Corriere della Sera - La Lettura
Giacomo Debenedetti La sfida al romanzo
«Un nuovo metodo di esplorazione dell’uomo»
Torna in una nuova edizione un monumento della critica, con la presentazione di Eugenio Montale e testi introduttivi di Mario Andreose e Massimo Onofri. Ne scrivono Alessandro Piperno, scrittore, e Antonio Debenedetti, scrittore e figlio
pur lavorando di distinzioni, pur muovendosi nell’orbita di quello che Pascal chiamerà l’esprit de finesse, si esprime con una straordinaria evidenza, che sembra rendere palmari — non dico ovvie — le cose straordinariamente sfumate, differenziate che egli dice». Insomma, Montaigne non è altri che il santo patrono dei saggisti, dei conversatori e dei professori di cui Debenedetti ha bisogno; e al tempo stesso è un arbitro di stile ed eleganza. E quindi il viatico che gli permetterà di portare aria fresca di montagna in un mondo universitario ammorbato dallo smog di mille birignao specialistici.
Lasciate che mi soffermi ancora un po’ su questa faccenda. Il problema che affligge gran parte della cosiddetta critica militante, per non parlare di quella accademica — almeno in questo sinistramente alleate —, è il diffuso, criminale disinteresse per lo stile e per l’eleganza. Un’incuria che già da ragazzo mi faceva impazzire. Bellezza e conoscenza non possono tollerare — non dovrebbero, almeno — di essere maneggiate con strumenti impiegatizi e mortificate da espressioni corrive. Lo sapeva bene Sainte-Beuve quando prendeva appunti su Port-Royal, o serviva al pubblico le sue Causeries del lunedì mattina. Lo sapevano Gide, Rivière, Thibaudet, così come Forster e Wilson, per non dire di Poulet e Barthes. Ne erano consapevoli i soli compatrioti coevi di Debenedetti degni di stare nella stessa frase: Contini, Longhi, Manganelli, Praz… E di certo ne hanno tratto beneficio i suoi allievi: Lavagetto, Berardinelli, Pedullà, Tordi, solo per citarne alcuni. «Non solo il critico è a suo modo uno scrittore», scrive al riguardo Berardinelli. «Ma è anche “tenuto” ad avere uno stile: lo stile è parte irrinunciabile e connotato richiesto dalla sua professione. (…). Lo stile è uno strumento di conoscenza e di contratto, di aderenza alle opere letterarie e alla biografia di chi le scrive, il solo metodo che Debenedetti riesce a praticare».
Come non pensare al parlare «indisciplinato, scucito, audace» rivendicato da Montaigne nel celebre saggio sull’educazione dei fanciulli?
L’indagine più ambiziosa
Qualche anno dopo ritroviamo Debenedetti all’Università di Roma. Ha sessant’anni, l’età in cui di solito i professori, alla soglia della pensione, iniziano a crogiolarsi nella pompa di allori rinsecchiti. Il paradosso è che, in senso stretto, è un giovane professore. Èconl’ entusiasmo dei novizi, l’ audacia degli esploratori, la disperazione di chi ha poco da perdere che avviala sua indagine più ambiziosa: il corso che costituirà il primo tassello del Romanzo del Novecento, l’ opera che— insieme a un’ altra manciata di scritti postumi—lo consacrerà come uno degli scrittori italiani più influenti del Ventesimo Secolo.
Non sorprende che La nave di Teseo — realtà editoriale giovane, rampante, dinamica — ne abbia curato una nuova edizione. Nel suo commosso ricordo, il decano dell’editoria Mario Andreose definisce il metodo-Debenedetti «polistrumentale», e ancora una volta la nostra mente corre a Montaigne: «La verità è cosa tanto grande che non dobbiamo disdegnare alcun aiuto per raggiungerla». Bisogna dire che Debenedetti, nel parlare ai suoi studenti, si guarda bene dal disdegnarne anche uno soltanto, di questi aiuti. Ormai ha smesso le pose del dandy. A dispetto di ciò che pensano i detrattori, non è uno snob. Anzi, date le circostanze, fa bene Massimo Onofri a ricordarci la sua affabilità, la disarmante cordialità del contegno: «Espressione stupefacente di quella vocazione democratica originaria della critica».
Il romanzo del romanzo
Cos’è un romanzo? Interrogarsi sulla sua essenza significa per prima cosa tentare di delinearne i confini, e subito dopo rendersi conto di quanto essi siano incerti e sfrangiati. Tra le molte definizioni brillanti mi piace ricordare quella di Chesterton: «Una narrazione fittizia (quasi invariabilmente, ma non necessariamente in prosa) in cui l’essenziale è che la storia non sia raccontata in funzione della sua nuda incisività aneddotica, o dei paesaggi e delle visioni marginali che possono finirvi impigliate dentro, ma in funzione di uno studio delle differenze tra gli esseri umani». Anche per Debenedetti il romanzo è «un nuovo metodo di esplorazione dell’uomo, il risultato di un nuovo sentimento che l’uomo ha della propria psicologia».
Ciò gli vieta di considerare il romanzo italiano fuori dal contesto europeo e internazionale. Trattandosi di «un nuovo metodo di esplorazione dell’uomo» il romanzo è la forma artistica cosmopolita per antonomasia, sovranazionale per destino e vocazione, come in seguito sarà il cinema. Il paradosso è che, per contro, il romanziere deve essere un provinciale, altrimenti non saprebbe come far fruttare il piccolo spicchio di mondo ricevuto in dono dalla sorte.
Prendiamo Proust, tanto per stare a un esempio caro a Debenedetti. Senza dubbio la Recherche è il solenne approdo di un’intera tradizione letteraria: quella francese, naturalmente. Senza il modello offerto da Racine, Madame de Sévigné, Costant e Balzac, Proust non sarebbe Proust. Eppure chi negherebbe che, per trovare la sua voce, abbia dovuto rivolgersi altrove, attingendo selvaggiamente ai vittoriani (Pater, Eliot, Ruskin) e ai grandi russi?
Ecco lo spirito con cui Debenedetti lancia la sfida al romanzo. A interessarlo, quindi, non è tanto il perimetro spaziale, bensì quello temporale. Quali sono le caratteristiche del romanzo contemporaneo? — si chiede sin dalle prime battute. E cosa lo distingue dal suo illustre predecessore ottocentesco? Quali sono i romanzieri italiani che meglio e per primi hanno saputo emanciparsi da certi preziosi stilemi che poco hanno a che fare con il pattume del romanzo? A settant’anni da quei leggendari corsi universitari, le risposte di Debenedetti appaiono ancora straordinariamente precise e circostanziate. C’è un momento, lui dice, in cui il frammentismo impressionista di una certa bella prosa italiana viene a noia, e con esso le ricette naturaliste messe in campo dal miglior verismo nostrano. Siamo nell’immediato dopoguerra, tra il ’20 e il ’21, quando una generazione di narratori — in fondo così diversi ma di fatto misteriosamente legati l’uno all’altro — danno vita un nuovo tipo di romanzo che sancisce la frattura definitiva tra personaggio e destino. Il nome proposto da Debenedetti, colui che rappresenta una sorta di pietra miliare, è Federigo Tozzi: per anni misconosciuto dalla critica e ignorato dal pubblico, Tozzi appare a Debenedetti il primo grande innovatore, per sapienza romanzesca e audacia speculativa non inferiore a Pirandello, a Svevo e a Moravia.
Il punto di vista interno
L’edizione storica del Romanzo del Novecento, edita da Garzanti, è uno dei volumi più rovinati della mia libreria. Uno di quei testi-feticcio che ciascuno di noi possiede, su cui tornare ogni tanto, non per rileggerli interamente, ma per assaggiarli qua e là, lasciandosi ispirare, ancor prima che dalle mille prelibatezze custodite, dal tono, il nitore, il suadente dispiegarsi della prosa. Difficile immaginare sintassi più eloquente, lessico più forbito, punteggiatura più sincopata. D’altronde, sarei un ipocrita se dicessi che tutta la carne messa al fuoco da Debenedetti è di mio gusto. Per esempio, non ho mai capito la sue resistenze nei confronti di Svevo, e a mia volta confesso una certa sordità agli approcci psicoanalitici. Ciò non di meno, Il romanzo del Novecento è un’opera che continua a ossessionarmi. Per una ragione piuttosto semplice, immagino: alla fine della fiera, quanti sono i critici capaci di scrivere dell’arte del romanzo con tanta spigliatezza? Così, di primo acchito, la lista che mi viene in mente è breve quanto prestigiosa: James, Woolf, Forster, Mann, Feuerbach, Nabokov, Manganelli, Updike, Kundera e davvero pochi altri ancora. Tendenzialmente il critico che si avvicina al romanzo lo fa con il distacco sussiegoso di chi contempla un panorama: gli sembra di vedere tutto, cogliere l’essenza di ogni sfumatura cromatica, ma la distanza non lo aiuta; anzi, troppo spesso lo svia, lo ingessa, lo raffredda.
Giacomo Debenedetti, al netto del grande affresco allestito, ha un punto di vista sulla narrativa, per così dire, interno, di cui si fa carico con grande generosità. Viene da chiedersi se a ciò non abbia contribuito il lungo impegno editoriale, le esperienze di conferenziere, enter
tainer, pubblicista, sceneggiatore, traduttore. Attività che lo hanno indotto spesso a lasciare incustodita la torre d’avorio dello studioso e a scendere nell’agone della vita. Debenedetti sa come sono fatti i romanzi, conosce il lavoro e la cura che richiedono, i problemi che sollevano, le ansie che alimentano. Per questo non si contenta delle idee generali di cui essi sono il frutto, ma cerca di svelarne l’ordito fin quasi a scioglierlo.
Le pagine che illustrano l’«esagerazione (...) vicina alla caricatura» dei ritratti di Moravia o i dettagli liberty sciorinati da Pirandello per descrivere il Casinò di Montecarlo non sono solo pezzi di bravura ma prove della dimestichezza di Debenedetti con gli strumenti del romanziere. D’altronde, non sono molti i critici capaci di ricostruire con la stessa spregiudicatezza (ancora una volta: dall’interno) la genealogia dell’epifania joyciana: partendo da San Tommaso, attraverso Baudelaire, Manzoni, Balzac, Zola, fino alle pagine più palpitanti e rivoluzionarie del Dedalus.
Eccolo qui, il cuore della lunga esplorazione di Debenedetti: ciò che fa di lui un classico imprescindibile per chiunque ancora oggi abbia voglia di leggere romanzi, e di scriverli.
far sì che non soffrissimo troppo nel caso fossi mandato al confino o deportato o chissà cosa e noi per un qualche espediente del destino fossimo viceversa riusciti a passarla liscia. Più avanti, col peggiorare delle cose, ti saresti torturato pensando (e lo hai scritto) che avresti potuto essere causa involontaria della nostra morte in un Lager.
Abitavamo ovviamente nella stessa casa; considerata però la disposizione delle stanze, noi bambini non sapevamo mai bene se ci saremmo imbattuti in te, se ti avremmo incontrato nel corso della giornata. Non avremmo comunque osato disturbarti come non si osa disturbare una divinità. Tu però non eri una divinità e venivi trattato come qualcuno che scriveva per il cinema sotto copertura dovendo nascondere il tuo cognome di israelita. Non doveva esserti facile accettare questo crudele compromesso vista la tua sensibilità per il cinema così assolutamente ebraica come confermano le pagine che hai dedicato al tema in pieno fascismo. Le ha poi ristampate nel 1983 Lino Miccichè in un libro edito da Marsilio.
Pensare a questo tuo lavoro sotterraneo mi offende ancora oggi, mi fa talvolta gridare di rabbia. I tuoi allievi bypassano il problema ebraico essenziale nella tua vita? Sì? No? Non so darmi una risposta.
Elisa e io sentivamo l’ansia nell’aria anche se i nostri genitori facevano di tutto per nasconderla. Fatto sta, padre, che ti vedevamo poco, apparivi e sparivi. Una cosa però è certa: ti materializzavi immediatamente uscendo dal nulla non appena avevamo due linee di febbre. Arrivavi seguito dal nostro pediatra Renato Politzer, un ebreo triestino magro come un osso spolpato.
Il primo soccorso, la prima cura ci venivano dalla vostra serena sicurezza e terapeutica severità. Diete rigorose, medicine di rapido effetto che aggiunte a pochissime parole però rassicuranti di nostro padre ci mettevano subito sulla via della guarigione. Senza contare che nessun microbo, almeno così mi piaceva immaginare, avrebbe osato trasgredire alle prescrizioni dettate dal dr. Politzer in un italiano dal suono che poteva ricordare forse quello di Bobi Bazlen, esponente fascinoso d’un antifascismo non belligerante armato solo di cultura e di elegante, coltissimo dispregio.
Non immaginavo certo, padre, qual era il prezzo che i tuoi nervi, la tua sensibilità pagavano a quel tuo atteggiamento fermo, umano, più che umano, che ti imponevi a garanzia della nostra sensibilità e della nostra quietudine. Non molti anni dopo mi aiutò a capirlo il dottor Valobra, anche lui ebreo e tuo medico negli anni della giovinezza torinese. Lo conobbi. Aveva lo studio con le piccole finestre che si aprivano fruendo così d’un mistico semibuio sotto i portici di via Po sul lato opposto dell’università. Valobra mi illustrò con folgorante semplicità quel che tu passasti in quegli anni maledetti. Al momento giusto mi rivelò (un po’ irritato perché non ci ero arrivato da solo) che Giacomo Debenedetti aveva la sensibilità d’una corda di violino. Poi mi dette da inghiottire delle sfere immerse in una polvere color tabacco di cui ebbi paura come d’un filtro magico e evitai accuratamente di inghiottirle. Nel congedarmi Valobra aggiunse, quasi volesse liberarmi da un incantesimo, «tu forse assomigli un po’ ma solo un po’ a Giacomino».
Essere figli di quel padre, in quel momento della storia era come capitare nella pagina sbagliata d’un romanzo da cui non si vuole a nessun costo venir esclusi. Il prezzo da pagare però era alto: Saba mi aveva battezzato «lo stupidello Antonio» per potermi sgridare con più affettuosa dolcezza quando nell’immediato dopoguerra (lo ha scritto in una delle sue magiche scorciatoie) mi vedeva giocare e non capiva se io tenevo per i partigiani o per i tedeschi. Una cosa è certa: avevo am