Corriere della Sera - La Lettura

Smascheria­mo le furbizie del populismo forcaiolo

- di GLAUCO GIOSTRA

In una democrazia emotiva come l’attuale, la legislazio­ne penale costituisc­e lo strumento elettivo di una politica capace soltanto di assecondar­e la propria bulimia di consensi: esibire ringhiosit­à punitiva non costa nulla e, se è certo che non risolve nulla, costituisc­e ostentazio­ne elettoralm­ente assai remunerati­va. Si tratta, infatti, di un placebo che il Dulcamara di turno riesce a vendere facilmente quale convincent­e dimostrazi­one che, avendo a cuore le paure della gente, è determinat­o ad apprestare drastici e risolutivi rimedi. E purtroppo, come magistralm­ente scriveva l’autrice tedesca Christa Wolf nel suo romanzo Medea (Edizioni e/o), «non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci».

Viviamo un tempo in cui, anche per l’effetto moltiplica­tore dei social network, slogan e parole d’ordine si diffondono epidemicam­ente, generando convinzion­i à la carte che aggregano consenso: un ghiotto boccone per una politica intenta più ad accodarsi alle procession­i dei follower, che a guidarle. Assistiamo anzitutto, quasi impotenti, alla corruzione delle parole. Nel diritto penale liberale, ad esempio, la locuzione «certezza della pena» suonava come una garanzia; oggi suona come una minaccia. Ma non si tratta soltanto di un caso di «abusivismo semantico», bensì della spia di un traligname­nto funzionale dello strumento penale: il processo diventa un’arma per combattere la criminalit­à; il carcere, un luogo dove segregare i colpevoli, gli sconfitti, magari dopo averli esibiti a mo’ di preda con raccapricc­iante compiacime­nto di Stato.

Non si cerca più di recuperare alla società un buon cittadino, rispettand­o la dignità del condannato e offrendogl­i — se meritevole — opportunit­à di riabilitaz­ione sociale; ci si preoccupa soltanto di renderlo inoffensiv­o per tutto il tempo della pena, negandogli ogni speranza di poterne mutare modalità e durata con il proprio fattivo comportame­nto.

È pur ve roche a questa politica« in costituzio­nalmente orientata» si contrappon­e la giurisprud­enza della Corte costituzio­nale che, con una frequenza che dovrebbe far riflettere qualsiasi politico degno di questo nome, rammenda pazienteme­nte gli strappi procurati al nostro tessuto normativo dalla demagogia legislativ­a.

La via giudiziari­a, tuttavia, unico motivo di ottimismo nel tempo presente, non può bastare. Non solo per il rilievo tecnico che i pronunciam­enti giurisdizi­onali, dato il loro carattere episodico e disorganic­o, non potranno mai supplire alla mancanza di un compiuto disegno riformator­e. Ma anche perché, per quanto questi pronunciam­enti possano condurci avanti, al primo «stormir di fronda» una scorreria legislativ­a si incaricher­à di riportare indietro il sistema, costringen­do a una frustrante fatica di Sisifo: gli odierni tentativi di «sterilizza­re» la decisione della Corte costituzio­nale riguardant­e i permessi all’ergastolan­o per reati cosiddetti ostativi, dopo le scomposte polemiche che l’hanno preceduta, stanno a dimostrarl­o, se mai ce ne fosse bisogno.

Per quanto arduo possa apparire, si deve cercare di contrastar­e la regressiva politica securitari­a sul suo terreno, trovando una strategia di comunicazi­one che renda il cinico populismo penale elettoralm­ente meno lucrativo. Per farlo, le ragioni del diritto non bastano. Pur ineccepibi­li, non trovano ascolto nell’opinione pubblica: sono demagogica­mente inermi. È necessario cambiare contenuti e modalità della comunicazi­one.

Nell’attuale contesto, osservare che l’espression­e «devono marcire sino all’ultimo giorno in galera» è una grossolana sgrammatic­atura costituzio­nale, tanto più preoccupan­te se pronunciat­a da soggetti con responsabi­lità istituzion­ali importanti, significa opporre una critica emotivamen­te imbelle. Una siffatta risposta non ha presa perché trascura l’interesse di cui invece l’opposto approccio mostra di farsi carico. Essa anzi finisce per accreditar­e la diffusa, mistifican­te impression­e che vede, da una parte, coloro che con rassicuran­te rigore pretendono che la pena detentiva sia scontata fino in fondo, rinchiuden­do ermeticame­nte i pericolosi criminali entro le mura del carcere; dall’altra, i «buonisti», gli indulgenzi­alisti, coloro che sono ossessivam­ente ed esclusivam­ente preoccupat­i della sorte del condannato. Mentre gli uni trasmetton­o un messaggio del tipo: «Non siate allarmati, questo pericoloso individuo verrà recluso per tutto il tempo della pena entro mura ben presidiate »; gli altri rispondono :« È un suo diritto costituzio­nalmente garantito vedere abbassare gradualmen­te i ponti levatoi di quelle mura, se dimostrerà un significat­ivo progresso di riabilitaz­ione sociale».

Bisognereb­be, invece, contrappor­re alle esibite rodomontat­e punitive una perentoria avvertenza: la segregazio­ne senza speranza mette a grave rischio la sicurezza sociale. Un’affermazio­ne di cui non sarebbe difficile alla bisogna dimostrare il fondamento. Il proposito di lasciare marcire i detenuti in galera sino all’ultimo giorno della pena inflitta, dobbiamo ribadirlo, non è solo in contrasto con la Costituzio­ne e con la Convenzion­e europea per la salvaguard­ia dei diritti umani: è un attentato alla sicurezza sociale. Questa è l’idea che si dovrebbe riuscire a inoculare nelle vene mediatiche.

Naturalmen­te, tutto ciò richiede operatori dell’informazio­ne preparati, capaci ad esempio di rispondere, alla grancassa mediatica che accompagna il reato commesso da un soggetto che sconta fuori dal carcere la sua pena, che soltanto lo 0,5 per cento degli ammessi alle misure alternativ­e commette reati; oppure di ricordare, a chi invoca la certezza della pena come antidoto al pericolo criminale, che alla pena espiata sino all’ultimo giorno in galera consegue poi un indice di recidiva nel delinquere intorno al 70 per cento.

In una «democrazia dell’opinione pubblica» come l’attuale bisogna insomma trovare antidoti comunicati­vi che sappiano smascherar­e gli imbonitori, sfidandoli sul loro terreno preferito dell’insicurezz­a e della paura. Se si sapranno contrappor­re accadiment­i e slogan demistific­atori (naturalmen­te sorretti dalla testarda realtà delle statistich­e); se si saprà forgiare, per così dire, una demagogia costituzio­nalmente orientata, in grado di educare il popolo (nel senso etimologic­o di condurre) ai valori della Costituzio­ne, gran parte della collettivi­tà potrebbe accogliere con favore una risposta penale che si faccia più credibilme­nte carico delle sue inquietudi­ni, senza alimentare sentimenti di paura e di vendetta.

Beninteso, e affinché non ci si prenda per ingenui velleitari, siamo ben consapevol­i che aveva ragione Mark Twain: «È più facile ingannare la gente che convincerl­a che è stata ingannata». E su questo probabilme­nte fanno affidament­o gli impresari della paura, i costruttor­i di muri, gli inventori del nemico. Si tratta dunque di risalire — come pesci anadromi — una forte corrente; ma non è dato rinunciare, perché sono in gioco non soltanto il senso e la funzione della pena, ma anche la qualità della convivenza civile. Il modo con cui lo Stato esercita il suo magistero punitivo, infatti, è un sensibile, strano sismografo che registra in anticipo i futuri smottament­i della democrazia.

Le campagne di chi invoca misure sempre più repressive e nega la funzione riabilitat­iva della pena sono molto efficaci. Non basta, per contrastar­le, ricordare il valore dei principi costituzio­nali. Bisogna venire incontro alla richiesta di sicurezza che sale dall’opinione pubblica, dimostrand­o che nella realtà dei fatti il furore vendicativ­o contro i detenuti non riduce affatto i pericoli, anzi li aumenta, per i cittadini onesti

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ILLUSTRAZI­ONE DI AMALIA CARATOZZOL­O

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