Corriere della Sera - La Lettura
Taiwan, Iran, Russia I tre rebus di gennaio
Dal 1949 l’isola si amministra da sola e dal 1996 sceglie democraticamente il leader: lo rifarà l’11 gennaio. Pechino vuole la riunificazione ma la presidente uscente, autonomista, è in vantaggio
Metà dicembre, cerimonia di consegna della bandiera di combattimento alla Shandong, prima portaerei interamente costruita in Cina. Davanti al presidente Xi Jinping, in giacca alla Mao, sono allineati sul ponte di volo cinquemila marinai e avieri dell’equipaggio guidati dal comandante e dal commissario politico. Xi pronuncia la formula solenne: «Servire il popolo e il Partito comunista». E il primo servizio della nave lunga 315 metri per 70 mila tonnellate di dislocamento, la più grande mai uscita dai cantieri cinesi, è stato il passaggio nello Stretto di Taiwan. La crociera ha suscitato diverse interpretazioni e sospetti, perché l’isola che Pechino considera da settant’anni una provincia ribelle sta per andare alle urne per eleggere il presidente e rinnovare il Parlamento. Si vota l’11 gennaio.
Gli analisti militari discutono sul numero degli aerei imbarcati: 36 caccia J-15 e una dozzina di elicotteri, dicono le fonti cinesi; non più di 24 J-15, sostengono gli osservatori occidentali facendo notare che i grossi jet made in China, chiamati Squali volanti, sono ingombranti per gli hangar di una portaerei. Nessun dubbio invece, a Taipei e Washington, sul significato della missione: la Shandong è sfilata nello stretto, a portata di binocolo dalle coste dell’isola, per esibire la nuova capacità cinese di operare nel teatro taiwanese. Un segnale minaccioso alla vigilia delle elezioni che secondo i sondaggi daranno alla signora Tsai Ing-wen altri quattro anni di presidenza.
Il governo di Taipei ha denunciato il gesto intimidatorio cinese, per quello di Pechino il passaggio nello stretto è stato «puramente geografico». I cultori di geopolitica ricordano che nel 1996 il presidente Bill Clinton spedì le portaerei Nimitz e Independence a presidiare l’isola che si preparava a eleggere democraticamente per la prima volta un presidente, mentre dall’altra parte i cinesi si esercitavano nel lancio di missili. Ora anche Xi Jinping ha una portaerei moderna e forse ha voluto giocare d’anticipo. È evidente l’ansia di Pechino per l’esito del voto a Taipei. Tsai viene dal Partito progressista democratico (Dpp), che in origine dichiarava aspirazioni indipendentiste. Il Partito-Stato in Cina persegue la riunificazione, offre la formula «un Paese due sistemi» e si dice pronto a combattere in caso di «avventurismi secessionisti».
La presidente Tsai, 63 anni, è una giurista con lauree e master alla Cornell americana e alla London School of Economics: quando nel 2016 è diventata la prima donna al potere in una terra di lingua cinese ha cercato di limitare lo scontro restando ancorata allo status quo, sovranità di fatto rivendicata a bassa voce. Per i 23 milioni di cittadini taiwanesi Tsai è leader della Repubblica di Cina, ma per la stragrande maggioranza della comunità internazionale che non vuole (e non può) dispiacere a Pechino, il nome è solo Taiwan. Qualunque governo, per avere piene relazioni diplomatiche con Pechino, deve prima troncare quelle con Taipei e accettare il principio «una sola Cina»: lo hanno fatto anche gli Stati Uniti ai tempi di Henry Kissinger. La pattuglia di Paesi che hanno un’ambasciata a Taipei si è ristretta a 15, guidata dalla Santa Sede che però sta negoziando con la Grande Cina. L’Onu non riconosce l’isola democratica tra gli Stati; il Comitato olimpico ammette i suoi atleti ai Giochi soltanto sotto la definizione di Chinese Taipei.
Xi Jinping ha aperto il 2019 proclamando che la questione della riunificazione di Taiwan alla madrepatria «non può essere più lasciata alle generazioni future», come fecero Mao Zedong e Deng Xiaoping; ha aggiunto che la riunificazione «è una grande tendenza della storia»; ha lanciato un’ultima offerta: «La proprietà privata, le fedi religiose e i legittimi diritti dei compatrioti taiwanesi saranno preservati» dopo il rientro nella madrepatria secondo la formula «una Cina due sistemi», come per Hong Kong. Ma la sua visione non contempla un rifiuto, non c’è un Piano B diverso dalla «inevitabile riunificazione». Il leader comunista ha concluso il suo discorso di inizio anno: «Non facciamo alcuna promessa di rinunciare all’impiego della forza, manteniamo l’opzione di ricorrere a ogni misura necessaria», di fronte a strappi del movimento indipendentista o intromissioni straniere. Doppio monito: a Tsai Ing-wen e a Donald Trump che ha promesso nuove e massicce forniture militari all’isola.
A Pechino avrebbero voluto alla guida dell’ isola un uomo delKuomintang (Kmt), il vecchio Partito nazionalista di Chiang Kai-shek, autoriformato, che a partire dagli anni Novanta aveva favorito un riavvicinamento commerciale e politico e sottoscritto nel 1992 una «Dichiarazione di Consenso»: in linea di principio esiste una sola Cina. Sconfitto in modo umiliante nel gennaio 2016 (60% di voti a Tsai che quel Consenso rifiuta di riconoscerlo), il Kuomintang ha trovato quest’anno un candidato populista e molto popolare in Han Kuo-yu, 62 anni, che nel 2018 era diventato sindaco di Kaohsiung, seconda città dell’isola, dopo avere spazzato via l’avversario del Partito democratico in carica da vent’anni. Han prometteva un nuovo riavvicinamento a Pechino per sostenere i rapporti economici ormai irreversibilmente stretti :226 miliardi di dollari all’anno di interscambio commerciale con ampio surplus per Taipei, le cui esportazioni vanno per il 40% in Cina.
Ad aprile i sondaggi davano Han al 50% e Tsai al 34%. A giugno tutto è cambiato. A Hong Kong è scoppiata la protesta anticinese. Tsai è stata pronta a sposare la causa dei giovani democratici in maschera nera, a spiegare che «i due sistemi» sono incompatibili. L’effetto Hong Kong ha rilanciato la signora. A ottobre Xi Jinping ha sparato: «Ogni tentativo di dividere la Cina finirà con corpi schiacciati e mucchi d’ossa», riferendosi alla sfida di Hong Kong. Se Xi voleva anche ammonire i taiwanesi e sostenere il candidato del Kuomintang ha sbagliato tattica. Tsai Ing-wen ha risposto su Twitter: «Voglio essere chiara: il tentativo cinese di spingerci ad accettare “un Paese due sistemi” non riuscirà mai». Sotto il messaggio, tre caratteri: Bu ke neng, con la traduzione in inglese: Nota chance .« Non è possibile ».
Ultimo sondaggio sulle intenzioni di voto: Tsai al 54%, Han crollato al 20%. La democrazia taiwanese non vuole abbracciare l’autoritarismo cinese.