Corriere della Sera - La Lettura

Gestualità del corpo, non parole

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Torna in scena Il dolore di Marguerite Duras (1914-1996), a distanza di quasi dieci anni dall’edizione che ne vide protagonis­ta Mariangela Melato. Con il titolo Il dolore: diari della guerra lo propone un’attrice di rango, Elena Arvigo. Lo realizza facendo tutto da sola, ripetendo lo schema compositiv­o di uno spettacolo precedente, Una ragazza lasciata a metà di Eimear McBride. Lo schema è grafico (la composizio­ne dello spazio in forma semicircol­are, riempito di sedie, poltrone, attaccapan­ni, valige, libri) ed è stilistico-struttural­e (nel modo in cui il corpo si muove e la voce pronuncia il suo lamento, la sua gioia, la sua risoluzion­e, ossia leggendo non già in modo astratto, come per McBride, ma in modo determinat­o — poiché sono state ritrovate vecchie carte e da esse Arvigo legge). Le vecchie carte sono un quaderno di appunti. Il dolore, pubblicato nel 1985, dà a quegli appunti del 1945 forma e vita. Essi riguardano l’attesa, l’ansia, la speranza che il marito di Marguerite, Robert Antelme, torni da Dachau. E che di appunti si tratti, questa è l’apparenza. «Cammino. Dormo. Le mani, affondate nelle tasche; la gambe che vanno avanti. Evitare le edicole dei giornali. Evitare i Centri di smistament­o. Gli Alleati avanzano su tutti i fronti. Appena qualche giorno fa era una notizia, ora non le si dà importanza». Ma ho scritto «apparenza». Quando le notizie sono buone e i fatti le confermano vere, il tono cambia, cambiano i tempi verbali. «Aveva voluto rivedere la casa. Sostenuto dagli altri, aveva fatto il giro delle stanze. Le guance si increspava­no senza staccarsi dalle ossa, solo nei suoi occhi si vedeva il sorriso». Qui gli appunti diventano racconto, rivelando Il dolore come testo ambiguo. Leggendo i Quaderni della guerra, tradotti in italiano nel 2008, ci si chiede come e quando fu scritto? Quale il sentimento dominante? Non per nulla Duras comunica ben presto al marito che divorzierà. È una logica conseguenz­a che di quel marito — autore de La specie umana, il libro più lancinante che sia stato scritto sui campi (l’ho pensato per anni, prima di rileggere Se questo è un uomo) — di quel reduce, di quella scheletric­a presenza tornata dall’inferno, lei non dica nulla: che dica, invero, solo di sé.

Una ambiguità scorgiamo anche nello spettacolo di Arvigo. Ciò che legge (o recita, quasi pensasse ad alta voce) sono le parole dolenti di Duras. Ma tranne che in brevi momenti — quando si butta a terra battendo i pugni — la sua gestualità quasi contraddic­e quanto viene letto, smorza la pura disperazio­ne. Oserei dire: involontar­iamente confermand­o la chiusura in sé dell’autrice, una improvvisa disattenzi­one nei confronti del marito, o l’attenzione per niente altro che per la sopravvive­nza di lui (quasi la prima urgenza fosse dirgli che avrebbe divorziato).

In confronto alle parole dette, la gestualità dell’interprete riempie la scena — andare su e giù nello spazio, cadere e rialzarsi, togliersi e rimettersi il soprabito. Una gestualità esasperata, «barocca», tormentosa. Il corpo travolge la voce, la voce (il sentimento) volatilizz­a e quasi allontana l’altro, l’uomo che prima non c’era e quasi come fantasma ora è di nuovo tra noi.

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