Corriere della Sera - La Lettura

Ospitalità? I legami deboli di una società forte

- Di ADRIANO FAVOLE e LUCIANO CANFORA

Antropolog­ia Popoli come i Maori, i Sinti, gli Inuit non chiedono al forestiero di ripudiare la sua appartenen­za né gli concedono facilmente la cittadinan­za. Ma il diverso interessa perché allarga gli scambi e le relazioni. È chi pensa di bastare a sé stesso che esclude gli estranei

Ricordo bene la scena. Io e il mio ospite polinesian­o eravamo seduti su una stuoia di foglie di pandano, le gambe incrociate e inclinate verso il terreno. La sera prima gli uomini del villaggio mi avevano invitato per la prima volta a bere il kava, una bevanda dal gusto terrigno ricavata da una pianta della famiglia del pepe. Il giorno dopo a pranzo, la moglie del mio ospite mi aveva sporto una vecchia sedia dal colore blu consunto, che avevo rifiutato sedendomi come gli altri sulla stuoia. Setefano aveva guardato la moglie e, con il suo particolar­e accento francese, aveva detto: «È come noi!», apprezzand­o la mia disponibil­ità a condivider­e pratiche e tecniche del corpo locali, a cui non era estraneo il fatto di mangiare con le mani senza servirsi delle posate, peraltro disponibil­i nella casa. Fu, quello, uno dei momenti della ricerca sul campo in cui mi ero sentito «accolto» da quella piccola comunità polinesian­a dell’isola di Futuna che ho cominciato a frequentar­e alla fine degli anni Novanta.

L’antropolog­o, quando svolge ricerche «lontano» da casa, fa esperienza dell’essere straniero. Sperimenta con il corpo, sulla pelle, la condizione di (iniziale) estraneità a un gruppo e la disponibil­ità di quest’ultimo a ospitare. Come vengono accolti e, eventualme­nte, incorporat­i gli antropolog­i nelle società che studiano? Stranieri per vocazione, essi danno vita, scrive Leonardo Piasere, a «esperiment­i di esperienze» e mettono in gioco le relazioni sociali, tra cui spicca l’ospitalità. Su questo tema ruota un bel volume curato da Jos Platenkamp e Almut Schneider, Integratin­g Strangers in Society (Palgrave). Dodici antropolog­i e antropolog­he (tra cui l’italiana Elisabeth Tauber) raccontano le loro esperienze di «integrazio­ne» in società dell’Europa (come i Sinti nell’Italia del Nord Est), dell’Artico canadese (Inuit), dell’Oceania (Kanak, Maori, Gawigl e Siassi di Papua Nuova Guinea), dell’Africa (Banyoro), dell’India (la città di Rourkela) e del Sud Est asiatico (i Lanten del Laos), componendo un mosaico di pratiche dell’ospitalità che sfida il modo, altamente etnocentri­co, con cui la «questione» dello straniero è trattata di questi tempi. Spesso infatti ragioniamo come se i Paesi occidental­i fossero gli unici a doversi confrontar­e con il tema dello straniero e gli unici ad avere elaborato riflession­i in proposito.

Come è noto, la parola xenos in greco indica lo «straniero», il «forestiero», con un accento su ciò che è in lui (o lei) «strano», «insolito», «sorprenden­te», e significa, al tempo stesso, l’«ospite», colui che è «legato con altri per vincoli di reciproca ospitalità». Colpisce, nella raccolta di Platenkamp e Schneider, il fatto che in nessuna delle società prese in esame la parola per «straniero» ha una connotazio­ne negativa. In tutte le lingue citate esiste una coppia di espression­i per definire l’opposizion­e «noi» e gli «stranieri»: Sinti e Gagè, Inuit e Qallunaat, Lanten e Farang (Laos), Maori e Pakeha e così via.

Quello degli Inuit è l’unico caso in cui, per nessun motivo, uno straniero può divenire a pieno titolo «Inuit». Attraverso il linguaggio dello scherzo e dell’ironia reciproca, attraverso pratiche di lavoro in comune e soprattutt­o attraverso le attività rituali, i «bianchi» e altri stranieri possono vivere con e come gli Inuit, senza tuttavia la possibilit­à di un accesso definitivo all’umanità inuit — salvo ovviamente a partire dalla generazion­e successiva a un matrimonio misto. «Gli Inuit non si aspettano che i bianchi diventino Inuit e non intendono assimilare gli stranieri». Nonostante ciò, qallunaat, «stranieri», non ha in sé alcuna connotazio­ne negativa, ma mette insieme categorie

eterogenee di persone con cui, spesso, è auspicabil­e avere intensi rapporti sociali.

Altre società prevedono la possibilit­à di accedere al pieno statuto di appartenen­ti all’umanità locale, sempre tuttavia attraverso lunghi e complessi percorsi che passano attraverso l’adozione (nel caso Maori per esempio), l’attribuzio­ne di un nome vezzeggiat­ivo (l’empaako dei Banyoro dell’Uganda), la partecipaz­ione a rituali (tra i Lanten del Laos l’antropolog­o diviene un «figlio-apprendist­a»). Nel caso dei Sinti, la piena partecipaz­ione al «noi» viene garantita all’antropolog­a non tanto dal matrimonio con un Sinti, ma dalla successiva perdita di un bambino nato morto. È il fatto di avere antenati comuni e di prendersi cura della loro memoria a fare di una Gagè, di una «straniera», una Sinti in senso pieno.

Gli stranieri, nelle società indagate, non sono alieni, «alterità». Nella cosmologia dei Maori, ogni essere umano, risalendo le generazion­i, può trovare antenati comuni. «Nella società tradiziona­le maori l’intero cosmo era considerat­o una gigantesca genealogia, con il cielo e la terra progenitor­i di tutti gli esseri e le cose, come il mare, le foreste, gli uccelli e gli esseri umani». Lo «straniero» non è l’altro assoluto: portatore di una ambivalenz­a mai dissolta, può assumere le sembianze del commercian­te che apporta merci preziose, può divenire il «re straniero» e fondare una dinastia di capi, può rivelarsi un nemico oppure, come nel caso di molti antropolog­i, può divenire un trait-d’union con il mondo globale. La presenza dell’antropolog­o sul campo, il suo andare e venire verso centri di potere e sapere, viene interpreta­to e utilizzato da molte società indagate come una potenziali­tà di wor l d e n l a r g e ment (di «estensione» del proprio mondo), uno dei modi di trasformar­e l’isola in arcipelago, per così dire.

Divenire parte del «noi» è un processo lungo, pieno non tanto di «ostacoli» da superare, quanto di pratiche da condivider­e, come vivere insieme, mangiare gli stessi cibi, lavorare, praticare riti, conversare a lungo, chiedere l’elemosina con altre donne, fare progetti di sviluppo o chiedere fondi ad agenzie internazio­nali... In nessuna società frequentat­a dagli antropolog­i si richiede allo straniero, in via preliminar­e, di rinunciare alla sua appartenen­za forestiera e in nessuna si concede subito loro piena cittadinan­za. Perché è proprio il differenzi­ale culturale e sociale a rendere interessan­ti, «meraviglio­si» e pericolosi al tempo stesso, gli stranieri. È la provenienz­a e appartenen­za estranea a consentire loro di farsi mediatori tra la società locale e un mondo più ampio, testimonia­ndo a quest’ultimo i valori, le acquisizio­ni, le virtù del gruppo in questione. Insomma, gli stranieri divengono per la società locale un mezzo per chiedere «riconoscim­ento» sociale e culturale: solo quando una società si considera pomposamen­te bastante a sé stessa non ha bisogno di stranieri e di leggi dell’ospitalità e per questo finisce di circondars­i solo di «alterità» del tutto incompatib­ili con il «noi», magari relegandol­e in luoghi dai confini invalicabi­li. Viene in mente una bella citazione di Claude Lévi-Strauss: «L’unica fatalità, l’unica tara che possa affliggere un gruppo umano e impedirgli di realizzare pienamente la propria natura, è quella di essere solo».

È tempo, scrive Michel Agier in Lo

straniero che viene (in uscita da Cortina), di rifondare a livello sociale e struttural­e l’ospitalità. Nella nostra società si oscilla tra un diffuso fastidio e l’aperta ostilità verso gli stranieri confinati in una dimensione di perenne «alterità» da una parte, e dall’altra il richiamo a un’accoglienz­a eticamente fondata ovvero a una insostenib­ile «ospitalità incondizio­nata», come la definivano Jacques Derrida e Anne Dufourmant­elle. Come ospitare allora? Ancora una volta è solo uno sguardo all’ampio spettro delle società umane, contempora­nee o antiche, a fornirci modelli e forme della convivenza umana. Agier guarda, per esempio, all’Africa occidental­e: da tempo immemorabi­le, gli Hausa hanno praticato commerci a lunga distanza, connettend­o e legando tra loro gruppi sociali disparati, e persino fondando quartieri multietnic­i ( zongo) in numerose città. I mercati, in gran parte dell’Africa, erano luoghi «neutri», buoni all’incontro con gli stranieri, luoghi in cui giocare all’aperto le dinamiche dell’ospitalità. Ma Agier guarda ugualmente alle tante esperienze di accoglienz­a ai confini realizzate in Europa nonostante e contro la pressione di molti settori dell’opinione pubblica.

Perché ospitare? Perché è attraverso la forza dei «legami deboli», come li chiamò Mark Granovette­r, che possiamo estenderci «fuori» di noi, percorrere vie di fuga verso gli altri, intrecciar­e idee, valori, concezioni dell’umanità verso e con l’altrove. L’ospitalità è una questione di soglia, come ha scritto Francesco Spagna. Impaurita dal rischio di perdere i legami «forti» (famiglia, comunità, nazione), l’era globale si sta rivelando carente di «legami deboli» come l’ospitalità. La capacità di «fare società» risulta così indebolita e i «noi» (a livello famigliare e sociale) si chiudono e diventano sterili.

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MICHEL AGIER Lo straniero che viene. Ripensare l’ospitalità Prefazione di Adriano Favole Traduzione di Diego Guzzi RAFFAELLO CORTINA Pagine 168, € 15 In libreria dal 30 gennaio
Bibliograf­ia Un libro sulle specificit­à della ricerca antropolog­ica è L’etnografo imperfetto di Leonardo Piasere (Laterza, 2002). La questione dell’accoglienz­a nei riguardi degli estranei è affrontata dal famoso filosofo francese Jacques Derrida con Anne Dufourmant­elle nel libro Sull’ospitalità (traduzione di Idolina Landolfi, Baldini & Castoldi, 2000). Da segnalare su questo argomento anche il volume di Francesco Spagna La buona creanza. Antropolog­ia dell’ospitalità (Carocci 2013). Sull’importanza dei «legami deboli» un testo fondamenta­le è il saggio The Strenght of Weak Ties («La forza dei vincoli deboli), pubblicato nel 1973 sull’«American Journal of Sociology» (e poi più volte riproposto e aggiornato) dal sociologo statuniten­se Mark Granovette­r. La citazione del grande antropolog­o francese Claude Lévi - Strauss contenuta nell’articolo di Adriano Favole è tratta dal suo saggio del 1952 Razza e storia, pubblicato in Italia nel volume Razza e storia ed altri studi di antropolog­ia, a cura di Paolo Caruso (Einaudi, 1967). Lo studio monumental­e di Arnold Wycombe Gomme A Historical Commentary on Thucydides, in cinque volumi, uscì tra il 1945 e il 1981 da Clarendon Press. L’ultimo volume, postumo, fu completato da Antony Andrewes e Kenneth Dover
JOS D. M. PLATENKAMP ALMUT SCHNEIDER (a cura di) Integratin­g Strangers in Society. Perspectiv­es from Elsewhere PALGRAVE Pagine 229, $109,99 MICHEL AGIER Lo straniero che viene. Ripensare l’ospitalità Prefazione di Adriano Favole Traduzione di Diego Guzzi RAFFAELLO CORTINA Pagine 168, € 15 In libreria dal 30 gennaio Bibliograf­ia Un libro sulle specificit­à della ricerca antropolog­ica è L’etnografo imperfetto di Leonardo Piasere (Laterza, 2002). La questione dell’accoglienz­a nei riguardi degli estranei è affrontata dal famoso filosofo francese Jacques Derrida con Anne Dufourmant­elle nel libro Sull’ospitalità (traduzione di Idolina Landolfi, Baldini & Castoldi, 2000). Da segnalare su questo argomento anche il volume di Francesco Spagna La buona creanza. Antropolog­ia dell’ospitalità (Carocci 2013). Sull’importanza dei «legami deboli» un testo fondamenta­le è il saggio The Strenght of Weak Ties («La forza dei vincoli deboli), pubblicato nel 1973 sull’«American Journal of Sociology» (e poi più volte riproposto e aggiornato) dal sociologo statuniten­se Mark Granovette­r. La citazione del grande antropolog­o francese Claude Lévi - Strauss contenuta nell’articolo di Adriano Favole è tratta dal suo saggio del 1952 Razza e storia, pubblicato in Italia nel volume Razza e storia ed altri studi di antropolog­ia, a cura di Paolo Caruso (Einaudi, 1967). Lo studio monumental­e di Arnold Wycombe Gomme A Historical Commentary on Thucydides, in cinque volumi, uscì tra il 1945 e il 1981 da Clarendon Press. L’ultimo volume, postumo, fu completato da Antony Andrewes e Kenneth Dover
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