Corriere della Sera - La Lettura
L’Infinito interiore che neppure i numeri riescono a catturare
Dopo avere ucciso il drago che teneva confiscate le acque del cielo nelle viscere delle montagne, il dio Indra divenne re degli dèi, si insuperbì, e chiese al suo architetto Vishvakarman, dio delle arti e dei mestieri, di costruirgli un palazzo consono al suo splendore. Le pretese di Indra si fecero con il tempo sempre più grandiose, fino a ridurre alla disperazione Vishvakarman, che dovette chiedere soccorso più in alto.
Alla fine fu Vishnu, l’Essere Supremo, a risolvere la vertenza. Per moderare le pretese di Indra, Vishnu si limitò a mostrargli una processione interminabile di formiche che in perfetto assetto militare formavano sul pavimento una colonna larga quattro metri. Le formiche erano state altrettanti Indra, che in diversi innumerevoli eoni avevano compiuto le sue stesse imprese. Vishnu spalancava così, al superbo re degli dèi, la terribile visione dell’insondabile e selvaggia infinità dell’universo, dove i re, nel corso del tempo, diventano formiche e le imprese più gloriose si sciolgono nell’immensità degli spazi e dei cicli cosmici. La lezione impartita a Indra ridimensionava così le sue ambizioni, ispirandogli una provvidenziale presa di distanza, un distacco dalle cose. Lo sguardo aperto sull’immensità del creato diventa un sogno fantastico, terrificante ma anche liberatorio: come insegnano le Upanishad, Mrtyu, la temibile divinità che amministra la legge del tempo è insieme annientatrice e salvifica.
Dobbiamo a Heinrich Zimmer, autore di importanti studi sulle tradizioni popolari dell’India, il racconto di questo apologo, dove è pure sollevato il quesito più vertiginoso: è possibile contare tutte le creazioni sorte dall’abisso informe dell’oceano? Tra i servitori del re c’era chi sosteneva di poter contare tutti i granelli di sabbia sulla terra e tutte le gocce della pioggia, ma nessuno avrebbe potuto contare tutti gli Indra. Potrebbero mai i numeri venire a capo di tutta la vastità dello spazio e del tempo? Una questione non certo estranea alla dottrina occidentale del logos, il cui significato era affine a quello di numero, e a cui era demandato il compito di arrivare fino agli estremi confini dell’Universo.
Le Scritture assegnavano lo stesso potere alla Sapienza, che Agostino avrebbe identificato con il numero. Ma i numeri, in questo caso, potevano significare due cose diverse, che potremmo essere inclini a confondere: la forza di una Sapienza che trascende le possibilità umane e la volontà prometeica di oltrepassare ogni limite. Nel mito di Indra nessuno si sognerebbe mai, per lenire lo sgomento di una visione dell’immensità del creato, di catturare la grandezza dell’universo con un sistema di numeri. E anche la Bibbia ( Siracide, 1, 2) sembra sottintendere un’analoga interdizione: «La sabbia dei mari, le gocce della pioggia, i giorni dei secoli, chi può contarli?». D’altro canto la ragione scientifica vuole conquistare distanze proibitive e dimensioni imponenti, e a questo fine si ingegna — lo notava Leopardi — di rimpicciolire ogni grandezza, al prezzo di ridurne il potere di rivelazione poetica o metafisica. La scienza calcola e ridimensiona l’enormità dell’universo, Vishnu la amplifica oltre ogni limite immaginabile.
L’Occidente non mancò certo di rimarcare il carattere terribile e sublime dell’immensità del creato, ma fu tentato, al contempo, di mostrarne i limiti e la finitezza. Per la scienza occidentale l’universo è sempre stato grande, immenso, ma non infinito o tale da non lasciarsi catturare dai numeri, purché questi fossero sufficientemente grandi. Questi sono oggi i numeri calcolati dagli astrofisici: più di 120 miliardi di galassie, ciascuna con milioni o miliardi di stelle, con distanze valutate in miliardi di anni luce. Inversa
Calcoli La ragione scientifica vuole conquistare distanze proibitive e dimensioni imponenti. Per questo fine si ingegna di rimpicciolire ogni grandezza, ma al prezzo di ridurne il potere di rivelazione poetica o metafisica
mente, a livello microscopico, l’energia cinetica delle particelle elementari che compongono luce e materia è valutata come un multiplo della costante di Planck, un numero piccolissimo, dell’ordine di 10 elevato a −34. Ora il punto da notare è il seguente: i numeri che misurano grandezze astronomiche o microscopiche difficilmente immaginabili sono fa
cilmente rappresentabili come sequenze di cifre che la nostra ragione è perfettamente in grado di comprendere. L’ordine di grandezza si misura in termini di un 1 seguito, o preceduto, da una lunga, e pur finita, sequenza di zeri.
Nel III secolo avanti Cristo era stato Archimede, nell’Arenario, a proporre al re Gelone II di Siracusa una variante del problema già posto dai servitori di Indra: è possibile determinare un numero abbastanza grande da misurare la quantità dei granelli di sabbia che riempirebbero non solo tutto il globo terrestre, ma anche lo spazio tra noi e gli astri del firmamento? Archimede teneva pure conto dell’ipotesi eliocentrica di Aristarco di Samo, che aveva già consentito di allargare quello spazio fino a dimensioni grandissime. Archimede dimostrò che quel numero, necessariamente finito ancorché enorme, può esprimersi nei termini di una notazione semplice e comprensibile a tutti: un 1 seguito da 63 zeri.
Molti secoli più tardi Leibniz prese ad esempio l’Arenario per immaginarsi un problema che pure implicava numeri enormi. Poiché tutte le conoscenze umane — così Leibniz — si possono esprimere con le 24 lettere dell’alfabeto, è possibile calcolare il numero di parole al più di 32 lettere di cui gli uomini sono capaci. Questo numero è finito e minore di 24 elevato a 33. Si potrebbe dunque «determinare la grandezza di un’opera che contenga tutte le conoscenze umane possibili, e dove ci sarebbe tutto ciò che potrebbe essere mai saputo, scritto o inventato». Una simile ricerca poteva servire a valutare meglio quanto poco valga l’uomo al cospetto della sostanza infinita, perché il numero di tutte le verità che possiamo conoscere è assolutamente mediocre quando si pensi all’infinità di uomini impegnati a guadagnare per l’eternità sempre nuove conoscenze. Per Leibniz questo era un paradosso più estremo di quello di Archimede, perché il numero di granelli di sabbia dell’Arenario sarebbe stato povera cosa in confronto al numero delle verità possibili.
Ma come si può soltanto concepire un insieme di tutte le verità? Nel De monar
chia (III, 15) Dante diceva che la nostra anima vive tra il tempo e l’eternità. Non possiamo quindi evitare di sentirci parte di una linea ascendente e discendente, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, una linea in cui, come avrebbe scritto il romantico tedesco Novalis, dobbiamo pensarci come « uomini di infinite variazioni». Infatti nel mondo vero, diverso da una macchina che una creatura finita potrebbe aspirare a conoscere, ci sono distinzioni impercettibili tra le infinite diverse condizioni, fisiche e psichiche che ci riguardano. Il complesso di queste variazioni, Leibniz lo ammetteva, forma un continuo, divisibile in un’infinità attuale di parti, che nessun libro potrebbe mai contenere. Tuttavia possiamo pure concepire, distinta dalla storia segreta della natura e dalla totalità dei fatti contingenti, una più contenuta narrazione pubblica o civile, registrabile negli annali di una storia universale e condensabile in un insieme finito di documenti scritti. Disponendo di un numero
finito di lettere dell’alfabeto, il numero di tutte le verità enunciabili o leggibili in tali documenti da un qualsiasi essere umano, nell’arco di una vita, non avrebbe superato un certo limite, ancorché molto elevato. Leibniz lo stimava dell’ordine di 10 elevato a 73 seguito da 11 zeri. In un tempo abbastanza lungo il genere umano avrebbe esaurito tutte le verità enunciabili e, per la corrispondenza che associa le verità ai fatti, la storia avrebbe cominciato a ripetersi. Si sarebbe così potuto esprimere in cifre, in numeri semplici ancorché enormi, l’allusione criptica, nel discorso di Pietro negli Atti degli Aposto
li (3, 21), a una restitutio universale (in greco apokatástasis pánton), una «Restaurazione di tutte le cose annunziate per bocca dei profeti».
Ma è poi convincente la pretesa di fissare con un numero la durata di un ciclo che esaurisca le verità possibili? Leibniz ne dubitava, ma sperava che i numeri servissero comunque a tracciare l’orizzonte che circoscrive e limita la nostra dottrina, elevando il nostro spirito fino a percepire i confini che la natura gli ha imposto.
Tuttavia saper scrivere un numero enorme come una lunga sequenza di cifre non basta per venire a capo della varietà e dell’enormità dell’universo. Con quelle sequenze di cifre dobbiamo poter effettuare i calcoli, e i numeri calcolati crescono, tendenzialmente, oltre misura. In un processo computazionale di scala elevata, con milioni o miliardi di operazioni eseguite dalla macchina, la crescita dei numeri può essere indice di una propagazione abnorme dell’errore, tale da compromettere ogni possibile precisione. La soluzione di un’equazione rimane
comunque, di solito, avvolta da una nuvola di indeterminazione, a causa degli errori impliciti nell’aritmetica approssimata di cui si serve il calcolatore. L’esatto valore della soluzione resterà dunque ignoto. Il calcolo digitale, che risolve centinaia di migliaia di equazioni in altrettante incognite, si scontra regolarmente con limiti invalicabili di spazio (di memoria) e di tempo (di esecuzione) e con l’esplosione combinatoria di problemi di apparentemente facile risoluzione. Quando calcoliamo manca sempre un resto o un residuo che non potremo mai eliminare del tutto, e che serve solo a informarci in che modo e fino a che punto il processo computazionale potrà continuare. Come recita il Qohèlet (1, 7 e 1, 15), «Tutti i fiumi scorrono verso il mare e il mare non si riempie mai» e «ciò che è storto non si può raddrizzare né ciò che manca si può contare».
Tuttavia i matematici cercano sempre di «chiudere» le astrazioni in ambiti circoscritti, e pure infiniti, con formalismi che escludano l’irruzione di entità aliene o irraggiungibili. In tal senso campi numerici come quello dei numeri razionali o dei numeri reali sono regioni chiuse: se sommiamo o moltiplichiamo tra loro due numeri razionali (reali) troviamo ancora un numero razionale (reale). Il concetto teorico di algoritmo, espresso con i formalismi usuali (ricorsione o macchina di Turing) si propone di chiudere in un unico insieme ogni tipo di computazione possibile, in modo da evitare elementi estranei che non si lascino catturare da quei formalismi. Ma questi elementi estranei sono per lo più inevitabili e ci aprono a sempre più ampie prospettive e ambiti di ricerca. Per citare Ralph Waldo Emerson, trascendentalista americano, «la vita dell’uomo è un circolo che si evolve da sé, che si allarga da ogni parte in nuovi circoli più ampi, e così all’infinito».
I mondi enormi, infiniti, anche quando sono mere astrazioni matematiche, li proiettiamo di solito in un mondo reale fuori di noi, per pensarli come una verità scientifica. Eppure il mito di Indra insegna come potremmo pure ricondurli a una esperienza interiore, sufficiente a rivelarci come l’infinito, illusorio o reale che sia, sta comunque nella nostra mente, o almeno in un ambito in cui la nostra mente è in qualche modo tenuta a ritrovare e a misurare sé stessa. Ma invece di un insegnamento diretto ed esplicito, ispirato a un principio razionale, nel mito narrato da Zimmer troviamo un’espressione indiretta che si avvale di simboli e immagini. Del resto i numeri finiti molto grandi — al pari degli ordinali transfiniti introdotti nel XIX secolo — sembrano avvicinarci progressivamente all’infinito, ma si limitano in realtà a rappresentarlo per segni allusivi ed emblematici, e servono piuttosto, se facciamo nostro un insegnamento pitagorico, a fissare una pausa correttiva, limitante, che ci mette in salvo dall’abisso dell’indeterminato.