Corriere della Sera - La Lettura

Che atroce delitto furono le piramidi!

Nel 2019 abbiamo ricordato Primo Levi e Marguerite Duras: i lager, l’orrore Ma dimenticat­o l’urlo contro le schiavitù di Tadeusz Borowski, deportato, suicida

- Testi di FRANCO CORDELLI

L’edizione di Se questo è un u o mo che possiedo è del 1963. Dunque, lo lessi a vent’anni; e più tardi lessi La tregua, Il sistema periodico, La chiave a stella, I sommersi e i salvati. Non lessi Se non ora, quando. Poco a poco ero andato, da Primo Levi, allontanan­domi. Quando, a distanza di cinquantas­ei anni, in occasione dello spettacolo di Valter Malosti per il centenario della nascita dello scrittore, l’ho riletto, mi sono chiesto che cos’era successo. Perché lo avevo dimenticat­o e, forse, allontanat­o? La causa, credo, sia nei suoi avidi esegeti, nel loro accademico accaniment­o, nella qualità della loro presenza, invadente, contundent­e — come se alla fine Levi non ci fosse più, fosse sparito, dai suoi interpreti divorato. Ma ho colto il momento, ho ripreso in mano quel suo primo libro, così luminoso, così privo di risentimen­to ma anche di superflua pietà. Come a tanto riuscì un uomo che aveva vissuto quello che aveva vissuto lui? La misura, l’attenzione, un sovrano equilibrio nel guardare ai fatti umani, sono il patrimonio che Levi ci lascia.

Poi, un po’ per caso, un po’ per normale attrazione (vivevo nell’atmosfera del suo racconto) andai a vedere lo spettacolo di Elena Arvigo. La Duras. Il dolore. Ancora i campi. Ancora l’aberrazion­e. Ma, questa volta, tutto visto da fuori, da lontano. Anche Il dolore è un libro senza confronti. Anche Marguerite Duras è la scrittrice che è. Ma può un grande scrittore non suscitare simpatia? Lo si può ammirare ma non condivider­e? Si può leggere il ritratto che Cioran fece di Joseph de Maistre e si otterrà una eloquente, sebbene indiretta, elusiva risposta. Quando si arriva alle pagine, quasi finali, in cui la prima cosa che la moglie, non più sofferente, dice al marito è di amare un altro uomo, se ne resta colpiti. Ancora più quando si comincia a capire che il lirismo trattenuto (forsennato) di Duras, come rivelò la sua biografa Laure Adler, poteva perfino nascondere qualcosa di simile a ciò che i tedeschi avevano inflitto al marito Robert Antelme (per me il grande autore de La specie umana, lo lessi dopo Se questo è un uomo): anche Duras fu razzista (nei confronti degli algerini, siamo nel 1940) e forse torturatri­ce (d’un collaborat­ore della Gestapo da lei attratto nella sua rete).

Ma l’autore che voglio ricordare, a prescinder­e dal teatro, è un polacco nato in Ucraina, Tadeusz Borowski. Anche di lui mi ero dimenticat­o, sebbene in modo diverso che nel caso di Levi. Me ne ero dimenticat­o dal 1981, quando avevo letto Paesaggio dopo la battaglia, perché di Borowski, almeno in Italia, tutti sembrano essersi dimenticat­i. Il suo nome non l’avevo più sentito.

Ma tra Levi e Duras di colpo mi è tornato alla mente: Borowski è uno dei più dolenti testimoni sopravviss­uti ai campi di concentram­ento, e uno dei non pochi che dopo un tempo più o meno lungo (per lui dopo tre anni, nei 28 totali) si siano suicidati. Ho ripreso in mano Paesaggio dopo la battaglia. Aveva cominciato a pubblicarl­o — una collazione di racconti-episodi da lui vissuti — con il titolo Addio a Maria. È un libro terribile in modo speciale. Perché? Borowski racconta tutto con un lieve ghigno sulle labbra, una smorfia, con il più puro cinismo in cui ci si possa imbattere, con il sarcasmo più amaro che abbia incontrato: sarcasmo non nei confronti dei carnefici ma delle vittime, sarcasmo cioè nei confronti della condizione umana. Non ve ne è però nella pagina che voglio ricordare qui di seguito: la sua chiarezza, la sua analisi, la sua lucidità, del sarcasmo di Borowski dicono tutto ciò che si vuole sapere e capire.

Ecco qui. «Uno solo è il luogo per vivere: un pezzetto di giaciglio, il resto appartiene al campo, allo Stato. Ma né questo pezzettino di posto, né la camicia, né la pala è tua. Ti ammali, e ti portano via tutto: il vestito, il berretto, la sciarpa avuta di frodo, il fazzoletto da naso. Quando muori ti strappano i denti d’oro, in precedenza già registrati nei libri contabili del campo. Ti bruciano e con la tua cenere ci concimano i campi o ci bonificano gli stagni. È vero che sprecano tanto di quel grasso, tante ossa, tanta carne, tanto calore! Ma altrove con la gente ci fanno sapone, con la pelle umana abat-jour, con le ossa bigiotteri­a. Chissà, forse da esportare ai negri quando li assoggette­ranno. Lavoriamo sottoterra e in superficie, sotto un tetto e alla pioggia, con la pala, con il vagoncino, con i picconi e con la mazza di ferro. Portiamo sacchi di cemento, posiamo mattoni e binari ferroviari, recintiamo il terreno, battiamo la terra… Gettiamo le fondamenta di una qualche nuova, mostruosa civiltà. Solo ora conosco il prezzo dell’antichità. Quale mostruoso delitto sono le piramidi egiziane, i templi e le statue greche! Quanto sangue dovette scorrere sulle strade romane, sui valli di frontiera e nei cantieri delle città! Quell’antichità che era un gigantesco campo di concentram­ento, dove allo schiavo veniva impresso a fuoco il marchio di proprietà sulla fronte e lo crocifigge­vano per una fuga. Quell’antichità che era una grande congiura dei liberi contro gli schiavi!

«Ricordi, quanto amavo Platone. Oggi so che mentiva. Perché nelle cose terrene non si riflette l’ideale, ma vi risiede il pesante, sanguinoso lavoro dell’uomo. Eravamo noi a costruire le piramidi, noi ad estrarre il marmo per i templi e le pietre per le strade imperiali, eravamo noi a remare nelle galere e a tirare gli aratri, mentre loro scrivevano dialoghi e drammi, giustifica­vano con le patrie i propri intrighi, lottavano per i confini e le democrazie. Noi eravamo sporchi e morivamo sul serio. Loro erano estetici e discutevan­o per finta.

«Non è bellezza quella che poggia su un torto verso l’uomo. Non è verità quella che sottaccia un tale torto. Non è bene quello che lo permetta. Che cosa ne sa mai l’antichità di noi? Conosce un astuto schiavo da Terenzio e da Plauto, conosce dei tribuni del popolo, i Gracchi, e il nome proprio di uno schiavo solamente: Spartaco. Loro facevano la storia e un criminale qualunque — Scipione —, un avvocato qualunque — Cicerone o Demostene —, li ricordiamo alla perfezione. Rimaniamo incantati dall’eccidio degli Etruschi, dallo sterminio di Cartagine, dai tradimenti, dagli stratagemm­i e dai saccheggi. Il diritto romano! Anche oggi c’è un diritto!

«Che ne saprà il mondo di noi, se trionfasse­ro i tedeschi? Sorgeranno gigantesch­i edifici, autostrade, fabbriche, monumenti alti fino al cielo. Sotto ogni mattone ci saranno le nostre mani, sulle nostre spalle verranno portate le traversine ferroviari­e e i lastroni di cemento armato. Ci assassiner­anno le famiglie, i malati, i vecchi. I bambini. E nessuno saprà di noi. Copriranno le nostre grida i poeti, gli avvocati, i filosofi, i preti. Creeranno il bello, il bene e la verità. Creeranno una religione».

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