Corriere della Sera - La Lettura

Giovani, la libertà costa Lottiamo per un altro Iran

- Di FEDERICA LAVARINI

Avvocato, 72 anni, prima donna magistrato nel suo Paese, prima donna musulmana a ricevere il Nobel (per la Pace, nel 2003), vive esule a Londra. «Il regime instaurato nel 1979 è criminale e un giorno verrà processato presso il tribunale internazio­nale. Quello stesso Rouhani che avete accolto nel 2016 — ricordate le statue coperte? — ora è responsabi­le dei morti in strada»

Era il 2003 quando Shirin Ebadi, a Stoccolma per ritirare il Premio Nobel per la Pace, durante il suo discorso affermava: «Negli ultimi anni, il popolo iraniano sta prendendo coscienza del proprio diritto ad avere un ruolo negli affari pubblici e, quindi, poter decidere del proprio destino. Questo si può osservare anche in altri Paesi musulmani. Tuttavia, con il pretesto che la democrazia e i diritti umani non sarebbero compatibil­i con gli insegnamen­ti dell’islam e la struttura tradiziona­le della società islamica, alcuni musulmani giustifica­no il dispotismo di molti governi degli Stati islamici. Infatti, non è così facile governare, con metodi patriarcal­i e paternalis­tici, popolazion­i consapevol­i dei propri diritti».

Ancora oggi, sedici anni dopo queste affermazio­ni, Shirin Ebadi, 72 anni, avvocato, prima donna giudice in Iran e prima donna musulmana a ricevere il Nobel, nelle sue apparizion­i pubbliche è capace di trasmetter­e una vibrazione inquieta a noi che viviamo nelle democrazie occidental­i e, con la sua raffinata dote oratoria, fare percepire come democrazia e libertà non siano affatto diritti acquisiti una volta per sempre.

Shirin Ebadi ha difeso molte donne e molti uomini che in Iran hanno lottato per i diritti umani. Dal 2009 vive in esilio, a Londra. L’abbiamo incontrata all’università di Verona, invitata per una conferenza.

L’Occidente è rimasto scioccato dal caso di Nasrin Sotoudeh, l’avvocata iraniana condannata nella scorsa primavera a 148 frustate e 38 anni di carcere per avere lottato a favore dei diritti umani.

«Purtroppo non c’è soltanto il caso di Nasrin: in questo momento sono detenute in Iran più di cento donne per il solo fatto di avere difeso i diritti umani. Nel 2009, il Parlamento italiano ha insignito del premio Alexander Langer una di loro, Narges Mohammadi. Sono anni che lei è in carcere: prima ha scontato sei anni, poi è stata rilasciata e poi di nuovo condannata ad altri 16 anni. È molto malata e non le viene riconosciu­to il diritto di essere curata. È madre di due gemelle e suo marito, durante il regime attuale, è stato in carcere 14 anni. Nell’Organizzaz­ione non governativ­a di cui facevo parte in Iran, Narges era una mia collega: non è un’avvocata, ma un ingegnere attivista per i diritti umani. Io chiedo al Parlamento italiano, che ha premiato Narges, di fare pressione sul governo iraniano per permettere a questa donna di andare in ospedale ed essere curata».

Il popolo iraniano da anni lotta per la libertà: lo abbiamo potuto vedere clamorosam­ente nelle settimane scorse e ancora nei giorni scorsi. Perché non riesce a conquistar­la?

«Perché le reazioni del governo sono molto violente e il popolo non vuole armarsi, altrimenti diventereb­be una guerra civile tra fratelli. Inoltre, dobbiamo tenere presente che molti governi internazio­nali sostengono questo regime. Ricorda te , vo i i t a l i a ni , q u a ndo, ne l 2 0 1 6 ,

Rouhani è venuto in Italia? Ricordate come avete ricoperto le statue, quattro anni fa, per non mancargli di rispetto? Quello stesso presidente, ora, è responsabi­le dei morti provocati dalle violente repression­i delle proteste in strada».

Come giudica il ruolo e la politica delle Nazioni Unite in Iran e nel complesso del Medio Oriente?

«Non hanno grandi poteri: non possono e non devono entrare nel Paese. È il Consiglio di Sicurezza che prende le decisioni importanti e ci sono cinque Paesi che possono mettere il veto. Dunque...».

Che cosa vogliono dirci i popoli che, dal 2011, sono scesi a protestare nelle piazze delle città più importanti del Medio Oriente e del Nord Africa nell’ambito di quella stagione che è stata (troppo presto) entusiasti­camente definita delle «primavere arabe»?

«Ognuno di questi Paesi è diverso dall’altro, ma tutti questi popoli stanno lottando per ottenere libertà, democrazia e giustizia. La comunità internazio­nale, invece di sostenere i governi dittatoria­li a capo di questi Paesi, dovrebbe stare dalla parte dei popoli e difendere le istanze dei cittadini. Sono popoli che vogliono affermare i propri diritti, raccontare l’esistenza di una società civile che i regimi cercano di sopprimere. Nel racconto dei media è necessario separare quello che viene raccontato del regime iraniano da quello che è il popolo iraniano. Il regime iraniano è criminale e, un giorno, verrà processato presso il tribunale internazio­nale».

Qual è il ruolo degli studenti nelle proteste?

«È fondamenta­le. Gli studenti iraniani sono molto attivi politicame­nte, sono consapevol­i della situazione e conoscono bene il governo al potere. Purtroppo, molti di loro sono stati arrestati durante le recenti manifestaz­ioni. La polizia voleva entrare all’università, ma gli studenti l’hanno bloccata. Il regime li ha però ingannati: i poliziotti si sono nascosti in due ambulanze e sono entrati nell’università dicendo che c ’erano dei feriti. Quando le ambulanze sono entrate, la polizia è scesa, ha arrestato i ragazzi, li ha caricati sull’ambulanza e li portati via. Di loro non si hanno più notizie».

Quali sono state le conseguenz­e dei re c e nt i oscurament­i di i nte r net i n Iran?

«La situazione è peggiorata, soprattutt­o per gli attivisti. Il procurator­e dice che sono state arrestate mille persone, ma probabilme­nte sono molte di più: sono tutti giovani che vogliono libertà e democrazia, che manifestan­o in strada perché non vedono nessun futuro per loro stessi e il loro Paese».

Vorrebbero rimanere in Iran...

«Certo, tutti dovrebbero poter vivere nel proprio Paese. Tra il popolo iraniano e il regime c’è un abisso di distanza. Ci sono cinquemila anni di cultura iraniana. Sessant’anni fa, le donne iraniane hanno ottenuto il diritto di voto e poi sono state elette al Parlamento ancora prima delle donne svizzere. Il 50% dei nostri studenti sono ragazze. La maggior parte dei docenti universita­ri sono donne. Noi abbiamo poeti, scrittori, intellettu­ali molto bravi. La cultura della nostra società è molto alta. Purtroppo, nel 1979 c’è stata una rivoluzion­e e il regime di adesso è arrivato al potere. La cultura che il regime iraniano cerca di imporre ai cittadini iraniani non è quella del popolo iraniano ».

Che relazione c’è, in Iran, tra la legge che viene applicata nelle aule di giustizia e la religione professata?

«C’è una grande differenza tra la legge musulmana, il Corano, e la legge applicata nei tribunali, soggetta alle diverse interpreta­zioni dell’islam. L’interpreta­zione che dà il regime iraniano è molto arretrata, molto obsoleta: secondo le leggi iraniane — per esempio — il “valore” della vita della donna è la metà di quella di un uomo».

A che cosa ha dovuto rinunciare in questi anni e perché sta portando avanti tutto questo?

«Ero un avvocato, sono stata la prima donna magistrato del mio Paese. Ho dovuto rinunciare al mio lavoro, tutti i miei averi sono stati confiscati, la mia casa; ho dovuto lasciare le Ong che ho fondato in Iran e, dal 2009, non sono più potuta tornare nella mia patria e nella città in cui amavo vivere, Teheran. Dieci mesi all’anno sono in viaggio perché la voce del popolo iraniano, che non esce dal Paese a causa della censura, possa arrivare in tutto il mondo».

Dov’è la sua famiglia?

«Quella di origine è in Iran. Io ho due figlie che vivono fuori dal Paese. Con mio marito, dal momento che io non potevo tornare in Iran e lui non voleva venire a vivere all’estero, abbiamo deciso un divorzio consensual­e. Questo lo racconto nel libro Finché non saremo liberi, pubblicato in Italia da Bompiani nel 2016».

Come si sente rispetto ai popoli che lottano per la libertà?

«Hanno scelto questa lotta e sanno che niente si ottiene gratuitame­nte».

Lei ripete ai giovani: «Dovete lottare per seguire i valori in cui credete».

«Ogni cosa ha un prezzo. La libertà, la democrazia, la giustizia hanno un prezzo che ogni popolo deve pagare. Se un popolo non sarà pronto a pagare questo prezzo, non avrà mai questi diritti. Anche in Occidente, le generazion­i passate hanno fatto sacrifici che hanno permesso ai giovani di oggi di stare seduti tranquilli in un’aula ad ascoltarmi. Così, noi stiamo lottando perché, un giorno, i nostri figli possano godere di diritti come quello di ascoltare, sicuri, qualcuno che sta parlando in un’aula universita­ria».

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