Corriere della Sera - La Lettura
Romagna, 1630 Fuochi fatui con cui scottarsi
Un’aria manzoniana nell’ambientazione del nuovo romanzo di Eraldo Baldini, che parte dal magico per approdare al noir e, infine, a una riflessione amara sulla superstizione popolare e su chi ne abusa
C’è aria di Manzoni, oggi, in diversi romanzi storici, in particolare quando poi si aggirino nel Seicento, quale che sia la loro ricollocazione tra i sottogeneri. Di certo ha un sapore particolare constatare poi come tutto questo si sia particolarmente accentuato proprio con due autori di medesima estrazione geografica, quale appunto la Romagna. Era accaduto con Marcello Simoni, che in La prigione della monaca senza volto addirittura aveva recuperato ambientazione milanese e figure come la Monaca di Monza, il vicario Mamurio Lancillotto e Federico Borromeo.
Riaccade con La palude dei fuochi erranti di Eraldo Baldini, anche se in maniera più sfumata, proprio grazie alla differente ambientazione, ove Manzoni si affaccia grazie alle presenze di untori, Federico Borromeo ed episodi della peste milanese. Ed è l’ambientazione nelle desolate campagne della Romagna del 1630 a dettare anche la componente tra magico e gotico propria della linea narrativa di Baldini; che si trova però come non mai a farla dialogare con la realtà storico-sociale. Che è quanto però viene a incidere su quel magico che si svelerà indotto dalla malvagità degli uomini e riformulato come sfruttamento della superstizione popolare per creare situazioni impaurenti che spingano a spopolare quella terra.
Il magico approda al noir col mistero d’una strage con cui si apre il racconto vero e proprio, scoperta nello scavare un fossato all’esterno della Abbazia che di fatto governa quel territorio posto a nord di Ravenna in previsione delle conseguenze del dilagare della peste, dal quale emergono scheletri di donne, uomini e bambini che, «l’uno accanto all’altro, l’uno sopra l’altro, parevano impegnati in una danza macabra che si fosse arrestata all’improvviso per il tacitarsi della musica, issandosi disegnata nel fango in un arazzo di rena, d’argilla e di ossa, tessuto per dar forma a un monito».
Desolato territorio di paludi, «nebbioso, quasi lugubre» quello nel quale si muove nel novembre 1630 la piccola comunità di Lancimago, già ambientazione del romanzo Quell’estate di sangue e di luna scritto a quattro mani con Alessandro Fabbri; d’un tratto vittima anche di misteriosi fenomeni quali forti latrati e lugubri suoni nella notte, teste di cani fissate a un albero; un pullulare di fuochi fatui evocanti qualcosa di demoniaco.
Sono fatti sui quali si trova impensatamente a dover far luce l’«instancabile e inflessibile» domenicano Rodolfo Diotallevi, lì inviato con tutt’altro incarico. Un Diotallevi «di mezz’età» e «di poca statura», ma che «godeva di buona salute, era abituato al lavoro, alla disciplina e, se necessario, persino ai sacrifici più pesanti»; con la bizzarra passione per il suo «affettuoso, morbido e pasciuto» gatto e l’odio per «il rumore, che riteneva la peggiore espressione della natura e soprattutto dell’uomo»; che si esprimeva per «citazioni bibliche» ed «emanava un enorme carisma e che suscitava più del rispetto: incuteva timore». Eppure Diotallevi ha il risvolto segreto di insicurezze che affondano le proprie radici nel suo passato: di chi si è visto privato del padre ed egli stesso consegnato orfano a un convento di domenicani proprio in seguito a situazioni pari a quelle che si ritrova a vivere oggi, anche se davvero quelle passate sono rappresentate da Boldini con la felicissima mano delle sue ricostruzioni magiche.
Diotallevi nasconde le insicurezze dietro certezze e principi della Chiesa, che «erano solamente non discutibili, in quanto necessari e perciò giusti», facendosi «di quei voleri» un «fedele esecutore e robusto braccio». L’aspetto del tormento interiore coperto da inflessibilità ricorda quello del padre Girolamo Svampa di Simoni, anche se Baldini ne sa poi fare una propria creatura grazie ai tratti di profonda umanità, quando viene a contatto con anime sensibili, anche se potenzialmente «nemiche», come nel caso di Luigia, semplice fattucchiera che il fanatismo traduce in strega e che Diotallevi strappa al rogo facendone specchio nel quale interrogare sé stesso.
Personaggi felici, quelli di Luigia, dello stesso Diotallevi e di Orso, il boia dell’inquisizione fattosi monaco in seguito a un disvelamento però romanzesco (la classica agnizione): come pure quello dell’appena accennata figura un po’ da «fioretto» dell’abate Leone e quella di frate Girolamo, con le cui interrogazioni e dubbi sul «piano» di Dio in quegli anni difficili il libro si apre. Restano invece un po’ sfocate le figure dei cattivi, come il falsificatore monaco bibliotecario, lo schematico conte Cappelli, che vorrebbe liberarsi della presenza dei monaci nel territorio facendosi nefando manipolatore di quei misteriosi accadimenti con l’aiuto dell’avido e presuntuoso cugino, macchietta di pseudoscienziato che ha intuito la ricchezza che quel terreno ricco di gas naturale nasconde; e pure la figura da «immaginetta» di Maddalena, figura angelica che vive sull’albero, un po’ stilita e un po’ calviniano «barone rampante».
I personaggi portano tutti dentro di sé un segreto che emerge gradualmente nello scavo che Diotallevi conduce tra domande se quanto accade sia evento naturale o demoniaco o trama perversa degli uomini, finendo per dar corpo a un’indagine che svelerà la manipolazione della superstizione propria di questa gente. Tutto attraverso un buon ritmo narrativo, elegante equilibrio tra aspetti leggendari di un mondo arcaico ben noti alla passione da antropologo di Baldini e realtà storica, pur in qualche scarto nella costruzione; e una scrittura insieme agile, ed elegante nel suo farsi immaginifica.