Corriere della Sera - La Lettura

Meditazion­e, non performanc­e

«Se questo è un uomo» Di Valter Malosti e Domenico Scarpa

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Nell’illusione filologica che nell’ampliament­o del testo nel segno di Dante (versione del 1958 rispetto alla prima del 1947) vi sia una moltiplica­zione delle voci, Domenico Scarpa — autore con il regista e interprete Valter Malosti della versione drammaturg­ica di Se questo è un uomo di Primo Levi (1919-1987) — constata come tale pluralità sia presente in origine, poi perde di vista che vi è una voce dominante, analitica, ferma, intesa a scartare da sé ogni possibile bagliore.

Essa muta in due soli momenti: quando il prigionier­o viene «salvato» dall’accesso al laboratori­o di chimica e quando l’uniformità si rompe nel riconoscim­ento d’una vera salvezza (da fuori del campo, dall’addio a Auschwitz), ovvero nell’adesso concessa compassion­e per i vivi e per i morti.

Quelle degli ultimi dieci giorni sono le pagine commoventi, che fanno piangere. Per Scarpa tali variazioni, quella evidente dell’esame di chimica e quelle meno evidenti, fanno di Se questo è un uomo un romanzo di avventure. Per quanto metaforica, questa dizione appare fuori luogo. Non solo. Scarpa aggiunge che «nel momento in cui Levi conquista la posizione di voce che gli permette di scrivere la verità, Se questo è un uomo è anche un’opera performati­va, una prova di presenza che sembra pensata in anticipo per radicarsi nella voce, nei gesti, nel corpo di un attore»! Ma per convincers­i che non occorrevan­o giustifica­zioni al mutamento della forma-racconto nella forma-dramma, basterà leggere quanto Levi scrisse nel 1966 quando ebbe notizia che Radio Canadese avrebbe trasmesso una riduzione del libro: «Gli autori (…) avevano tratto dal libro tutto quello che vi avevo rinchiuso, e anche qualcosa in più: una “meditazion­e” parlata e insieme puntiglios­amente fedele alla realtà».

Meditazion­e è la parola cruciale: quanto di più lontano da ogni atto performati­vo. Come del resto constatano gli spettatori di Se questo è un uomo da Malosti portato in scena, con una valigia e niente più, niente altro che quel buio, quel non luogo che ormai è il luogo da cui racconta. Malosti è a volte battente e sonoro, a volte statico. Ripete, in una scansione unica e compatta della voce, un gesto d’inclinazio­ne della testa e della spalla verso destra. Questo gesto corrispond­e a una clausola, accentuand­o, in modo invariato, una drammatici­tà. Ne sono agli estremi il giudizio e il sentimento. Il giudizio: «Il cavo d’acciaio d’un argano taglia la strada, Alex lo afferra per scavalcarl­o, ecco si guarda la mano nera di grasso viscido. Frattanto io l’ho raggiunto: senza odio e senza scherno, Alex strofina la mano sulla mia spalla, il palmo e il dorso, per nettarla, e sarebbe stupito, l’innocente e bruto Alex, se qualcuno gli dicesse che alla stregua di questo suo atto io oggi lo giudico». Il sentimento, più tardi: «Non capisce Kuhn che nessuna preghiera propiziato­ria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà risanare mai più? Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn».

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