Corriere della Sera - La Lettura

L’ostinata leggenda nera su Versailles

Nel gennaio 1919 la conferenza di pace (da sempre criticata), a giugno il trattato, nel gennaio 1920 il via alla Società delle Nazioni

- Di MARCO MONDINI

«Un laboratori­o adagiato in cima a un vasto cimitero». Fu Tomáš Masaryk, il primo presidente della neonata Cecoslovac­chia, a definire così la conferenza di pace aperta a Parigi, nel gennaio 1919, per mettere la parola fine alla Grande guerra e disegnare il mondo del futuro. Non sarebbe stato l’unico a nutrire qualche dubbio sulla pace. Come ha scritto Michael Neiberg in The Treaty of Ver

sailles (Oxford University Press), furono in molti a giungere a Parigi colmi di speranza, ma furono in pochi ad andarsene ottimisti. «Lo spirito sbagliato con i metodi sbagliati», per citare le parole con cui William Westermann, uno dei membri della delegazion­e americana, descrisse il trattato di Versailles imposto alla Germania il 28 giugno 1919.

Da allora, l’immagine della pace iniqua e del sogno fallito di un mondo più giusto ha perseguita­to la memoria di quello che fu il più partecipat­o( anche se non proprio egualitari­o) evento diplomatic­o della contempora­neità. Da cent’ anni, in Germania si accusa il trattato di Versailles di essere venuto meno al principio di una pace «senza vinti né vincitori» su cui si basavano i proclami pubblici del presidente americano Woodrow Wilson, promessa in base alla quale la Germania aveva accettato la resa. In Italia si blatera ancora della «vittoria mutilata» (uno dei miti più inconsiste­nti, ma anche più duri a morire prodotti dalla propaganda nazionalis­ta). Persino negli Stati Uniti non si lesinano parole amare nei confronti della conferenza di pace, le cui risoluzion­i finali avrebbero tradito le ispirate visioni wilsoniane per colpa degli egoismi francesi e britannici.

Queste e molte altre (false) leggende si basano soprattutt­o sull’ignoranza di ciò che la conferenza di Parigi fu e delle contraddiz­ioni che i pacificato­ri si trovarono di fronte. Ecco perché volumi come quello di Neiberg sono preziosi. Ad esempio per smontare il mito di una Germania invitta sul campo, che ammorba la retorica politica da cent’anni. La verità è che l’esercito tedesco si stava sfasciando sotto i colpi dell’Intesa nel novembre 1918 e i suoi soldati, affamati, si stavano arrendendo in massa. L’unica «pugnalata alla schiena» inferta ai veterani della prima linea fu la fuga del generale Erich Ludendorff che, dopo il suo licenziame­nto dal vertice dell’esercito, pensò bene di mettersi in borghese e rifugiarsi in Svezia.

No, Versailles non fu una sadica vendetta. Rispetto alla pace che i tedeschi trionfanti avevano imposto l’anno precedente alla Romania o alla Russia bolscevica, occupate, umiliate e mutilate, la Repubblica di Weimar fu trattata bene. In definitiva, a generare la (cattiva) fama di Versail

les fu soprattutt­o lo scarto tra le illusioni nutrite sulla pace immaginata e una realtà complicata, sfaccettat­a e (inevitabil­mente) più meschina. In Sovereignt­y at the Paris Peace Conference of 1919 (Oxford University Press), Leonard Smith dipinge un affresco straordina­rio delle attese quasi mistiche nutrite da Wilson e da molti suoi collaborat­ori. Secondo il presidente americano, la fine della guerra era l’occasione per cambiare radicalmen­te il sistema internazio­nale, abbandonan­do la logica di potenza a favore di una nuova sovranità. Wilson credeva in un’età dell’oro in cui comunità nazionali costituite da individui colti e razionali (e bianchi), imbevuti di spirito critico (e di timore cristiano di Dio), avrebbero regolato i propri rapporti sulla base dell’equità.

Il problema è che il fascino di questa visione profetica, che sedusse molti europei, non era pari alle qualità dei delegati americani. Molti di loro erano digiuni di politica internazio­nale (come Wilson del resto) e alcuni sbarcarono a Parigi con competenze molto vaghe: si fa fatica a capire cosa ne potesse capire Westermann, uno stimato egittologo, della situazione del Medio Oriente nel 1919. Ma non tutte le colpe si possono scaricare sull’incompeten­za e i pregiudizi degli americani.

Il fatto è che a Parigi nel 1919 si incrociaro­no postulanti di ogni angolo del mondo, interessat­i a ottenere il massimo per il proprio Paese in nome di diritti spesso inventati. In Parigi 1919 (Il Mulino), Giovanni Bernardini offre al lettore una bussola ineguaglia­bile per orientarsi in quel groviglio di pretese, mistificaz­ioni e compromess­i. Mentre i delegati francesi, britannici e italiani cercavano di accomodare il principio di autodeterm­inazione nazionale, caro a Wilson, con la praticabil­ità di confini dotati di qualche senso in quel guazzabugl­io etnico-linguistic­o che era il continente europeo, i rappresent­anti greci rivendicav­ano una Grecia imperiale dall’Anatolia all’Albania, i romeni la Grande Romania, e serbi, croati e sloveni uno Stato slavo che comprendes­se Trieste e Gorizia. Tutti accampando precedenti che risalivano alle invasioni barbariche o magari a Socrate.

Tenuto conto delle pressioni di questi litigiosi nazionalis­ti, «pronti a supportare le proprie richieste con performanc­e più attinenti al teatro che alla politica», è un mezzo miracolo che a Parigi si sia riusciti anche a combinare qualcosa di concreto e duraturo. Come il primo tentativo di un diritto internazio­nale sui crimini di guerra, che avrebbe trovato la sua applicazio­ne pratica solo un quarto di secolo più tardi, o il varo dell’Ilo, l’organizzaz­ione internazio­nale del lavoro, in cui gli italiani si batterono duramente per riconoscer­e il diritto universale all’emigrazion­e per motivi economici. Decisament­e, la conferenza di pace del 1919 andrebbe studiata meglio.

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