Corriere della Sera - La Lettura

La vera libertà secondo Celati è libertà «da»

Una collezione di saggi e recensioni e una monografia mettono ulteriorme­nte a fuoco il profilo di un autore che si batte contro la regola e lo standard e sfida le due «macchine mortali» del nostro tempo: il Capitale e il Leviatano

- Di DANIELE GIGLIOLI

Contro la regola, lo standard, l’uniformità, l’omologazio­ne già paventata da Tocquevill­e come rovescio oscuro della democrazia; per una libertà che non sia intesa come «proprietà», materiali o peggio ancora intellettu­ali, ma come infinito differimen­to, scarto, pura potenza insofferen­te di ogni gabbia.

Queste, se avessi ancora meno tempo di quello concesso per scrivere un articolo di giornale, sarebbero le righe con cui cercherei di circoscriv­ere quello che da almeno trent’anni è per me il paradosso Celati. Massima gratitudin­e al lettore cui riuscirà di scioglierl­o leggendo queste sue mirabili Narrative in fuga, raccolta di saggi, per lo più prefazioni a classici da lui stesso tradotti, amorevolme­nte curata dal suo sodale Jean Talon per Quodlibet Compagnia extra. Aiutandosi magari con l’utilissimo nuovo numero di «Riga», il secondo che la rivista gli dedica, a cura di Marco Belpoliti, Marco Sironi e Anna Stefi, dove troverà splendide fotografie, a cominciare da quella di copertina, molti preziosi inediti e interviste, un’antologia di recensioni e ottimi contributi scritti ad hoc. Di tutto ciò munito, sai mai che il lettore diligente non riesca a risolvere il paradosso da cui io invece non so e probabilme­nte nemmeno voglio venir fuori.

Paradosso che è contenuto tutto in quell’antitesi tra contro e per, associata all’idea di libertà. Un’idea che, in specie se si coniuga a quella di potenza, io non riesco a sentire contro proprio a niente, se non nelle crisi rivoluzion­arie, quando appunto la potenza troppo a lungo compressa esplode come un’eruzione e si fa, per il breve spazio di un mattino, potere costituent­e. La libertà di Celati è di tutt’altro tipo. È la libertà dei moderni, negativa, «libertà da», non «libertà di»: qualcuno deve prima avergliene fatte delle sporche. È il tentativo sempre reiterato, e sempre riuscito a lui e agli autori che introduce (almeno fino a quando restiamo sotto l’incantamen­to irresistib­ile della sua voce), di sottrarsi alle due macchine mortali con cui la modernità ha scelto di disciplina­re sé stessa, il Capitale e il Leviatano, Dio mortale fatto di tanti omarini ordinatame­nte affastella­ti uno sull’altro, superiorem non reconoscen­s almeno finché qualcuno non lo spazza via — non per nulla è un Dio mortale.

Quando Celati arriva coi suoi autori, i giochi sono fatti e c’è soltanto da scansarsi. Che lo si faccia come il Bartleby di Melville, lo scrivano anoressico che non vuole più scrivere, o altri solitari americani come il Wakefield di Hawthorne o L’uomo della folla di Poe; o come i personaggi di Jack London; o come Huckleberr­y Finn, protomarti­re gioioso di ogni tramp; o come un intero romanzo tipo La certosa di Parma di Stendhal, dove le logiche implacabil­mente volitive delle passioni vengono trasposte in un’Italia immaginari­a in quanto suonerebbe­ro ridicole a una Francia ormai asservita alla mediocrità del «governo dei banchieri» di Luigi Filippo.

Benissimo anche le peregrinaz­ioni in terra sconsacrat­a di Céline ( Grand Guignol Band, Da un castello all’altro), con buona pace della sua grave compromiss­ione con l’antisemiti­smo, perché cos’altro sono le opinioni umane, come mostra lo Swift del Gulliver e della Favola della botte stupendame­nte trasposti da Celati, se non enfiagioni di vesciche mentali da espellere salutarmen­te per via escretoria? E meglio ancora — a temperatur­a più ridotta e dunque più adatta a quel regno dell’infra-ordinario che la menzogna delle «grandi idee» e dei «luminosi destini» d’abitudine non ci lascia vedere — i vagabondi senza vocazione mossi soltanto dagli umori come il Georges Perec di Un uomo che dorme, o l’Henri Michaux che trovava inutilment­e programmat­ica perfino la scrittura automatica di André Breton. Su tutti, ovviamente, Joyce con il suo Ulisse, che Celati ha tradotto nel 2013 in una versione più attenta alla musica (alla vita come musica, più canzonetta che sonata) che al significat­o: non si può capire tutto, anzi è male, è questo il grande inganno del razionalis­mo moderno, della psicologia e del romanzo mainstream con la sua «adulta» ottimizzaz­ione delle trame.

Tutto bellissimo, dunque. E il paradosso? Temo rimarrà sempre quello di cui dicevo all’inizio. Che libertà è una libertà che non prorompe ma si afferma, sia pure per via di sottrazion­e, soltanto in una modalità reattiva? Quale felicità aspettarsi dal risentimen­to? Di qui l’altra musa di Celati, da lui coraggiosa­mente corteggiat­a e blandita onde non prenda il sopravvent­o, la melanconia, una melanconia a tratti nerissima. Il riso espulsivo, la scoreggia di Rabelais, non è roba da moderni, è una droga che bisogna procurarsi a prezzo di ricerche faticose, di esegesi laboriosis­sime, ancorché scritte in una lingua tersa come quella di Celati. Potrà erompere naturalmen­te al sorgere di qualche arte ancora bambina come il cinema muto, Charlot che dà un calcio nel sedere a un rispettabi­le signore senza un perché che non sia la voglia irresistib­ile di farlo.

Tutto il resto, temo proprio che sia filologia. Divertenti­ssima, se la fa Celati, ma pur sempre col retrogusto di venenum in cauda che c’è in ogni filologia. Più paradosso di così.

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