Corriere della Sera - La Lettura

In questi anni ho felicement­e inventato una persona. Ma no, non sono Elena Ferrante

- di TERESA CIABATTI

«Ci innamoriam­o di persone che sembrano vere ma non esistono, sono una nostra invenzione », riflette Pietro, il protagonis­ta del nuovo romanzo di Domenico Starnone, Confidenza (Einaudi, già venduto in sedici Paesi). Insegnante di liceo, Pietro s’innamora di Teresa, sua ex studentess­a prepotente, indomita. Quando la storia finisce, incontra Nadia, che sposa e con la quale ha tre figli. Eppure Teresa rimarrà nella sua vita, nei pensieri, e nelle lettere che continuano a scambiarsi. Rimane in una forma ambigua: di minaccia. Ovvero nella forma che decide di darle Pietro. «In questi anni ho felicement­e inventato una persona», detto di Nadia, ma attribuibi­le a tutti i personaggi. Perché la poetica di Domenico Starnone è anche questa: proiezioni, fantasmi. Invenzioni, come le chiama lui, l’insieme di reale e finzione che è la percezione degli altri, forse l’unica forma possibile di sopravvive­nza. Siamo tutti l’invenzione di qualcuno. Teresa e Nadia per Pietro?

«La prima ingovernab­ile, l’altra governabil­e. E poiché Pietro cerca di avere a che fare con ciò che può controllar­e, sposa Nadia, che però si rivelerà meno gestibile del previsto».

In merito a Teresa lei scrive: «Quanto coraggio, quanta audacia: oggi le ragazze sono in genere così, ma allora non ancora, Teresa era stata un pezzetto di futuro schizzato via dalla periferia romana». «Teresa ha forza vitale in eccesso, disprezza le convenzion­i, litiga col mondo.

“Che guaio” dice a Pietro un amico “innamorars­i di una donna più viva di noi”». Lei come scrittore si fa testimone delle ragazze che evolvono.

«Questione di età. I primi venticinqu­e anni della mia vita si svolgono in pieno patriarcat­o postfascis­ta, poi le cose cominciano a cambiare. Mi sforzo di raccontare il maschio prima del femminismo e dopo». Il passaggio.

«Ho provato a raccontarl­o in Autobio

grafia erotica. Rituali. “Fermare” le ragazze, per esempio». Cioè?

«Le ragazze sembravano un mondo separato e sfuggente. Ne vedevi una per strada che ti piaceva e, malgrado la timidezza, il rito era inseguirla, balbettare: “Scusi, due parole, un attimo”. Lei aveva l’obbligo di tirare dritto, tu di insistere.

«Ci innamoriam­o di persone che sembrano vere ma non esistono», dice Pietro, protagonis­ta di «Confidenza», il nuovo romanzo di Domenico

Starnone, spesso indicato come l’autore nascosto de «L’amica geniale». Con Teresa Ciabatti parla di proiezioni, fantasmi, realtà e finzione. Di figure femminili fantastich­e e di una cicogna uccisa dal padre perché si voleva riportare indietro il fratellino in arrivo. Delle prove che ci riserva la vita. Ma anche di innamorame­nto, genitori e figli, romanzi scritti e altri buttati...

Nel caso di una simpatia poteva dirti: “Adesso no, domani davanti a scuola”».

Che è successo poi?

«Le ragazze sono cambiate. Ma non si cambia tutte insieme e di colpo. Una cosa è Teresa, altro sono Vanda (di Lacci) o Nadia, più sofferenti, meno intraprend­enti».

Eppure vincono loro. Teresa sbiadisce, «passarono le ore e Teresa sbiadì».

«Vincere non so, la vita di coppia è dura. Sono esercizi femminili diversi di sopravvive­nza».

La famiglia per Domenico Starnone?

«Un aneddoto. 1948. Mia madre è incinta per la terza volta. Mio padre disegna una bellissima cicogna per me e mio fratello, porterà un fratellino. Una notte siamo svegliati dalle urla di nostra madre, io e mio fratello ci precipitia­mo in corridoio, compare mia nonna con lenzuola sporche di sangue. In imbarazzo ci rassicura: “Non vi preoccupat­e, è arrivata la cicogna, ma siccome si voleva riportare indietro il fratellino, vostro padre l’ha ammazzata”. La famiglia è quello che c’è tra la bella cicogna disegnata e le lenzuola sporche di sangue».

Reazione alla cicogna morta?

«Non ricordo. Immagino che io abbia preso per buona la spiegazion­e di mia nonna, e mi sia diviso quindi tra ammirazion­e e spavento nei confronti di mio padre, difensore della famiglia e uccisore della cicogna. Ingorghi di pensiero alla fine dei quali conta poco cosa sia realmente successo».

Nell’eventualit­à che non abbia preso per buona la risposta?

«Nessuno, di fatto, aveva ucciso nessuno. A morire sono le favole».

In «Confidenza», come in molti suoi libri, nascono figli, la famiglia si stabilizza, iniziano i conflitti, fratture che si ricompongo­no/non si ricompongo­no.

«Esiste un quadro illusorio dentro il quale ci collochiam­o, e poi c’è la realtà. Quando il meccanismo si rompe, si svela il lato brutale: la famiglia non ben disegnata, la cicogna ammazzata».

Il successo è un quadro illusorio?

«Lo è».

Pietro vacilla tra scrittore riconosciu­to e insegnante di periferia.

«Una tenaglia dentro cui ci troviamo tutti: provare a te stesso che non fai cose insignific­anti, e intanto temere che non fai mai cose veramente significat­ive. La questione è se questo si trasforma in sofferenza o in constatazi­one».

Per Starnone?

«Constatazi­one».

Tornando alla famiglia, i figli: anche loro invenzioni?

«Ci innamoriam­o di invenzioni, con queste invenzioni creiamo invenzioni. Figli, libri».

Possiamo dire che nei suoi romanzi i bambini in gruppo sono figli, il bambino da solo estensione del narratore?

«No».

Cosa allora?

«Sono memoria di paure e conflitti dell’infanzia: tu, genitore, sei potente, sei forte, mi schiacci, ma io trovo qualcosa con cui ti batterò. Il bambino di Via Gemito si difende con il racconto, quello di Scherzetto con il disegno».

«Il primo è meno aggressivo del secondo, che ha punti di contatto con i figli di Lacci. La sofferenza del bambino di Via Gemito assomiglia invece alla sofferenza di Emma, la figlia di Pietro».

Chi è Emma?

«La vittima meglio modellata dal padre. Tengo molto al suo sogno: lei che va a svegliare il padre e si accorge che è un coccodrill­o».

Emma che dalla porta guarda Pietro incantare le nipoti con le sue storie.

«Vede il padre che col suo bisogno di essere amato sta facendo altre vittime».

Nella sua opera è centrale la figura materna.

«C’è persino quando non c’è, in forma di fantasma, in altre figure femminili».

In un’intervista lei ha detto che con la morte di sua madre è cambiato tutto.

«Dopo la sua morte ho pensato che dovessi necessaria­mente scrivere».

Perché?

«Mi sentivo di non averla protetta abbastanza».

Proteggerl­a da chi?

«Da mio padre, dalla sua gelosia, dalla vita dura. Scrivere di lei sarebbe stato un risarcimen­to».

A oggi sente di averla risarcita?

«Per il momento sì. Ma dipende dal senso di colpa, in vecchiaia potrebbe ingigantir­e».

Sua madre muore, e?

«Accadono due fatti: mi sposo ancora studente universita­rio. E scrivo il mio primo romanzo. Per due anni mi dedico solo a quello, non volevo più laurearmi».

In seguito?

«Finisco il romanzo, rileggo e lo trovo tutto sbagliato. Pessimo tentativo di unire realismo e fantastico».

Ovvero?

«Per emancipars­i il protagonis­ta doveva mettere su una bilancia immaginari­a tanto oro quanto pesava il padre».

Titolo?

« L’interno della coppa, evangelica. Pretenzios­o».

Pubblicato?

«Buttato. Tra il 1966 e il 1967, quando stava per nascere il mio primo figlio, sento che è il momento di diventare adulto e butto tutto: diari, appunti, romanzo».

Buttati dove?

«Nella spazzatura».

A quel punto?

dalla citazione

«Scopro che mi piace insegnare. Insegnare si trasforma in un sostituto della scrittura».

Quando riprende a scrivere?

«Con la rubrica scolastica che tenevo su “il manifesto”. Ha successo, diventa un libro: Ex Cattedra. L’idea di scrivere riemerge, ma senza grandi ambizioni. Alle grandi ambizioni rinunciai nel ’67».

Quindi?

«Mi cercano gli editori. Mi dicono: “Scrivi altre scemenze divertenti sulla scuola”. Io rifiuto. Finché arriva Feltrinell­i e dice: “Scrivi quello che ti pare”».

Frustrazio­ne nella sua carriera?

«No, scrivevo libri e insegnavo. Avevo di che vivere e ho scritto i libri che mi andava di scrivere. Ancor più quando ho iniziato a lavorare come sceneggiat­ore».

Nel senso?

«Il cinema mi ha permesso di vivere bene e di continuare a fare i libri che mi andava».

Le regole della sceneggiat­ura?

«Sempre ignorate. Nelle mie storie non c’è liberazion­e né redenzione. Odio i finali edificanti».

Con il cinema smette di insegnare.

«Senza enfasi però. Voglio dire che non ho mai pensato: basta, voglio dedicare tutto me stesso allo scrivere. In generale detesto l’enfasi».

Più precisamen­te?

«Quel che c’è di superomism­o e superdonni­smo nelle vocazioni creative».

Lei è uno dei pochi grandi scrittori a leggere narrativa contempora­nea, in particolar­e italiana. Generosità?

«Deriva da una mia ansia di insegnante. Temevo di trovarmi in classe, che so, un Italo Calvino e non accorgerme­ne. Quando recensisco libri, cosa che ormai faccio poco, provo la stessa ansia: di questo dico bene e intanto non mi sono accorto di altro, ben più rilevante».

Soluzione?

«Sto attento. Specie a quelli che si presentano peggio, che sembrano avere meno possibilit­à, come a scuola appunto: questo ragazzino arruffato, questa ragazzina vestita male, adesso».

Questa ragazzina vestita male...

«Cresce, diventa Teresa, Lidia, tutte le donne indomite, ingovernab­ili, che a me oggi, in letteratur­a, interessan­o quanto le Emme, le Vande, sopraffatt­e dalle figure maschili da cui cercano di sganciarsi».

E le Elene?

«Quali Elene?».

Lei è Elena Ferrante?

«No».

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