, risiedono gli scenari, i set delle storie di domani. Storie semplici da trovare, in realtà, dato che ambientazioni di questo tipo sono già la nostra realtà: Agbogbloshie, in Ghana, ospita la più grande discarica di rifiuti tecnologici del pianeta, apocalittica al punto tale da far impallidire qualsiasi romanzo catastrofista.
Le anime degli altri
Riguardo ai personaggi, Meschiari sottolinea come diversi scrittori contemporanei stiano lavorando alla «de-antropizzazione della fiction». In questo senso, ciò che potrebbe aiutare gli scrittori è un recupero di alcuni aspetti dell’animismo, come il considerare «persone» non soltanto gli esseri umani. Esempio perfetto di romanzo de-antropizzato è La bellezza di Aliya Whiteley (Carbonio Editore). Nel momento in cui le donne di una comunità di sopravvissuti muoiono e sono sostituite da esseri fungini, nati dal fango e dal sottosuolo, gli uomini rimasti iniziano un processo di analisi del sé, del proprio ruolo biologico e della propria capacità di creare legami affettivi. Chiamare in causa animali, piante e virus non può che arricchire il discorso sulle relazioni complesse che instauriamo fra noi e il mondo.
Retroapocalissi
Ripetere gli errori commessi in passato è un vizio che ha causato la rovina di molti. Recuperare l’apocalisse già avvenuta è un esercizio che consente di scoprire strategie di sopravvivenza che potrebbero rivelarsi utili domani. Perché dunque non tornare a cinquantamila anni fa per seguire le disavventure di Girl, la protagonista del romanzo L’ultima dei Neanderthal di Claire Cameron (Sem)? Perché non recuperare, come è suggerito in La
grande estinzione, alcune cronache che narrano di apocalissi passate, le «retroapocalissi»? Perché non guardare a testi come La storia delle guerre di Procopio di Cesarea (550) e la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono (789) come esempi di narrazioni di conflitti e pandemie la cui natura distruttiva potrebbe tornare a complicare le nostre esistenze?
Visioni utopiche
Il romanzo La città dell’orca di Sam J. Miller (Zona42) si apre con l’arrivo a Qaanaaq — città galleggiante a otto bracci situata a est della Groenlandia e a nord dell’Islanda, sorta in un periodo di grandi trasformazioni planetarie — di una donna accompagnata da un orso polare e il cui catamarano è trainato da un’orca. Quello di Miller non è un delirio fantascientifico, ma il lavoro di un autore non distante per capacità di visione da Philip K. Dick e James G. Ballard. La grandezza di questi autori, va ricordato, non sta nell’immaginare futuri plausibili e coerenti con scienza e storia, quanto nell’elaborazione di mondi altri che producano nuove domande su temi che si fatica a risolvere nella contemporaneità. L’utopia è in grado di ispirare forme di rinnovamento sociale.
Un romanzo diffuso
E se per compiere un ulteriore balzo verso un nuovo immaginario narrativo non sono necessarie imposizioni, è forse venuto il momento di individuare un nuovo modo di raccontare. Prende così forma, da un’idea dello stesso Meschiari e di Antonio Vena, una serie di progetti di scrittura collettiva noti come Tina (in ricordo della quindicenne canadese Tina Fontaine, il cui omicidio ha riacceso il dibattito sui numerosi casi di donne indigene assassinate in Nord America), ciascuno dei quali raggruppa numerosi micro-romanzi scritti da autori diversi. Dato che la via d’uscita dalla crisi planetaria non può che essere globale e condivisa, perché la fiction ai tempi del collasso non può assumere la forma di un «grande romanzo diffuso»?