Corriere della Sera - La Lettura
L’America si sveglia su una panca
Catherine Lacey nel suo romanzo più recente immagina un protagonista del tutto indefinito sdraiato in una chiesa
Il protagonista di questa strana e inquietante storia è un’umana creatura, non meglio definita, che un giorno, svegliandosi da un sonno profondo, si trova sdraiata sulla panca di una chiesa, in una qualunque cittadina di provincia degli Stati Uniti. Tutto quello che sa di sé è ciò che comunica il corpo in quel momento. E cioè che è allungato su un fianco, con le ginocchia piegate. «Non mi mossi», racconta: «…Era come se avessi dormito per settimane, un sonno profondo, schiacciante, la mente vuota, il corpo rigido su cuscini bassi». Intorno, i fedeli s’interrogano su chi possa essere quello straniero.
Era dai tempi di James Purdy che la narrativa americana non produceva un personaggio resistente alle classificazioni come la voce narrante di quest’ambiziosa opera di Catherine Lacey: per essere precisi, era dal 1959, quando Purdy presentò ai lettori l’innocente e stralunato Malcolm del suo omonimo romanzo semplicemente come «il ragazzo sulla panca». «Panca» — nell’originale, Pew — è il nome che i parrocchiani di A me
puoi dirlo assegnano a quell’essere che nella sua modalità passiva respinge tutte le loro curiosità: dal nome («Allora, come dobbiamo chiamarti, tesoro?»... «Io non volevo che mi chiamassero in nessun modo»), al genere a cui appartiene, alla razza, anche questa incerta. Tutto perché Panca, pur non essendo muto, non parla, rifiuta di spogliarsi e non segnala le proprie preferenze: come se ogni cosa gli fosse perfettamente indifferente. E questa sua neutralità diventa la chiave che apre la cassaforte dei segreti più intimi delle persone che incontra.
Detto ciò, non aspettatevi un’architettura narrativa che risponda alle attese del lettore. A me puoi dirlo, ben tradotto da Teresa Ciuffoletti, è un romanzo che sfugge a quasi tutte regole della narrativa tradizionale.
Al pari del suo protagonista, infatti, rifiuta di dare risposte alle molte domande che solleva: e in questo si addice a una scrittrice spericolata come Catherine Lacey, che malgrado la sua giovane età (34 anni) dimostra per la quarta volta di preferire la creazione di un universo suo — fatto non delle consuete illuminazioni e catarsi, ma di scelte e conseguenze — ai percorsi narrativi più conservatori. Si veda, a proposito, il grande successo di critica del suo romanzo d’esordio, Nessuno scompare davvero
(edito in Italia da Sur, 2016), incentrato su una giovane newyorkese che lascia tutto per andare alla deriva in un remoto angolo della Nuova Zelanda; o Le rispo
ste (Sur, 2018), che al limite della fantascienza si chiedeva se sia possibile costruire artificialmente una relazione amorosa perfetta; o ancora gli impietosi,
Mistero Il lettore s’interroga se la creatura sia una figura astratta o letterariamente al passo con i tempi, come un transgender o un migrante
perturbanti racconti di Certain Ameri
can States (non ancora tradotto). «M’interessa il terreno scivoloso tra sogno e realtà», ha detto Catherine Lacey in un’intervista alla «Paris Review», e «m’interessa la sensazione di essere unita e divisa allo stesso tempo». Ed è proprio da questo focalizzarsi sul tema di un’identità che rifiuta di farsi imbrigliare (di cui si coglie un riflesso nella ricercata reticenza del suo sito catherinelacey.com) che nasce un romanzo ambientato nel buio profondo della coscienza americana, dove i sensi di colpa marinati nell’alcol vengono risolti in riti di purificazione collettiva: come il Festival del Perdono a cui, quando Panca entra in scena, si prepara a partecipare la città divisa che lo accoglie (bianchi benestanti da una parte, neri derelitti dall’altra).
Preso in carico dalla congregazione della chiesa che ha scelto come rifugio, Panca si ritrova temporaneamente adottato da una famiglia di volonterosi; e, nei momenti in cui loro non possono occuparsi di lui, ospitato per qualche ora da questo o quel vicino: ognuno dei quali reagisce al silenzio di quello straniero/ straniera aprendogli una parte del proprio cuore.
E così il lettore fa conoscenza con un’anziana vedova il cui adorabile marito le ha confessato in punto di morte di avere annegato in una vasca un bambino nero indifeso; di uno psicologo autodidatta che si sforza di dare una mano a chi ne ha bisogno; di una fragile madre di famiglia che ha adottato un orfano siriano e del suo ricco marito che gli allunga il whisky per farlo stare buono; di un paio di preti, volonterosi ma poco efficaci o addirittura nefasti; e della cameriera di un ristorante il cui unico figlio, nel tentativo di imitare Gesù, si è spogliato anche del proprio nome ed è andato in povertà nel mondo.
È qui che si trova il centro della poetica di Catherine Lacey. Nel momento in cui Panca confessa: «Non ero né figlio né figlia di nessuno. Che libertà e che condanna era questa, non avere una casa a cui tornare». E il lettore che, dopo 200 pagine, ancora non sa se questa creatura sia una figura astratta o letterariamente al passo con i tempi — come un transgender o un migrante — si accorge che, in fondo, ciò che conta non è la risposta ma la provocazione. Come dice Panca: «Al reverendo, se ce l’avessi fatta a parlare, avrei potuto dire soltanto che ero un essere umano come lui, mi mancavano solo certe cose che lui a quanto pare riteneva indispensabili — un passato, un ricordo del mio passato, un’origine — ma io non avevo niente di tutto ciò, o piuttosto la memoria aveva allentato la presa su di me. Sentivo di non essere un caso isolato, che dovevano essercene stati altri, che facevo parte di un “noi”, solo che non sapevo dove fossero quegli altri. Nessuno di noi era completamente solo, neanche io. Forse ci stavamo tutti cercando senza saperlo».