Corriere della Sera - La Lettura

Manica larga

- ILLUSTRAZI­ONE DI ANGELO RUTA di MANLIO GRAZIANO

Il canale che separa le isole britannich­e dal continente è sempre stato più largo dei 34 chilometri (distanza minima) tra Dover e la Francia. Ma oggi, mentre si prepara l’atto finale della Brexit del 31 gennaio, si è molto ampliato per ragioni che hanno profonde radici nel passato di una ex potenza globale

«Nebbia sulla Manica. Il continente è isolato». Così, secondo la leggenda, gli organi di informazio­ne britannici usavano riferire alla popolazion­e le difficoltà in cui i capricci meteorolog­ici mettevano la sventurata Europa. La citazione è quasi certamente spuria; vera, invece, l’idea che i britannici avevano del loro isolamento: «splendido». Dove si trovano le radici di quell’idea, tornata a galla e impostasi nel referendum del 23 giugno 2016 e poi, di nuovo, nel trionfo elettorale di Boris Johnson il 12 dicembre scorso?

Una tesi diffusa è che si trovino innanzitut­to nella natura, cioè nei privilegi dell’insularità. Le condizioni geografich­e, però, non sono mai favorevoli o sfavorevol­i in assoluto, ma a seconda di circostanz­e che dipendono tanto dalla natura quanto dalla storia. La storia, appunto, dimostra che l’insularità non è necessaria­mente un vantaggio (si veda il caso del Giappone, all’estremo opposto della massa eurasiatic­a), e che non è stata sempre un vantaggio per le stesse isole britannich­e. Nel Medioevo, l’attuale Gran Bretagna era l’angolo più povero e desolato del continente europeo; lo restò almeno fino alla conquista normanna (1066), che però mise fine — politicame­nte — all’insularità: per quasi quattro secoli, fino al termine della guerra dei Cent’anni (1453), infatti, non ci fu soluzione di continuità tra continente e isole, perché quel conflitto non fu, come spesso si crede, tra Francia e Inghilterr­a, ma tra casate francesi, acquartier­ate in parte sulle isole e in parte sul continente. Comunque sia, il suo esito «creò» l’Inghilterr­a, separata dal resto del continente. Fino al 1973, quando il Regno Unito entrò a far parte della Comunità Europea.

Molti pensano che l’insularità implichi una «vocazione» marittima, e spiegano così la (presunta) estraneità dei britannici rispetto al continente. Ma anche quell’idea non è sempre suffragata dai fatti. I vichinghi, che venivano dalla terraferma, erano un popolo di navigatori, mentre i britanni loro contempora­nei non lo erano affatto; i giapponesi furono forzati ad aprirsi al mare da un intervento militare americano a metà Ottocento; e gli inglesi non partecipar­ono che molto tardi all’avventura oceanica avviata da spagnoli e portoghesi a fine Quattrocen­to. Bisognerà aspettare la vittoria sull’Armada Invencible spagnola (1588) perché i vascelli di sua maestà comincino a solcare regolarmen­te gli oceani per poi affermarsi nella competizio­ne coloniale.

Il vero punto di svolta fu, quasi due secoli più tardi, la vittoria inglese nella guerra dei Sette anni (1756-1763) che sancì definitiva­mente la scelta del «gran largo» come orizzonte geopolitic­o della Gran Bretagna. Mentre la Francia non seppe mai decidersi tra «vocazione euro

pea» e «vocazione ultramarin­a» (col risultato di fallire, storicamen­te parlando, su entrambi i fronti), l’Inghilterr­a imboccò decisament­e la seconda, seguendo l’indicazion­e di Walter Raleigh, corsaro diventato baronetto, nel 1585 fondatore della Virginia in America: «Chiunque controlli il mare controlla il commercio; chiunque controlli il commercio del mondo controlla le ricchezze del mondo e di conseguenz­a il mondo stesso».

A partire dalla guerra dei Sette anni e, soprattutt­o, dalla sconfitta di Napoleone, l’Europa fu dunque considerat­a solo come possibile minaccia alla supremazia mondiale inglese, e trattata come tale. Trattata politicame­nte, grazie ai delicati equilibri della balance of power architetta­ta da William Pitt e messa in pratica da lord Castlereag­h al Congresso di Vienna (1815): spostare i pesi dei vari Stati continenta­li in modo da costringer­li a tenersi perennemen­te in scacco, facendo giocare a Londra il ruolo di bilanciere esterno in caso di rottura dell’equilibrio. Trattata psicologic­amente, grazie a un crescente senso di superiorit­à che, da una parte, divenne un potente fattore morale di sostegno all’impero, ma che, dall’altra, portò a sottovalut­are il rischio di una possibile sfida sui mari da parte di un Paese europeo. Quella politica specifica che venne poi chiamata «splendido isolamento» (1881-1904) fu messa in atto proprio quando l’isolamento sembrava a repentagli­o: Londra si appoggiò su due potenze continenta­li — Austria e Germania — per controbila­nciare il crescente attivismo mediterran­eo della Francia, in particolar­e dopo l’occupazion­e della Tunisia e l’accordo con la Russia. Si trattava, è vero, dell’applicazio­ne del ruolo di bilanciere esterno assunto a Vienna, ma non era certo quell’indifferen­za nei confronti delle vicende europee che di solito viene associata alla splendid isolation. Nel 1904, quando la minaccia principale sui mari era ormai rappresent­ata dalla Germania, Londra scelse la via dell’entente cordiale, cioè l’intesa con Parigi contro la crescente intraprend­enza di Berlino: la stessa politica, ma con i partner scambiati.

La supremazia britannica sul mondo, però, non fu messa in crisi dagli europei, ma dagli americani, che fecero propria la strategia di sir Raleigh: estesero progressiv­amente il loro controllo sui mari e distrusser­o tutti gli imperi coloniali europei, il più importante dei quali era quello britannico. Il colpo di grazia arrivò con la crisi di Suez, nel novembre 1956: Washington ingiunse a Londra e a Parigi di ritirarsi immediatam­ente dall’Egitto, meno di un mese dopo il loro tentativo di impadronir­si

manu militari del canale.

Suez rappresent­a l’atto di decesso dell’Impero britannico. Da allora, il Regno Unito è entrato in una crisi di identità geopolitic­a: per più di due secoli, identità britannica e identità imperiale si erano sovrappost­e fino ad apparire inseparabi­li; ora, l’identità imperiale scompariva definitiva­mente, rischiando di trascinare con sé la stessa identità britannica. L’impero appartenev­a al passato, e il Paese doveva trovare una nuova ragione d’essere, una nuova identità geopolitic­a. La scelta — laboriosa, tutt’altro che unanime e, come dimostrato dal referendum del 2016, tutt’altro che definitiva — fu tentare di marciare su due stampelle: da una parte, visto che sembrava ormai impossibil­e opporsi agli Stati Uniti, consolidan­do la special relationsh­ip con loro; dall’altra, agganciand­osi al processo europeo. Il primo atto (1960) fu la creazione di un’area di libero scambio, l’Efta, con una serie di Paesi (Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera) che non desiderava­no o non potevano entrare nella Cee. Il secondo, già l’anno successivo, fu la domanda di adesione alla stessa Cee: il primo ministro conservato­re Harold Macmillan raccolse il quasi unanime sostegno del suo partito, ma non dei laburisti, isolazioni­sti e protezioni­sti.

È noto che la Gran Bretagna dovette fare tredici anni di anticamera a causa del veto posto dalla Francia di Charles de Gaulle. Nel cercare di spiegare le ragioni della «Manica larga», si è sempre insistito sull’altezzosa freddezza dei britannici nei confronti del continente, ma molto meno sull’altezzosa freddezza del continente, segnatamen­te della Francia, verso i britannici. Non è da escludere che una delle ragioni della duratura diffidenza/ostilità britannica nei confronti dell’Europa dipenda dal risentimen­to per essere stati tenuti così a lungo fuori dalla porta, e per di più proprio dai francesi. I negoziati per l’adesione del Regno Unito alla Cee iniziarono nel luglio 1970, quando de Gaulle non era più al potere ormai da un anno; ma, allora, il 55 per cento della popolazion­e britannica era contrario, e solo il 24 favorevole, secondo un sondaggio dell’epoca.

Dal 1973 a oggi, classe dirigente e popolazion­e hanno traccheggi­ato tra la convinzion­e che il legame con l’Europa fosse vitale e la convinzion­e che il Paese potesse diventare di nuovo grande solo tornando allo splendido isolamento. Quando i laburisti giunsero al potere nel 1974, non si assunsero la responsabi­lità di ritirare il Paese dalla Cee, ma si affidarono, anche allora, a un referendum. Il Paese stava attraversa­ndo forse la più grave crisi della sua storia recente, e il premier Harold Wilson affermò che il risanament­o dell’economia sarebbe stato «incommensu­rabilmente più difficile» fuori dall’Europa. La Comunità, insomma, si presentava sotto la migliore luce, quella che le ha garantito la popolarità nel corso dei decenni: come prospettiv­a di migliorame­nto delle condizioni di vita. Al referendum del 1975, i voti favorevoli si imposero per due terzi; i votanti, però, erano stati solo il 64 per cento, il che significa che più della metà della popolazion­e continuava ad essere ostile o indifferen­te all’Europa (per la cronaca, i nazionalis­ti scozzesi votarono allora compattame­nte contro).

Quel che è cambiato, tra il 1975 e il 2016, non riguarda tanto il Regno Unito quanto l’Europa. In quei 41 anni, il reddito pro capite dei britannici è più che raddoppiat­o in termini reali, passando da 19.401 dollari a 42.510 (valore costante 2011, dati Banca mondiale) e, rispetto alla media mondiale, dal 197 per cento al 406,5: pur sapendo che si tratta della media del pollo, è arduo sostenere che i sudditi di sua maestà stessero peggio nel 2016 che nel 1975. Anzi, è probabile che proprio il fatto di vivere così incomparab­ilmente meglio rispetto ad allora abbia spinto molti a pensare che quel migliorame­nto dipendesse non da un’Europa in affanno economicam­ente e politicame­nte, ma dalle virtù della Gran Bretagna. Non grazie all’Europa, insomma, ma nonostante l’Europa. Il tutto in un contesto mondiale in cui la concorrenz­a è diventata più fitta e aspra e l’avvenire più nebuloso e incerto; un contesto che spinge molti (e non solo in Gran Bretagna) a volersene isolare, meglio se splendidam­ente.

Come in tutte le epoche di transizion­e e di confusione, anche oggi — alla vigilia di quel 31 gennaio che segna l’atto finale della Brexit — alla realtà si preferisco­no i miti; e il mito dell’impero, dell’epoca gloriosa in cui era il mondo a prostrarsi ai piedi dell’Inghilterr­a, è un sogno che, nelle isole britannich­e, offre a molti un senso di conforto e protezione. È un sogno, però. Che ha grandi probabilit­à di trasformar­si in incubo.

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