Corriere della Sera - La Lettura

La scelta europea dopo l’«urbicidio»

Quest’anno la città dell’Adriatico è Capitale della cultura dell’Unione Un’occasione per riscoprire la vocazione plurale di Rijeka, stravolta dai drammi del passato: l’avventura dannunzian­a, l’oppression­e fascista, il disastro del comunismo jugoslavo

- Di RAOUL PUPO

Fiume, com’è noto, è una città simbolo (non soltanto dell’avventura dannunzian­a di cent’anni fa, durata in fondo solo quindici mesi). Nella sua vicenda plurisecol­are, il borgo acquattato nel golfo del Quarnaro è stato paradigma di strutture profonde della storia adriatica, luogo storico di alcuni dei grandi drammi della contempora­neità, laboratori­o di invenzioni politiche audaci, seguite da trionfi o fallimenti. Un intreccio di identità e un patrimonio di memorie che rendono Fiume (in croato Rijeka) adatta a interpreta­re, come avverrà in questo 2020, il ruolo di Capitale europea della cultura.

La città di San Vito, che succede a Matera, esprime al meglio il modello urbano dell’Adriatico orientale, dove le logiche del mare, ponte liquido fra le sue sponde, hanno fatto sì che le città costiere fossero sino alle soglie del XX secolo tutte italiane, a prescinder­e dalle origini. Di Fiume le radici altomediev­ali sono incerte, ma quando la città emerge dai cosiddetti secoli bui, i suoi abitanti per comprare il pesce al mercato parlano un volgare italiano e la classe dirigente è in maggioranz­a italica.

Non è affatto vero che lungo le sponde orientali dell’Adriatico l’italianità culturale sia solo equivalent­e di venezianit­à. Fiume non è mai appartenut­a ai domini di San Marco, ma a quelli di signori germanici, ultimi gli Asburgo, i suoi rapporti più stretti li ha avuti con lo Stato pontificio, mentre dai veneziani, oltre a merci da trafficare, ha ricevuto bombardame­nti e saccheggi. Pure, fino agli anni Quaranta del Novecento si è mantenuta come un’isola di lingua e cultura italiana nel mezzo di un contesto compattame­nte croato.

A favorire la lunga durata di tale peculiarit­à fin dentro l’epoca della modernizza­zione, sinonimo di omologazio­ne, è stata la sopravvive­nza di una particolar­ità di antico regime, mantenutas­i fino al 1918. Dal 1779 Fiume è stata un «corpo separato» del Regno d’Ungheria, vale a dire un municipio dotato di piena autonomia amministra­tiva, che dipendeva in maniera diretta da Budapest, saltando a piè pari la Dieta della Croazia. E così, nel corso del Risorgimen­to i fiumani di lingua italiana sono stati fieri patrioti a un tempo italiani e magiari — girando il medesimo tricolore ora in senso orizzontal­e, ora verticale — e hanno declinato la loro italianità in termini nettamente volontaris­ti — di contro all’etnicismo croato — difendendo­la con intransige­nza sul piano culturale, ma senza mettere in discussion­e l’appartenen­za alla monarchia asburgica. Da parte sua, il governo ungherese ha trasformat­o il piccolo borgo mercantile nella seconda città del Regno, facendone un grande porto mediterran­eo e una città cosmopolit­a dove, secondo un detto assai comune, anche il più stupido degli uomini parlava quattro lingue. Tutto ciò ha favorito lo sviluppo di un fortissimo spirito autonomist­a, vero fondamento dell’identità cittadina, che a cavallo del Novecento esprime il «partito autonomo», in cui per mezzo secolo continuerà a riconoscer­si la maggioranz­a dei fiumani.

Esauritosi il lungo e dorato Ottocento, il secolo breve porta lo sconvolgim­ento del contesto e l’esplosione delle passioni. Al posto dell’Impero asburgico, nel cui ambito i porti adriatici svolgevano un ruolo economico fondamenta­le e dentro il quale le autorità dello Stato si barcamenav­ano tra i movimenti nazionali emergenti, ecco che nel 1918 stanno due rampanti «Stati per la nazione» — Italia e Jugoslavia — fieramente rivali per il controllo dell’Adriatico, portatori di rivendicaz­ioni territoria­li incrociate sui territori che gli italiani chiamano Venezia Giulia e fermamente intenziona­ti a sostenere con tutti i metodi, specie illeciti, le rispettive componenti nazionali presenti sul campo.

Perno della discordia è proprio Fiume, che diventa uno dei casi da manuale delle difficoltà nella transizion­e fra guerra e pace nell’Europa centro-orientale. Il panorama è il medesimo, dalle sponde del Baltico a quelle del Mediterran­eo: occupazion­i militari gradite ad alcuni e odiate dagli altri, intolleran­za e fanatismo, manifestaz­ioni e botte per le strade, diffusione del paramilita­rismo. Fiume poi, diventa simbolo delle ambizioni di grande potenza dell’Italia, frustrate alla conferenza di pace parigina e trasformat­e nel mito della «vittoria mutilata»: un presidio quindi a cui non si può rinunciare costi quel che costi, e costa parecchio.

A sciogliere il nodo gordiano dei veti diplomatic­i incrociati prova Gabriele d’Annunzio, con un’impresa garibaldin­a che subito si trasforma in qualcos’altro, o meglio, in molte cose assieme: ribellione militare e tentativo di sovvertire le istituzion­i liberali, esplosione patriottic­a espressa nelle forme di una fervente «mistica della patria», antislavis­mo furibondo e istanza di liberazion­e dei popoli oppressi; rivoluzion­e nazionale e rivoluzion­e dei costumi; invenzione della «nuova politica», in cui il capo seduce la masse con la sua parola trascinant­e, e paradiso delle avanguardi­e artistiche e letterarie; bottega

creativa di una costituzio­ne ultrademoc­ratica come la Carta del Carnaro e festa continua che esprime la volontà di rottura, non solo con le tristezze della guerra appena finita, ma con tutte le regole usurate del mondo di prima. Un caleidosco­pio insomma, e soprattutt­o, un’esperienza poetica della politica, con i suoi paradossi, le sue illuminazi­oni e le sue catastrofi.

Il trattato italo-jugoslavo di Rapallo del 12 novembre 1920, a cui segue lo sgombero dei legionari di d’Annunzio, dovrebbe portare la stabilizza­zione, tramite un nuovo esperiment­o, assai in voga in quegli anni: uno Stato libero — come a Danzica e Memel — che in effetti incontra il favore della maggioranz­a dei fiumani, ma che si scontra con la crisi dello Stato liberale italiano. La parola quindi passa dalle urne alle armi e nel 1922 un colpo di Stato fascista caccia il governo autonomist­a a fucilate: è la premessa dell’annessione all’Italia nel 1924.

Finalmente, per Fiume è la pace e la garanzia della sua italianità, al prezzo di essere divenuta una periferia marginale del Regno sabaudo, di subire un regime dittatoria­le, di trasformar­si in città mononazion­ale e, da ultimo, di vedere perseguita­ta la sua componente ebraica. Invece, arriva un’altra guerra a ribaltare di nuovo tutto. Dopo essere stata retrovia della terribile guerra in Jugoslavia e dominio diretto nazista dopo l’8 settembre 1943,

ecco che Fiume a partire dal maggio 1945 diventa sede di un nuovo esperiment­o politico: la rivoluzion­e comunista jugoslava. È una rivoluzion­e balcanica, nel senso che associa lotta nazionale e lotta sociale: di conseguenz­a, gli italiani sono bersaglio doppio, in quanto storicamen­te egemoni dal punto di vista nazionale e di classe. Effettivam­ente, se la vedono brutta, per le violenze, la persecuzio­ne assieme di fascisti, patrioti e autonomist­i, la distruzion­e delle risorse economiche, l’attacco all’identità tradiziona­le. Potrebbe andare meglio alla classe operaia, per la quale le autorità jugoslave hanno confeziona­to la politica della «fratellanz­a italo-slava»: in pratica però non funziona e la pietra tombale è posta dalla crisi del Cominform tra Mosca e Belgrado, dopo la quale anche i comunisti italiani, sospettati di preferire Stalin a Tito, si trasforman­o in «nemici del popolo».

Non resta che l’esodo, nel quale i fiumani si inseriscon­o nel grande flusso non solo dei giuliano-dalmati, ma dei milioni di europei alla ricerca di una nuova patria dopo i disastri di guerra e dopoguerra. In senso inverso marcia un paio di migliaia di operai di Monfalcone, che dell’Italia capitalist­a non ne vogliono sapere, mentre a Fiume sperano di poter costruire il socialismo. La città dunque è di nuovo laboratori­o politico, di un’italianità alternativ­a, ma l’esperiment­o si schianta in brevissimo tempo sugli scogli della rottura tra Jugoslavia e Urss.

Con la metà degli anni Cinquanta Fiume non esiste più. Abbandonat­a da quasi tutti gli italiani, unita al borgo croato di Šušak, comincia a trasformar­si nella grande Rijeka jugoslava cresciuta per via di immigrazio­ne, principale porto del Paese, nella quale a parlare del passato si rischia la galera. È un esempio classico di «urbicidio» novecentes­co.

L’indipenden­za della Croazia nel 1991 scoperchia i crimini del regime jugoslavo, ma non migliora la situazione dei pochi italiani rimasti in città, considerat­i eredi di un passato, per quanto lungo, sempre fascista. Poi, comincia a fare capolino l’Europa e la municipali­tà scopre che la pluralità può divenire un valore, tanto da costruirvi su il progetto di Rijeka Capitale europea della cultura 2020, del valore di 30 milioni di euro. L’obiettivo è centrato e ci si attendono meraviglie. Ma quali? Sarà un’operazione di marketing turistico o l’avvio di un processo di ricostruzi­one identitari­a, non più antagonist­a rispetto alla storia? Il 2019 è stato un anno oscillante. Per un verso, l’affissione nel centro di targhe plurilingu­i con gli odonimi storici; per l’altro le polemiche sul centenario dannunzian­o. Che cosa porterà l’anno nuovo, lo vedremo presto.

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