Corriere della Sera - La Lettura

Nel torrente del cuore ho scoperto l’acqua calda

- Di PETER HELLER

La preparazio­ne delle esche è un’arte ma è un’arte anche quella di abbandonar­si al piacere della pesca, all’abbraccio della natura. Che può essere pericoloso, come quando un grosso orso salta fuori all’improvviso. Ed è un’arte anche godere della corrente dei torrenti, gelida o fresca a seconda della stagione. È sempre stato così, tranne un giorno. Il giorno del panico

Era la fine di settembre, e il torrente scorreva chiaro e tranquillo dal West Elks, nel sudovest del Colorado. Il periodo dell’anno che preferisco: attraverso la biforcazio­ne del dirupo vedevo i versanti del monte Gunnison striati dall’oro dei pioppi, e stando vicino all’acqua sentivo l’odore della pietra fredda e la particolar­e dolcezza dei salici che ingialliva­no. Mi sono fermato sulla riva erbosa e ho infilato la lenza nella canna da pesca, con calma. Non avevo fretta. Falene bianche fluttuavan­o al sole. In una pozza verde scuro, sotto l’ombra di un abete rosso inclinato, una trota solcava la superficie, formando anelli silenziosi. Avevo circa un’ora prima che il sole tramontass­e dietro la cresta boscosa sul lato opposto. Bene.

Chiamiamo questo torrente Sulphur. L’ho chiamato così nel romanzo The Painter, in modo che non fosse riconoscib­ile e non fosse invaso dai pescatori. È il posto in cui torno sempre. Non perché la pesca sia eccezional­e, non lo è. La trota comune è quasi scomparsa e la trota iridata più grande che riesco a prendere sta di solito in una padella. Adoro questo torrente perché è qui che trent’anni fa ho imparato a pescare. Ero sempre stato intimidito dall’arte della pesca con la mosca. Avevo letto In mezzo scorre il fiume di Norman Maclean, e pensavo che si dovesse essere nati per la pesca, che tuo padre dovesse essere un pastore presbiteri­ano e che ci dovesse essere qualcosa di mistico in tutta la faccenda. Bobby Reedy, che gestiva la stazione di servizio di Paonia con suo padre Gene e suo figlio Mike, diceva: «Diavolo, Pete, lancia la dannata mosca laggiù. La trota ha un cervello delle dimensioni di una formica». Gli ho chiesto se dovevo andare nelle acque del Forks di Gunnison, dove ci sono trote da trofeo. «No, sarà pieno di coglioni di Aspen. Vai più in alto».

Mi ha prestato una canna e mi ha mostrato come lan

ciare. Per un intero autunno sono andato tutte le sere con la mia moto a pescare al torrente. Non avevo stivali da pesca e scivolavo e sguazzavo in vecchie scarpe da ginnastica e pantalonci­ni, finché non sentivo più le gambe. Non mi importava, ho cominciato a catturare trote. Ero l’uomo più felice della terra. Ero così contento che spesso pescavo fin quando apparivano le stelle e non riuscivo più a vedere la canna. Pescavo fino a quando le guide d’acciaio della canna si coprivano di ghiaccio. E da allora ho continuato a pescare lungo lo stesso tratto di sei miglia.

Stasera ho preparato un’esca fatta con un ciuffo di peli di alce, chiamata Stimolator­e. (I grandi pescatori sanno tutto su quel che mangia una trota; conoscono la tassonomia degli insetti e i loro cicli vitali. Io no. Io mi guardo intorno, e se vedo in giro un grosso scarabeo marrone, cerco un’esca simile nella mia cassetta). Sono entrato in acqua. Ho preso una trota iridata di 30 centimetri nella vicina pozza e l’ho lasciata andare, poi mi sono inoltrato verso il centro e ho iniziato a lanciare più a monte, lungo i bordi dei gorghi. Ho continuato a muovermi. Un martin pescatore mi è volato davanti muovendosi agilmente. Sul torrente il vento era fermo, ma tra gli aceri le folate facevano cadere le foglie. Dopo una mezz’ora il sole si è messo in equilibrio sulla cresta e il torrente è diventato un intreccio di colori mercurio e petrolio. Sono stato pervaso da un’ondata di gioia silenziosa. Ho perso la cognizione di me.

La strada sterrata si allontanav­a dal torrente, lasciandoc­i soli. Mi sono arrampicat­o su uno sfasciume di alberi caduti e mi sono inoltrato in un tratto di canyon che la gente raramente vede. Ho preso alcune piccole trote iridate e le ho trattenute nell’acqua fino a quando non si sono svincolate dalle mie mani e si sono perse tra le ombre delle pietre. Amavo tutto questo sopra ogni cosa. Penso che spesso amiamo le persone e i luoghi a cui portiamo il meglio di noi stessi. Su questo specchio d’acqua avevo sempre portato la mia massima attenzione e, stranament­e, la mia vulnerabil­ità. Ho pescato qui quando avevo il cuore infranto; quando ho pubblicato il mio primo libro di storie; quando è morta mia madre. Mi sono seduto sullo stesso roccione a piangere per qualcuno che non sarebbe più tornato, e sono scoppiato a ridere quando un merlo si è messo a saltellare sulle rocce bagnate fin quasi a toccarmi i piedi. Ho attirato l’attenzione di un falco pescatore che volteggiav­a sopra di me. Il gorgogliar­e della corrente, il rigurgito contro la riva — quella è stata la musica che ha accompagna­to la mia vita —. Ringrazio sempre il ruscello, quando me ne vado. Immagino che questo sia il significat­o di Home Pool, il luogo in cui ci troviamo e ci perdiamo.

Quella sera ho perso il senso del tempo. Il torrente ha cominciato a riempirsi di ombre. Ho continuato a pescare. Le sponde si facevano ripide e si stringevan­o, sparite le isole di ghiaia. Il torrente si allargava e si faceva più profondo. Vedevo gli anelli che le trote disegnavan­o sull’acqua scura e ho iniziato a fare lanci più lunghi.

Stavo lanciando l’esca verso l’altra riva quando ho sentito un rumore. Ho alzato lo sguardo e l’ho visto. In piedi, in acqua per metà, sullo stesso mio lato del torrente. Un orso nero molto grande. Si chiama orso nero, ma in realtà era di colore marrone cannella, più scuro intorno alla testa. Era grasso e forte e sul fianco aveva delle bacche attaccate al pelo. Le sue orecchie rotonde erano protese in avanti. Era lontano un lancio da me e non potevo sentirne l’odore perché il vento soffiava da monte, ma lui poteva sentirmi. Riusciva sicurament­e a sentire l’odore del pesce sulle mie mani. Sono rimasto impietrito. Lui ha sollevato il naso. Ho lasciato andar giù l’esca che avevo lanciato. Non ho tirato la lenza, che si è avvolta su sé stessa galleggian­do. L’orso era fermo. Anch’io restavo fermo. Poi, abbassata la testa, si è allontanat­o sguazzando senza fretta nel torrente, si è arrampicat­o sulla riva ed è scomparso nel fitto del bosco. Ho respirato. Ho riavvolto la lenza e ho lasciato che il battito del cuore rallentass­e.

Mi ero perso nel torrente e lui era arrivato. Mi aveva studiato, chiedendos­i se costituiss­i una minaccia; non lo ero. Se fossi un pasto; evidenteme­nte no. Non ero niente. Ero parte della sera, come lui. Quello era il dono.

Il Sulphur ha offerto tanti di questi momenti. L’estate scorsa, all’inizio di luglio, ho percorso in macchina la vecchia strada sterrata. Ho parcheggia­to al mio solito posto, ho preso la canna e ho attraversa­to il bosco di corsa, felice come sempre. Avevo lavorato molto, avevo appena finito un romanzo e da aprile non venivo qui. Niente stivali oggi, faceva molto caldo, sui 35 gradi. Non arrivava mai a fare tanto caldo. Ero sempre venuto qui per rinfrescar­mi, ma non c’era fresco. Era strano.

Sono andato verso la riva e ho trovato la corrente verde che filtrava tra i sassi affioranti, i miei vecchi amici. L’acqua era molto bassa per questo periodo dell’anno, fine agosto, ma pazienza. Mi sono spinto verso il centro, pronto per il primo lancio, e mi sono fermato. La corrente non era fredda. Non ho provato il solito choc. Ho frugato nella sacca attaccata alla cintura, ho tirato fuori un termometro, l’ho immerso sospendend­olo a un laccio di cuoio e ho aspettato. L’ho tirato su: 23 gradi. Ho sbattuto le palpebre e l’ho riguardato.

Sono uscito e sono andato a sedermi su una grossa roccia. Ventitré gradi sono circa 5 gradi in più di quanto vada bene per pescare. L’acqua calda ha meno ossigeno disciolto e le trote sono molto apatiche, dopo essere state catturate e avere lottato non riescono a riprenders­i. Anche se le lasci andare, moriranno.

Ho scritto un romanzo post-apocalitti­co, intitolato Le stelle del cane (Rizzoli, 2013), che si svolge in un prossimo futuro in Colorado, lo Stato che sta attorno al Sulphur. Nel libro il cambiament­o climatico ha prosciugat­o molti torrenti e ha riscaldato i fiumi. Le trote sono scomparse. È una prospettiv­a terribile, distopica.

Ora vedevo il torrente scorrere, vorticare nella pozza oscura sotto l’abete rosso pendente, e ho pensato: sta succedendo ora. Ci sono sempre più giorni così. Non solo a fine agosto, ma anche alla fine di giugno, quando il torrente dovrebbe essere gelido per lo scioglimen­to della neve. Sta succedendo qui, e nelle Alpi, e in Bolivia.

Ho sentito una stretta al petto, lo stesso panico che ci prende quando qualcuno che amiamo è molto malato. E ho pensato: per favore, riprenditi. E anche: che periodo terribile da raccontare. Qualche altra stagione come questa e la trota scomparirà. E se la trota andrà via, scomparira­nno anche il martin pescatore e il falco. Poi sarà la volta dell’abete rosso e del pino. E ho pensato: che cosa ho fatto? Sono io ad aver fatto questo. Ne sono complice. È un sogno che non posso scacciare.

Mi sono alzato, ho mollato la canna e sono tornato indietro attraverso il bosco. Siamo così complicati. Forse a volte siamo nobili. Forse siamo sfrenati e avidi. Abbiamo questa enorme capacità di gioia, amore e divertimen­to e sappiamo cambiare e crescere. Ci prendiamo cura gli uni degli altri, quando vogliamo. Ci prendiamo anche cura di quelli che non hanno voce, del torrente e del merlo, dell’orso. Mentre salivo sulla riva, ho pensato: possiamo, possiamo fare tutto questo. Adesso o mai più. Queste cose che amiamo, di cui abbiamo bisogno, si stanno disfacendo davanti ai nostri occhi. Chi diavolo siamo, e cosa ci facciamo qui se non possiamo testimonia­rlo e farcene carico? Mentre salivo, sentivo il mormorio del torrente in basso, dietro di me. Scaturiva da montagne che conservava­no ancora il ricordo delle tormente di neve e parlava una lingua che non riuscivo a decifrare.

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ILLUSTRAZI­ONE DI MARCO PETRELLA

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