Corriere della Sera - La Lettura
Il jazz si fa con tante storie
Quaranta vite (strampalate) ricostruiscono in un mosaico l’epopea di un genere
Jazz e scrittura. Jazz e letteratura. Parola e improvvisazione. La storia nota: intorno agli anni Cinquanta, diversi scrittori hanno attinto a quella fonte di acqua fresca che è stato il linguaggio musicale afroamericano, per lanciare qualcosa che in quel momento rappresentasse un vento nuovo e potesse portare alla luce una scrittura altrettanto interessante come la era musica che volevano «imitare». Era il gruppo della Beat generation, in prima linea Jack Kerouac, la cui scrittura che nasceva dall’improvvisazione jazzistica fu definita spontaneous bop prosody.
A quelle forme c’è chi fa risalire anche le orgini del rap. Altra storia nota: quella degli autori afroamericani che hanno attinto al jazz, Langston Hughes, Leroi Jones, Ralph Ellison... Poi ci sono quelli che, amando il jazz, lo hanno inserito nei racconti e romanzi. Per fare risuonare (e swingare) le pagine. Tanti gli esempi ma basti citare anche solo il «quasi Premio Nobel» Murakami Haruki, che dice che «il romanzo è come il jazz: improvvisazione, ritmo e melodia».
Il giornalista e scrittore italiano Aldo Gianolio il jazz lo utilizza in una maniera diversa ancora. Non lo impiega da sottofondo, non prova a imitarne il suono, non lo ricalca onomatopeicamente, ma lo mette (spesso con arguzia e ironia) al centro di una storia. Anzi, ci racconta una parte della storia del jazz attraverso una fiction, ma con musicisti veri, realmente esistiti.
Nel suo Il trombonista innamorato e altre storie di jazz (Robin edizioni) allinea 40 storie di musicisti jazz (parte di questo testo è uscito in una delle sue pubblicazioni precedenti). Il protagonista, voce narrante, è John Ferro, critico musicale («non sapeva nemmeno leggere la musica, però le sue acute analisi finivano per aprire la via a nuove prospettive estetiche»), che aveva tanta forza nello scrivere ma altrettanta debolezza nel parlare e viene invitato, attesissimo, a fare un importante intervento a un congresso internazionale sul jazz. Nei due paragrafi successivi segue il racconto della sua grottesca performance introduttiva, alla quale seguono poi quaranta brevi racconti, ognuno su un grande jazzista, appartenuto tanto agli albori (Jelly Roll Morton) quanto alla modernità (Charles Mingus, Sun Ra), tralasciando la contemporaneità. È un modo originale, questo di Gianolio, di raccontare il jazz attraverso storie e particolari di coloro che hanno fatto grande la musica afroamericana (in una parata di nomi così importanti, si sente la mancanza di Ornette Coleman).
Per ognuno di loro, un tic, un vezzo, un vizio. Le pagine a Miles Davis sono intitolate Ubriachezza delirante, dove lo stato alcolico alterato non è di Miles, ma di Tony Scott che quando è ubriaco sparla degli Stati Uniti e di Davis, ma facendolo ci racconta anche una piccola parte di storia del jazz (vera) che gli viene messa in bocca da Gianolio. Per Thelonious Monk, il titolo è invece Tecnica, zero. «Nonostante — sentenzia John Ferro — la sua tecnica pianistica ridicola è da considerarsi a pieno diritto fra i grandi della storia di questa musica». C’è l’ironia della scrittura di scuola emiliana (Gianni Celati, Ugo Cornia, Daniele Benati, Paolo Nori): «Monk sapeva suonare un tanto al braccio e forse non ha mai capito che cavolo di strumento fosse, perché pigiava i tasti come nessuno prima aveva osato fare». E ai musicisti che stavano al suo gioco rozzo non fregava nulla di come suonava, «drogati come erano».