Corriere della Sera - La Lettura
Ordinari come noi Italiani come noi
Sulle orme degli «Americans» di Robert Frank, Massimo Baldini ha attraversato piazze, spiagge, outlet del nostro Paese, soprattutto in provincia, ritraendo la «gente comune». Ai suoi 83 scatti Claudio Giunta ha affiancato testi di autori di ieri e oggi. Risultato: un poema per immagini
Ci sono libri in cui è bello perdersi: leggerli o rileggerli, guardarli o riguardarli, senza né capo né coda, aprendo una pagina a caso. È una delle sensazioni che si provano sfogliando Gli italiani, fotografie di Massimo Baldini corredate da Claudio Giunta con l’aggiunta di una preziosa scelta di testi (il Mulino). Gli italiani è una sorta di poema per immagini sulle orme del celebre The Americans di Robert Frank. È il 1955 e un giovane fotografo svizzero, Robert Frank, ottiene una borsa di studio dalla Fondazione Guggenheim per realizzare un lavoro fotografico sull’America. Frank percorrerà tutto l’immenso Paese, tra il 1955 e il 1956. Le strade, i volti delle persone incontrate, le piazze delle città, i bar e i negozi, i marciapiedi, i particolari più insignificanti passano e si fermano di fronte all’obbiettivo intelligente e partecipe del fotografo. Il libro The Americans fu pubblicato per la prima volta dall’editore francese Robert Delpire nel 1958. Furono scelte 83 foto in bianco e nero che cambiarono per sempre il senso e il ruolo della fotografia. Pubblicato negli Stati Uniti un anno dopo, resta il libro di fotografie più influente del Ventesimo secolo, una sfida a tutte le regole formali conosciute fino a quel momento. «Quella folle sensazione in America — scrive Jack Kerouac nella prefazione — quando il sole picchia forte sulle strade e ti arriva la musica di un jukebox o quella di un funerale che passa. È questo che ha catturato Robert Frank nelle formidabili foto scattate durante il lungo viaggio attraverso qualcosa come quarantotto Stati su una vecchia macchina di seconda mano».
Anche Baldini ci regala 83 fotografie, di elegante normalità su italiani normali. Come scrive Claudio Marra, se da un lato Baldini si confronta con Frank, «dall’altro sviluppa un’ampia riflessione sugli italiani di oggi, su un insieme di caratteristiche, di comportamenti e di luoghi, colti nel corso di lunghe peregrinazioni. Nell’attraversare il nostro Paese, ha privilegiato la provincia, o comunque un’Italia secondaria, rispetto alle grandi città, allo sconfinato patrimonio artistico della penisola e al cartolinesco più celebrato».
Frank ci offriva il ritratto di un territorio e dei suoi abitanti che molti americani non potevano o non volevano vedere: un Paese triste, difficile, diviso, più malinconico che eroico: una parade nel New Jersey, con un’enorme bandiera a stelle e strisce, un funerale in South Carolina, un ufficio postale nel Montana, il drive-in di Detroit... Baldini non è da meno: outlet, marciapiedi, treni regionali, croci sulla scena di un incidente stradale, oratori...
L’ordine fondatore della fotografia è la referenza. La foto è la diretta emanazione della realtà cui fa riferimento, per cui possiamo affermare che ciò che noi osserviamo non è la foto in sé, ma il suo referente. La foto è certificazione di presenza: per il fotografo, non c’è differenza — e neanche un vantaggio estetico — tra lo sforzo di abbellire il mondo e quello di strappargli la maschera. Baldini guarda il mondo, suggerisce ancora Marra, «senza ansie interpretative, senza ossessioni autoriali che obblighino a stravolgere ciò che vediamo». La forza di una fotografia sta nel conservare suscettibili di indagine momenti che sfuggono alle nostre consuetudini: esistono, sono lì davanti ai nostri occhi, ma non li vediamo. Per questo, anche nella lettura di una foto e non solo nella ripresa, intervengono fattori personali, intimi, biografici. E qui interviene il formidabile lavoro di Claudio Giunta, ben più interessante della manieristica introduzione di Jack Kerouac. Ha affiancato a ogni foto un testo tratto da autori italiani,
creando un effetto rifrazione di rara suggestione: il testo si rigenera con la foto e la foto perde quella sua ricercata e consapevole casualità per caricarsi di una nuova simbolicità. Scrive Giunta: «Quando mi sono messo a cercare i testi da affiancare alle fotografie di Baldini mi sono detto che bisognava evitare sia il kitsch, cosa che spero di aver evitato, sia il moralismo, cosa che credo di aver evitato. Mi sono ricordato di tutti i saggi sull’Italia dal tono affranto con cui gli scrittori e i professori hanno intasato le loro bibliografie, soprattutto in quel trentennio Sessanta-Ottanta oggi infinitamente rimpianto e allora maledetto più o meno da tutti. Mi sono sentito nelle orecchie i piagnistei degli intellettuali sul malgoverno, la volgarità dei media, la crisi della cultura. Bisognava fare diversamente: abolire i piagnistei, mettere qualche testo euforico, solare, che spiegasse quanto dobbiamo essere grati per il miracolo di essere nati qui, adesso, anziché in Siberia, in Bangladesh, o cent’anni fa a Perdasdefogu».
Il rammarico, se mai, è che gli scrittori italiani sono tendenzialmente inclini alla costernazione, «scrivono per biasimare più che per lodare». Tuttavia il montaggio analogico funziona che è un incanto: Luciano Bianciardi che «commenta» una portineria di Napoli, Camilla Cederna una prima visione a Orbetello, Luigi Meneghello una mostra d’arte a Milano, Tommaso Labranca il Palazzo Lombardia di Milano, ovviamente Paolo Villaggio un bar di Piove di Sacco, Natalia Ginzburg un marciapiede di Ostia, Lucio Mastronardi un laboratorio artigiano di Legnano, Goffredo Parise il sagrato di una chiesa di Palermo...
Ci sono i classici, certo, ma Giunta ama di più gli «scrittori nemici delle ideologie e della retorica, poco inclini a fare gruppo, e perciò quasi stranieri in patria, dal momento che la patria venerava e venera invece gli autori impegnati, i difensori di una Causa, non importa quanto utopica e sanguinosa». Ma c’è un elemento ulteriore che Giunta inserisce per arricchire il libro. Si chiede chi sia la gente ordinaria ( ordinary people), termine che appare meno connotato negativamente di gente comune. La gente comune, infatti, è il nuovo soggetto antropologico e politico che ha sostituito il pubblico, l’audience, così come il pubblico aveva sostituito il popolo, la folla, la plebe, il volgo e altre anfore sociologiche attraverso cui modellare la liquidità della massa.
Va ora di moda la mistica della gente «normale», dell’uno vale uno, un’ondata schiumosa che porta come detrito non le persone «normali», ma la loro insopportabile caricatura. In Pane, amore e fantasia (1953) Vittorio De Sica vuol saperne di più su un pettegolezzo che lo riguarda. Tina Pica risponde: «Lo dice la ggente». «Ma quale gente?», i nsi s te De Si ca . « Eh, l a ggente, l a ggente... » . E mentre pronuncia la fatidica parola, Tina Pica con il braccio disegna un ampio semicerchio. La gente è un tutto fatto di niente. Pa r t i a mo da Ti na Pi ca . Scrive Giunta: «Non è bello da dire, non getta una buona luce su di me, ma s e mi g ua rdo i ndi e t ro , adesso che ho compiuto 48 anni e sembra incredibile, ho l’impressione che tutto quello che ho fatto nella vita sia stato cercare di allontanarmi il più possibile dalla gente ordinar i a i c ui vol t i a f f i or a no dalle fotografie di Massimo Baldini. Gente ordinaria: un po’ meno che “gente normale”, un po’ più che “povera gente”: la gente ordinaria che avevo intorno a me a scuola, nei negozi in cui mia madre faceva la spesa, in vacanza con Estate Ragazzi». Molti che armeggiano con le parole scritte hanno fatto questo sforzo di allontanarsi dai wrong beginning, dagli inizi sbagliati in cui il destino li aveva collocati.
Eppure la gente ordinaria evocata da Tina Pica e ritratta da Massimo Baldini è riconoscibile, fa ancora parte di noi. C’è invece maggiore smarrimento di fronte alla «gente comune» che popola la televisione: in questi anni alcuni generi, come il reality, hanno cercato di traghettare storie di gente comune, di farle uscire dall’anonimato in cui generalmente vivacchiavano, di portarle alla ribalta del video e farle esplodere. Si è formato così una sorta di bestiario fantastico, popolato non da Sirene e Onocentauri ma da esibizionisti, freak, personaggi improbabili (dalla vita bassa, direbbe Alberto Arbasino) che pure ci pare di incontrare ogni giorno, «nuovi mostri» che nemmeno Dino Risi saprebbe ora tratteggiare.
Il reality è una realtà messa fra virgolette. Le virgolette, si sa, sono la cifra del postmoderno, l’indice di un atteggiamento che consiste nel non prendere sul serio, di petto, le attese o le grandi narrazioni che il secolo scorso ci ha fornito. Il reality è una specie di parodia della realtà. Forse questa è ennesima costernazione, ma la sensazione è di vivere in questa parodia.