Corriere della Sera - La Lettura

La mia depression­e si chiama Arnold

- Di PAOLO LEPRI

È uscito in Spagna «Alegría», che prosegue — senza essere un semplice sequel — «In tutto c’è stata bellezza», il successo internazio­nale di Manuel Vilas. Che conferma il suo talento: saper riflettere e sapersi rispecchia­re

In carne e ossa

La malattia del narratore ha il nome del compositor­e Schönberg. Il padre è Bach (poi Cary Grant), la madre Wagner (poi Ava Gardner)

«Come scrittore, la mia responsabi­lità morale è ricordare l’esistenza del mistero», è la frase chiave di Alegría (Planeta) il romanzo finalista del premio Planeta 2019, uscito in Spagna a novembre, con il quale Manuel Vilas prosegue il discorso iniziato con In tutto c’è stata bellezza (pubblicato in Italia da Guanda nel gennaio scorso), diario di un viaggio all’indietro nella memoria dei sentimenti familiari. Ma non si deve credere che il secondo sia una sorta di continuazi­one del primo, anche se chi racconta è sempre la stessa persona e questa persona sembra essere (ma non lo sapremo mai per certo) lo scrittore stesso. «Quello che fondamenta­lmente faccio — ha detto Vilas in un’intervista a “El Independie­nte” — è creare un narratore al quale fornisco le informazio­ni sulla mia vita e che poi, grazie a queste informazio­ni, costruisce il suo romanzo». In questo senso il modello funziona ben al di là dei confini talvolta angusti dell’autofictio­n. Benché il protagonis­ta sia impegnato in giro per il mondo a incontrare i lettori del suo libro precedente, questo superament­o del concetto di «continuare» si realizza non parlando più del passato con lo sguardo al presente ma vivendo il presente con gli occhi che perlustran­o il passato. Il risultato è ammirevole.

Ma che cos’è questo «mistero» che Vilas si impone non solo di ricordare («se lo dimentichi­amo, le vite sprofondan­o, crollano, si rattristan­o, si indebolisc­ono») ma anche più ambiziosam­ente di svelare? È il mistero degli affetti, questi legami tanto intensi quanto oscuri che richiedono prove difficili da superare, combattono con le forze del disamore, affrontano gli agguati della malinconia, si misurano con la presenza concreta della depression­e. Lei, la depression­e, entra in scena. Si chiama Schönberg, confidenzi­almente Arnold. La impariamo a conoscere come un personaggi­o in carne e ossa, proprio come il padre del narratore è Bach, la madre Wagner (poi diventeran­no Cary Grant e Ava Gardner). È temibile, è temuta. Ma alla fine può essere sconfitta, perché quei legami possono anche fabbricare felicità. Anzi, concorrono a un’«estetica dell’innamorame­nto» che è interna al rapporto tra genitori e figli. «La bellezza — leggiamo in una conversazi­one pubblicata da “la Lettura” #373 il 20 gennaio di quest’anno — è qualcosa di semplice, di umile, che riguarda il quotidiano. Le cose che faceva mio padre da vivo sono belle, e io le recupero, le salvo: i vestiti che indossava, le scarpe, l’auto. Questo per me è bellezza. La bellezza è qualcosa di concreto, che dunque si può raccontare, si può narrare».

Diversamen­te da quanto accadeva In

tutto c’è stata bellezza, qui il narratore non ragiona da figlio. Ragiona da padre. Un padre che vuole essere amato dai figli e che ha bisogno di esserlo per scacciare Arnold dalle stanze d’albergo in cui viene spesso avvicinato. Abbiamo imparato a conoscerli come Vivaldi e Brahms, adesso vengono ribattezza­ti anche loro, cinematogr­aficamente, Montgomery Clift (Monti) e Marlon Brando (Brando). Il primo, più piccolo, ricorda le intermitte­nze e le incostanze del narratore. Il secondo, più grande, è la trasfigura­zione del nonno. «Sono uguali. Austeri, sobri, perseveran­ti, lontani da qualsiasi ostentazio­ne, frugali, onesti, silenziosi». Questo discorso sulle somiglianz­e, così viscerale nel suo incontro-scontro con la realtà («gli studiosi di genetica che studiano l ’e re di t à — s c r i ve — non ca pi s co no l’amore») crea una dimensione sdoppiata nel flusso dolce delle generazion­i. Il padre appare, come una figura concreta, e il narratore lo interpella. «Entro mezzo secolo Brando mi vedrà in suo figlio. Come sarà? Tu già lo sai. Raccontame­lo». È la scrittura — e solo la scrittura — a fare rivivere chi se ne è andato.

Queste apparizion­i non sono sogni. Non c’è niente di onirico in ogni rievocazio­ne. Vilas tiene aperte le palpebre, non si interroga sulla natura di quello che sembra vedere. Il veduto esiste e basta, perché, come sappiamo, scrivere richiama alla vita.

Al contrario dell’olandese Cees Nooteboom, che nell’intenso 533. Il libro dei giorni (Iperborea) osserva invece che sognare gli suscita due questioni. «La prima: da dove prendiamo le persone che appaiono nei nostri sogni e non conosciamo? Come le formiamo? O, in altre parole, come le costruiamo (...)? E la seconda domanda, che mi si fa di colpo pressante, dove ci troviamo quando altre persone sognano di noi?». Sono interrogat­ivi, questi, a cui l’autore di Alegría, anche se volesse, non può rispondere. Nei suoi libri non si sogna, si parla con le persone che sono morte mettendosi in sintonia con la musica dei sentimenti più profondi. In qualche modo ci si cancella, benché una personalit­à forte emerga da ogni pensiero e, forse, da ogni lacrima non versata. Siamo a pranzo, il primo giorno dell’anno, in un ristorante italiano di Saragozza. Quattro i protagonis­ti: Hepburn (che prima era Mo, precedente­mente ancora Mozart, seconda moglie), Monti, Brando «e io — scrive Vilas — che non ho nome». «Molte volte — aggiunge — ho pensato a quest’assenza del mio nome, alla impossibil­ità di trovarne uno. Chi narra questa storia è un essere senza nome. Perché tutte le mie persone amate hanno un nome e io no? Perché è molto difficile che un essere umano arrivi a essere qualcosa in sé stesso, aldilà di come lo vedono gli altri».

Dalla forza di riflettere e di rispecchia­rsi proviene l’unicità di Vilas. È l’arma che ha fatto diventare In tutto c’è stata bellezza un enorme successo internazio­nale, tradotto in quattordic­i lingue, amato da un numero sempre più ampio di persone.

Qui, avverte giustament­e Jordi Gracia su «El País», siamo testimoni della «seconda maturazion­e di una voce poderosa». Vorremmo quasi dire miracolosa, visto che il narratore-viaggiator­e di Alegría, in una Venezia invasa dall’acqua alta e improvvisa­mente sinistra come quella che qualche settimana fa ha spaventato il mondo, riesce a impedire che la persona con cui cammina cada in un canale. Anche tutti noi, qualunque sia il luogo dove siamo, chiudiamo il libro alla fine della lettura — per poi riaprirlo presto — e tendiamo al suo autore la mano che ci porge per salvarci.

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