Corriere della Sera - La Lettura
Dentro di me cresceva il fallimento
Annie Ernaux evoca l’aborto clandestino cui si sottopose a 23 anni, nel 1964. Una feroce presa di coscienza, anche del proprio insuccesso sociale
«Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla. Non ci sono verità inferiori». Non si esce indenni da L’evento di Annie Ernaux, pubblicato per la prima volta nel 2000 in Francia da Gallimard, ora tradotto in italiano da Lorenzo Flabbi che dell’Orma è anche editore. L’evento a cui fa riferimento il titolo è un aborto clandestino nel 1964, nel bagno dello studentato di Rouen, quando l’interruzione di gravidanza in Francia (come in Italia) era ancora illegale e veniva praticata dalle «fabbricanti di angeli», mammane che in squallide stanze d’appartamento risolvevano il problema per 400 franchi.
Tutta l’opera di Ernaux è la trasformazione in scrittura del suo corpo, delle sue sensazioni, dei suoi pensieri, delle sue relazioni. Il posto, L’altra figlia, Una donna, La vergogna, Memoria di ragazza han-
no la stessa affilata capacità di dire il vero a un livello così puro e feroce da rendere una storia personale — tutta la sua storia personale — un’autobiografia collettiva, l’affresco di un’epoca, la vivisezione di un trapasso storico. Un racconto che aderisce completamente a quello della Francia (e dell’Europa). Dire tutto è necessario, non per un ripiegamento solipsistico ma, scrive lei, «perché al di là di tutte le ragioni sociali e psicologiche che posso trovare per quanto ho vissuto, ce n’è una di cui sono sicura più di tutte le altre: le cose mi sono accadute perché potessi rendermene conto».
Ernaux racconta in modo scarno, asciutto e tuttavia emotivo tutto quello che le accadde quando si ritrovò a 23 anni incinta, senza soldi, senza le giuste conoscenze a doversi occupare di una gravidanza non desiderata. Settimane trascorse in cerca di soluzioni, in un tempo in cui tutto sembra sospeso: la biblioteca, le lezioni, la preparazione della tesi il cui tema — la figura della donna nel movimento surrealista — sembra qualcosa di astratto, con quelle figure femminili che appaiono niente più che semplici mediatrici tra l’uomo e il cosmo.
Leggendo il libro succede molto di ciò che la scrittrice immagina («Può darsi che un racconto come questo provochi irritazione, o repulsione, che sia tacciato di cattivo gusto») ma ciò che si percepisce chiara è la nuda necessità di mettere in parole quella che, a distanza di tanti anni, appare un’esperienza umana totale, «della vita e della morte, del tempo, della morale e del divieto, della legge, un’esperienza vissuta dall’inizio alla fine attraverso il corpo». Mettere la scrittura alla prova della realtà è l’imperativo al quale Ernaux non riesce a sottrarsi.
Per anni dice di aver girato attorno a quest’avvenimento, senza riuscire a scriverne. Eppure era una necessità che arrivava ogni volta che lavorava a un altro testo: «Opponevo resistenza, senza potermi impedire di pensarci». Un desiderio terrorizzante: la clandestinità, il fatto che appartenga al passato, non sono motivi sufficienti per lasciarla sepolta, consegnata al silenzio. Ernaux vuole riaddentrarsi in quel buio, in quel dolore che rischia di ucciderla e la ricolloca, lei, figlia di operai e piccoli commercianti scampata alla fabbrica e al bancone, in una miseria di cui la ragazza incinta è, alla stregua dell’alcolizzato, l’emblema: «Mi ero fatta fregare dall’ultimo degli ardori, e ciò che cresceva in me era, in un certo senso, il fallimento sociale».
Un fallimento simboleggiato dal giovane medico che la cura in ospedale dopo che l’intervento clandestino l’ha quasi uccisa. La tratta con disprezzo, non sapendo di avere sotto i ferri «una come lui», cioè una studentessa universitaria e non, come credeva, «un’operaia del tessile o una commessa del Monoprix».