Corriere della Sera - La Lettura
I «cuoribomba» e poi i «cuorisecchi» Sfida a Brancaccio
Dario Levantino racconta una storia di umiliati e offesi nella periferia palermitana
Rosario ha sedici anni, va al liceo e indossa l’immancabile felpa con cappuccio. Ma non è un sedicenne come tanti il protagonista di Cuorebomba di Dario Levantino (Fazi), che ricomincia laddove si interrompe Di niente e di nes
suno, romanzo d’esordio uscito nella primavera del 2018. Perché Rosario è di Brancaccio, il quartiere palermitano in preda al degrado e agli orribili traffici della malavita, dove si diventa grandi quando si diventa cattivi e «se non ci vivi ci stai di sicuro alla larga e se invece ci vai sei in cerca di guai». Il padre di Rosario è in galera per omicidio colposo e spaccio di sostanze dopanti: lo ha denunciato lui, e ora si sente il peggiore dei traditori, anche se lo ha fatto per salvare sua madre Maria, che ha iniziato a impasticcarsi quando ha scoperto l’esistenza dell’amante e di un secondo figlio del marito, e ora, precipitata nel baratro dell’anoressia, trascorre le giornate al buio, sul divano.
Rosario, con il suo occhio «sceso» per il pestaggio subito vicino al campo della Virtus Brancaccio, dove gioca in porta come il nonno di cui porta il nome, la accudisce con amorevole dedizione di figlio e responsabilità di adulto.
È una storia di umiliati e offesi, insomma, quella che il trentatreenne palermitano affida a un romanzo ambizioso per complessità di temi, sperimentazione linguistica e uno sguardo di sorvegliata pietas sugli abissi del dolore, l’emarginazione, il degrado delle periferie, l’indifferenza e il cinismo degli adulti. Tocca ai libri, alla letteratura e ai pochi «maestri» che talvolta si ha la buona sorte di incontrare aprire spiragli all’amore e al riscatto. La scuola, da sola, non basta: Maria è convinta che per il figlio frequentare uno dei migliori licei di Palermo significhi rivincita e una vita migliore, ma non si rende conto che la loro provenienza è un marchio indelebile, che nessuno lo invita alle feste, i professori gli correggono l’accento sguaiato e più di cinque e mezzo alle interrogazioni non gli danno. Per Rosario, invece, la libertà e la resilienza passano per i libri che qualcuno ha gettato nell’immondizia e che lui ha raccolto, il cane Jonathan, un randagio che lo segue come un’ombra, e Anna, studentessa del professionale che vuole insegnargli a sprezzare il pericolo e lo conduce per mano lungo il litorale immondezzaio di Brancaccio e verso la vita adulta. Leggere è per il giovane la sola chiave di lettura di un mondo ostile, l’unico modo «per non affondare nel fango», per andarsene «di casa pur restando immobile»: attraverso i personaggi della letteratura impara a «tifare per i perdenti», per quelli che cadono «e non sempre sanno rialzarsi», proprio come succede a lui sotto nuovi, devastanti colpi della vita.
Si convince così (e il lettore con lui) che il compito della letteratura dei nostri giorni sia occuparsi dei deboli, e poco importa se la sua idea gli costa l’ennesima insufficienza per l’ottusità dell’insegnante di italiano. Anna è lontana, in Australia con la famiglia in cerca di un’esistenza migliore e, in attesa del suo ritorno, a salvare Rosario ci sono il professore precario di filosofia e padre Giovanni, un «cristiano vero», da cui scopre che la religione è «quando ti senti disperato ma non vuoi morire ancora», come sta succedendo a lui, e che la vita è amore e contro la morte c’è un solo veleno, l’amore.
Grazie al sacerdote, Rosario impara la forza e la bellezza del perdono, indispensabile in un mondo diviso fra «cuorisecchi», che «traggono forza, sicurezza e successo da chi è debole», e «cuoribomba», i fragili forti, che vivono le emozioni in maniera esplosiva come la madre, mentre suo padre, pur ritenendosi un superuomo, è un cuoresecco.
Fra tanta sofferenza non c’è lieto fine, ma un finale aperto, un varco alla speranza (e forse anche ad un nuovo sequel della storia di Rosario) in una vicenda che, per sfondo ed età del protagonista, ricorda da vicino Ciò che inferno non è, il romanzo di Alessandro D’Avenia su don Pino Puglisi, ucciso a Brancaccio dalla mafia, ma poi percorre altri sentieri all’insegna di un linguaggio mimetico di forte realismo.