Corriere della Sera - La Lettura
Stranieri a casa Il dolore dell’esodo
L’esilio è una tragedia accompagnata da umiliazioni e incomprensioni. Una vicenda a lungo rimossa riguarda gli italiani di Istria, Fiume, Dalmazia. L’Irci ne cura la memoria
L’esodo è un dramma ricorrente nella storia; doloroso, difficile, spesso incompreso e umiliante, esso è pure un motore creativo delle civiltà. Nato da una perdita, da una violenza, da persecuzione, esclusione o miseria, esso diviene spesso il seme di una nuova vita. La distruzione di Troia è terribile, ma senza di essa l’esule Enea non avrebbe creato Roma, il più grande impero del mondo. La storia sacra ebraica nasce da Abramo e Mosè che, con la loro gente, lasciano la terra dove vivono e, prima ancora, nasce dalla cacciata da un Eden dove si è nati.
Gli esempi sono innumerevoli; i secoli ne sono pieni e il Novecento e il Duemila li hanno moltiplicati e li stanno moltiplicando. Fuga dalla persecuzione politica, religiosa o d’altro genere, ma anche dalla fame, da condizioni invivibili. I nostri emigranti di ieri con le valige rattoppate, i migranti africani di oggi in fuga da miserie e infamie senza nome; spostamenti di frontiere e di Paesi interi che rendono alcuni popoli esuli a casa propria, creando spirali di odio e di vendetta.
Un esodo doloroso e a lungo rimosso dalla coscienza nazionale italiana è stato, dopo la Seconda guerra mondiale, quello degli italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia. Un composito mondo italo-slavo segnato dalla civiltà veneta e da quella croata e da quella slovena. L’Italia non capì il dramma della gente arrivata con poche, povere e commoventi masserizie e destinata a vivere per anni in scassati campi profughi o a emigrare ulteriormente in terre lontane quali l’Australia; persone che avevano perso tutto e venivano spesso malviste dai propri connazionali e nuovi concittadini quali concorrenti al tozzo di pane. L’Italia non aveva del resto capito la realtà composita delle nuove terre inglobate dopo la Prima guerra mondiale, terre popolate pure da sloveni, croati, tedeschi. Nei confronti dei suoi nuovi cittadini, soprattutto degli slavi, l’Italia fra le due guerre mondiali fu sorda, discriminatrice e ingiusta — già prima del fascismo, la cui violenza, in quelle terre, si sarebbe scatenata ferocemente soprattutto contro gli slavi. Alla fine della Seconda guerra mondiale Tito e il suo esercito — l’unico a essersi liberato sul campo dall’occupazione nazista — vennero non a liberare, come ancora si scrive in alcuni libri di storia italiani, ma a occupare Trieste e l’Istria — lasciando ancora per una settimana Zagabria in mano ai tedeschi — e a combattere ferocemente non solo e non tanto fascisti e nazisti, ma anche e soprattutto la Resistenza italiana democratica, presentando con gli interessi il conto delle violenze antislave subite in passato, in un clima di odio e di terrore — si pensi alle foibe.
Più tardi, specialmente dopo la rottura della Jugoslavia con il blocco sovietico, quel confine si sarebbe progressivamente trasformato e aperto, in un’atmosfera di incontro e di dialogo, anche fra italiani esuli e italiani rimasti in Jugoslavia; clima che ora rischia di venire avvelenato, per il male di tutti, con le febbri nazionaliste e identitarie di ogni genere.
Alla radice del male c’è spesso l’ignoranza; il dramma degli esuli italiani dall’Istria, da Fiume e da alcune città dalmate è stato a lungo ignorato e rimosso; non solo da parte della sinistra per ignorante settarismo ideologico, ma di tutta l’Italia, che negli anni Cinquanta, e oltre ancora, non era un Paese comunista — non lo erano i governi democristiani o quadripartiti, non lo erano i grandi giornali, la Rai, la maggior parte delle case editrici. Ma a conoscere quella dolorosa realtà erano pressoché soltanto coloro che l’avevano patita e la pativano, memorie e sofferenze che venivano pure coltivate dalle forze politiche di destra per attizzare gli stessi rancori e odi nazionalisti che erano stati all’origine di quella tragedia.
A custodire e a rinnovare con spirito di umanità e di dialogo la verità e la memoria di quella storia dolorosa, rimossa e travisata, vi era certo la letteratura, una ricca, vasta e spesso notevolissima letteratura di confine. Basta pensare alla grande opera di Fulvio Tomizza, soprattutto ma non certo soltanto a due capolavori quali Materada o La miglior vita, o all’opera di scrittori rimasti in Jugoslavia quali ad esempio i notevolissimi Ligio Zanini o Nelida Milani, che hanno contribuito alla sopravvivenza della presenza italiana e delle sue radici in quelle terre.
A combattere l’ignoranza, l’oblio, le falsificazioni e i
rancori e a combatterli con passione, intelligenza, rigorosa documentazione e apertura di mente e di cuore sono stati soprattutto alcuni gruppi culturali e alcune istituzioni. In particolare, un Istituto che dovrebbe essere un modello per istituzioni del genere, l’Irci (Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata), una notevolissima, autentica, obiettiva realtà, un tassello significativo di quella che potrebbe e dovrebbe essere la cultura dell’Italia, la sua conoscenza e coscienza della propria realtà.
Franco Degrassi, che la presiede, è un uomo poliedrico e generoso, la cui formazione culturale e la cui attività spaziano dall’economia all’archivistica alla paleografia, un alto dirigente d’azienda e uno studioso di Storia patria. Dal 2015 è alla testa dell’Irci, che ha svolto e svolge un servizio pubblico di conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-culturale di quelle terre e di ciò che le loro genti hanno dato in vari campi alla civiltà italiana ed europea. Un lavoro che mira a salvaguardare la cultura italiana in quei territori che non fanno più parte dell’Italia; a stimolare i rapporti fra italiani al di qua e al di là della frontiera; a trasmettere la cultura nei suoi necessari e creativi mutamenti, in uno spirito di apertura e di armonia fra nazioni confinanti o viventi gomito a gomito, in una viva memoria delle sofferenze passate ma non rinchiusa nella regressiva ossessione dei torti subiti. Quando e come è nato l’Irci? gli chiedo.
FRANCO DEGRASSI — È nato nel 1987, dodici anni dopo il trattato di Osimo, contestato da chi vi vedeva un cedimento alle posizioni jugoslave e una definitiva rinuncia all’Istria e alle altre terre. La grande funzione dell’Istituto è stata ed è la salvaguardia di una cultura italiana diversa da quella praticata nella madrepatria e ridotta, dopo l’esodo, a una minoranza.
Una storia di lungo periodo, comprensiva di epoche anche antiche e volta a comprendere una memoria comprensiva, capace di rendere conto di come si è sviluppata, si è bloccata e si è ripresa una cultura che ha caratteri originali suoi propri.
CLAUDIO MAGRIS — Non solo dunque una cultura che scompare con la morte degli ultimi testimoni diretti dell’esodo. Le pubblicazioni dell’Irci sono un grande patrimonio storico e storiografico, aperto a singole realtà locali, al loro nesso con le grandi vicende epocali del mondo e alla gamma più varia delle varie creazioni artistiche. Ad esempio, ma non è il solo, la monografia di Piero Delbello su Carlo Wostry (1865-1943), affascinante pittore triestino formatosi tra Vienna, Monaco di Baviera e la Parigi della Belle Époque. L’opera dell’Irci, in uno spirito di fedeltà alla propria civiltà e di aperto dialogo con le altre culture che si sono intrecciate a essa, appare oggi più che mai meritoria, in una stagione che vede divampare odi, febbri identitarie, rancori nazionalisti e chiusure che sfiorano il razzismo.
Come è stata accolto in questi anni e soprattutto al difficile tempo dell’inizio, l’attività, creativa e creatrice, dell’Irci?
FRANCO DEGRASSI — Alle prime notizie della prevista firma del trattato di Osimo, nasce a Trieste un grande movimento di popolo contrario all’accordo che porterà alla nascita della Lista per Trieste, che dominerà la vita politica locale per oltre vent’anni e contribuirà a isolare politicamente la città dal resto d’Italia. La reazione degli istriani (come dei triestini) fu immediata e nella stragrande maggioranza negativa e di netto contrasto; le varie associazione dei profughi si mobilitarono immediatamente per fare conoscere la loro netta opposizione al trattato. Anche molti politici dei partiti al governo scelsero di lasciare il loro partito per aderire alla Lista per Trieste, sorta quale aggregazione di tale malcontento.
La legge con la quale il Parlamento ratifica gli Accordi di Osimo (legge 13 marzo 1977, n. 73) sancisce che «il governo... è delegato a emanare, con uno o più decreti aventi valore di legge ordinaria, le norme necessarie: a) a favorire attività culturali iniziative per la conservazione delle testimonianze connesse con la storia e le tradizioni del gruppo etnico italiano in Jugoslavia…». In ottemperanza a tale dettato, il 18 settembre 1987, ben 12 anni dopo il trattato di Osimo, nasce l’Irci. Nascita travagliata ma salutata con gioia dal mondo dei profughi che vede in essa la creazione di un primo organismo istituzionale destinato alla salvaguardia e conservazione della memoria della propria storia, della propria cultura e delle proprie tradizioni. Travagliata in quanto nasce monca, cioè senza la partecipazione diretta della Regione e senza un fondo di dotazione o un finanziamento ordinario né qualsiasi cespite economico che ne garantisca il funzionamento e la sopravvivenza; siamo nel periodo non facile in cui tutti gli sforzi della Regione sono tesi alla ricostruzione del Friuli del post-terremoto.
L’Istituto tuttavia, grazie al lavoro dei suoi primi amministratori guidati da Arturo Vigini, all’acquisizione delle masserizie dei profughi abbandonate nel porto di Trieste (ora magazzino 18), all’ottenimento da parte del Comune di una sede adeguata (via Torino) trova una sua strada e uno spazio autonomo, realizza una vasta serie
L’esodo è un dramma ricorrente nella storia, ma è pure un motore della civiltà (senza la fuga di Enea da Troia non ci sarebbe Roma)
Gli Asburgo, d’Annunzio, Tito: il borgo sull’Adriatico è stato simbolo delle tragedie del Novecento e laboratorio di opportunità
di iniziative (pubblicazioni, mostre, conferenze, convegni) e punta a creare il Museo della Civiltà istriana, fiumana e dalmata che troverà la sua realizzazione e inaugurazione del 2015. La Regione (o lo Stato) dovrebbe fare ora quello che avrebbe dovuto fare sin dalla nascita dell’ Irci, cioèu nasua modifica giuridico- istituzionalefunzionale che lo renda più adeguato ai compiti che deve svolgere.
CLAUDIO MAGRIS — Come vede oggi, nella mutata e regressiva situazione europea, infettata da aggressivi e ottusi sovranismi, la realtà e la cultura italiana d’oltreconfine, la sua presenza culturale, il dialogo fra genti e culture diverse ma accomunate da un destino di frontiera? Si sono sentiti nuovamente, da parte croata e anche italiana, accenti livorosi, toni nazionalisti. Sembra essere in atto una regressione rispetto al clima culturale di alcuni anni fa, quando ad esempio la consapevolezza di una storia di scontri ma anche di incontri, e dunque comune, induceva il comune di Fiume a celebrare con una cerimonia ufficiale e una targa bilingue nel centro della città l’opera di Marisa Madieri, che da bambina aveva vissuto a fondo il dramma dell’esodo, e, narrando quest’ultimo senza buonismi, aveva scoperto la natura composita della sua famiglia e di lei stessa, «italiana con una marcia in più» che nei suoi libri aveva, come dice la targa, portato alto il nome di Fiume nel mondo? Si stanno facendo passi indietro rispetto a questo sentimento aperto della propria storia?
FRANCO DEGRASSI — Purtroppo la regressiva ondata antieuropea e sovranista che infetta l’Europa e in particolare alcuni Stati a noi prossimi necessariamente porta con sé deleteri effetti negativi nei confronti della minoranza italiana in Slovenia e in Croazia, con un grave regresso nei loro rapporti con le rispettive maggioranze linguistiche, più marcate in particolare in Croazia. Ricordo quali esempi gli sfregi alle targhe degli storici italiani a Capodistria e in altre città istriane ed altre reazioni. Sembrano veramente lontani i tempi del concerto dei tre presidenti in piazza Unità a Trieste e della collocazione a Fiume di quella targa a ricordo dell’opera di Marisa Madieri, anche se non mancano segnali contrari, quali la collaborazione istituzionale croata nella ricerca ed esumazione delle salme di italiani scomparsi nell’immediato dopoguerra. Non mancano e sono in aumento gli episodi di incontro e di buona volontà nei rapporti fra il mondo degli esuli e delle comunità dei rimasti, compresi quelli con pubbliche istituzioni. Si procede un po’ a corrente alternata, senza tuttavia un decisivo progetto che garantisca un effettivo superamento delle incomprensioni e delle riserve mentali derivanti dal retaggio delle gestioni catastrofiche lasciate, in queste terre, dal fascismo nei confronti degli slavi e dalla pulizia etnica e ideologica della Jugoslavia di Tito nei confronti degli italiani. Sembra quasi si abbia paura della ricerca della verità storica dei fatti e restano quindi difficili la loro metabolizzazione e la volontà di affidarli alla storia, facendone tesoro per il futuro e per aprire una nuova fase nei rapporti e nella vita delle popolazioni di queste terre, storicamente plurali.
CLAUDIO MAGRIS — Credo che lo Stato, in questo senso, potrebbe fare di più, anche se non sono mancati provvedimenti a sostegno dei profughi giuliano-dalmati, pure talora tardivi e limitati — qualcuno dei campi profughi allestiti in emergenza negli anni Quaranta e Cinquanta è rimasto sino alla seconda metà degli anni Settanta. L’Istituto dovrebbe essere un ente dotato di ampia autonomia culturale, gestionale, finanziaria (ovviamente sottoposta al controllo pubblico), che consenta la realizzazione di una struttura stabile e articolata, l’estensione della propria attività anche nel medio e lungo periodo.