Corriere della Sera - La Lettura

Questo non è un mondo ma un pandemonio

Di Dio inventa un paesino lugubre e kafkiano. E una missione lugubre e kafkiana

- Di ORAZIO LABBATE

Èun’opera sui generis Più a est di Radi Kürkk di Gianluca Di Dio, accostabil­e senza dubbio a una favola nera dalle atmosfere grottesche e pre-apocalitti­che. La geografia degli eventi è, infatti, avvolta da un’aura artificios­a e irreale, i personaggi sono più dei fantasmi che esseri in carne e ossa, il tempo non esiste se non sotto forma di una sua dimensione ansiogena in attesa della fine.

È quest’incombenza del disastro che condanna Luz, paesino grigio e kafkiano lungo la riva di un mostruoso fiume pronto a esondare e a divorare ogni cosa, perché non smette mai di piovere. Il protagonis­ta è Lucio, un giovane strambo che vive da solo dopo la morte dei genitori. Il suo unico svago è fare provviste nel mastodonti­co discount del posto nascondend­o tutto nei vestiti. Senonché ad animare le luttuose giornate del giovane è il vecchio amico del padre, il dottor Cervellati. L’enigmatico dentista gli annuncerà una misteriosa missione di cui Lucio sarà ben presto protagonis­ta; dapprima, però, gli consegna un ermetico racconto scritto a mano dal padre il cui titolo è

Più a est di Radi Kürkk. «È poco più in là, accartocci­ata sull’ansa del fiume (...), Radi Kürkk è un enorme cetaceo rantolante sull’acqua. Una domestica grassa coi calcagni secchi e crepati che ogni giorno pulisce le stanze e ogni giorno resta sempre la stessa, grassa e crepata e piena di vermi. Resta com’è all’infinito, come una che non muore mai e che non sa cosa sia vecchiaia perché resta sempre di quell’età che si ha quando si nasce morenti».

Via via che il giovane procederà nella lettura del manoscritt­o scoprirà una città in cui ogni cosa è sottoposta a un pauroso disordine esistenzia­le, proprio come sta avvenendo nel suo plutonico paesino. Infatti, sia a Radi Kürkk sia a Luz, la natura, gli animali, le persone, la notte e il giorno, l’acqua, sembrano usciti dalla creazione di una divinità confusa e senza equilibrio nell’ammaestrar­e gli elementi. L’unica salvezza per la gente di tutte e due le località? Muoversi verso est, il prima possibile. «Si sente che sta per succedere qualcosa di... epocale, una sorta di confisca, una confisca definitiva della disperazio­ne, qualcosa di esemplare... Ha visto alla porta d’oriente? Ha visto che cosa enorme stiamo costruendo? Dia retta a me: faccia di tutto per arrivarci, cerchi in tutti i modi di vedere, si renda conto di persona, mi creda, sarebbe veramente imperdonab­ile non esserci quando tutto si realizzerà». Con una lingua puntuale e immaginifi­ca, che oscilla nei toni tra il comico e il perturbant­e, e con una struttura coerente, Gianluca Di Dio consegna una fiaba angosciosa e pandemonic­a. Un’opera dentro la quale gli amori — quelli dei figli verso i padri, quelli dell’uomo verso Dio — non si ravvivano con il trapasso, bensì con l’azione, con un recarsi verso la salvezza, dall’aldiquà all’aldilà. Solo una volta laggiù — più a est, appunto — attraverso un atto di fede, si spererà di ritrovare tutti, dando così ordine alle proprie sofferenze.

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