Corriere della Sera - La Lettura
Sirio «vicina» a Betelgeuse Mito e scienza delle stelle
Le narrazioni fantastiche sono il linguaggio astronomico delle società arcaiche prima della scrittura e della matematica: Giorgio de Santillana indagò a lungo i cicli di leggende (egizie, mesopotamiche, indiane) legate alla stella più luminosa. Ne parliam
Che cos’è Sirio? Abbastanza facile a dirsi, oggi: una «normale» stella binaria della costellazione del Cane maggiore (Sirio A, la stella più grande, ha una piccola compagna, la nana bianca Sirio B), distante 8,6 anni luce e con una massa poco più che doppia del Sole.
Ma migliaia di anni fa, tra gli antichi egizi, e tra mesopotamici, greci, cinesi, indiani, perfino samoani, una stella così lucente (tanto che a volte si può vedere l’ombra delle sagome colpite dalla sua luce sulla Terra) assunse un’importanza tutta particolare. E per motivi che vanno ben oltre la lucentezza: li raccolse in una serie di saggi affascinanti e molto discussi lo storico della scienza Giorgio de Santillana, insieme alla sua collaboratrice Hertha von Dechend: tre di questi saggi tornano in libreria riproposti da Adelphi nel libro Sirio. Tre seminari sulla cosmologia arcaica (in uscita il 30 gennaio) con la curatela di Svevo D’Onofrio e di Mauro Sellitto, che cura anche la postfazione.
Come accadrà in seguito nella sua opera più nota, Il mulino di Amleto, de Santillana compie insieme a von Dechend una ricerca trasversale alle epoche e alle discipline: sulle tracce di Sirio, spiega ideogrammi e geroglifici, riporta citazioni di autori antichi (Omero, Esiodo, Platone) che a loro volta citano storie considerate arcaiche già nell’antica Grecia, confronta scritture come i Veda e L’epopea di Gilgameš, attinge a manuali di astronomia come quelli del medievale Abu Ma’shar, raccoglie una vera messe di notizie. E in poche, dense (e difficili) pagine restituisce alla «normale» stella il posto speciale che aveva nel mondo arcaico, cioè il centro del cosmo. Ma lo fa — ciò che ha suscitato le controversie intorno alla sua opera — sostenendo che dietro la maggior parte dei miti si nasconde in realtà una cosmologia complessa, e non «le solite favole di animali»: i «cani di Persefone» dei greci erano in realtà i pianeti; la freccia scagliata contro Orione nelle leggende siberiane era proprio Sirio; e tra gli egizi Sirius o Sothis era la «Regina dei Decani», entità che «sostengono, per così dire, il circolo dell’universo» e che «non sono soggette alle cose che toccano le altre stelle» (poiché per 3 mila anni Sirio sembrò sfuggire alla precessione degli equinozi che regolava le altre stelle).
Ne parla a «la Lettura» uno dei curatori del libro, il fisico Mauro Sellitto: «De Santillana, storico della scienza laureato in Fisica, aveva sempre ricercato le origini più profonde del pensiero scientifico. Al culmine della sua carriera si accorse, con Hertha von Dechend, sua collaboratrice per i saggi di questo volume e per Il muli
no di Amleto, che il mito rappresenta una forma primordiale di linguaggio scientifico, la cui origine risale a un’epoca preistorica; si tratta dunque di un linguaggio non solo pre-matematico ma addirittura pre-alfabetico che, nonostante queste limitazioni, aveva permesso ai pensatori arcaici di formarsi un’idea di cosmo e di elaborare una scienza complessa (relativamente ai mezzi di cui disponevano). Il lavoro di de Santillana e von Dechend, coraggioso ed enorme, è stato quello di rintracciare i lineamenti di questa scien
za antica a partire da varie testimonianze, dalla Grecia arcaica ai Veda, dalla Cina alla Mesopotamia, e di identificarne gli elementi comuni e salienti».
Appunto tra gli egizi, suggerisce de Santillana, Sirio-Sothis aveva un’importanza vitale, continua Sellitto: «Sirio è innanzitutto la stella più luminosa del cielo notturno, e per questo è nota presso tutti i popoli (è visibile da tutte le terre emerse) e al centro di molti miti. Oltre a questo, si è verificata una coincidenza singolare: nella civiltà egizia si riconobbe presto che il sorgere eliaco (poco prima del Sole) di questa stella avveniva ogni anno in coincidenza con le piene del Nilo, un fenomeno vitale per l’agricoltura e l’esistenza stessa di questa antica civiltà; per 3 mila anni il fenomeno sembrò non essere affetto dalla precessione degli equinozi, e questo rese Sirio degna di enorme attenzione. Spesso associata a Iside, la stella appartiene alla costellazione del Cane maggiore, la cui comparsa segna l’inizio del caldo afoso (o “canicolare” come si dice tuttora). Era anche connessa ad Anubis, divinità dalla testa canina da cui deriva una stirpe di esseri cinocefali (tra cui San Cristoforo, per limitarci alla tradizione cristiana)».
Quindi Sirio era il centro del cielo per gli egizi, tanto che ci si costruì intorno un calendario, afferma il libro, con il suo ciclo sotiaco (da Sothis, nome egizio della stella) di 365,25 giorni e con le altre coincidenze mirabili fornite dalla stella, visto che ogni 1.460 anni Sirio tornava a sorgere nello stesso punto e nello stesso giorno dell’anno. Per tramandare questi calcoli difficili, le civiltà prematematiche si sarebbero affidate a miti altrettanto difficili, il cui senso si perse con il tempo.
A parte il fascino della grandiosa ricerca (in un libro tutto sommato breve) di de Santillana, i saggi su Sirio e poi Il mulino
scoprono nel mito un altro elemento che riguarda la «nascita» della scienza. «L’aspetto teorico più importante — prosegue Sellitto — è l’idea di
Cioè di qualcosa che rimane immutato sotto il fluire degli eventi e la diversità dei fenomeni. Secondo de Santillana, questa idea rappresenta il mito fondativo della scienza. Questo “qualcosa” può essere molto concreto (come l’inclinazione dell’eclittica, da cui segue l’avvicendarsi delle stagioni in tutta la loro diversità), o astratto come una legge matematica. Entrambe richiedono un grande sforzo di immaginazione. La ricostruzione di questo linguaggio scientifico arcaico è un’operazione molto complessa, a cui de Santillana e von Dechend hanno dedicato almeno un decennio di studi».
Perché gli antichi avrebbero usato i miti? «Per dare un senso al cosmo: il mito forniva il linguaggio tecnico, secondo i due autori. L’aspetto forse più controverso è che la formulazione della scienza arcaica richiede osservazioni (e misurazioni) piuttosto accurate su tempi molto lunghi, che andavano ben al di là di una generazione, se pensiamo, in particolare, al fenomeno della precessione degli equinozi. Osservazioni che dovevano essere tramandate precisamente per via orale in assenza di una scrittura. Quindi, come fare? Le capacità mnemoniche erano molto più sviluppate delle nostre. Il linguaggio in cui venivano rappresentate le osservazioni era sì tecnico, ma non era fatto di simboli matematici, e questo pone una sfida audace alla nostra immaginazione di lettori contemporanei».
Fenomeni astronomici, come l’inclinazione dell’eclittica o la precessione dovevano essere descritti non con formule algebriche ma con storie molto evocative, che i due autori del libro ritrovano in svariate tradizioni. «Una delle più note è il mito della caduta di Fetonte che nell’interpretazione del libro corrisponde allo spostamento del coluro equinoziale (un meridiano celeste che nell’età dell’oro, quando il sole equinoziale sorgeva nei Gemelli, attraversava la Via Lattea, e ne era una manifestazione visibile). Questo linguaggio fatto di storie, fortemente evocativo, lasciava un’impressione forte, e forniva un ausilio importante alla trasmissione delle conoscenze. Ma inevitabilmente si presentavano varianti che, di generazione in generazione, si moltiplicavano e si arricchivano, magari con dettagli di fantasia. Secondo de Santillana queste conoscenze, per il loro carattere orale, erano già divenute poco trasparenti quando avviene l’invenzione della scrittura. E tale stadio rappresenterebbe, da questo punto di vista, una fase di declino della civiltà. De Santillana non esita ad affermare che le due principali “sciagure” della storia dell’uomo siano state l’abbandono del nomadismo (con l’invenzione dell’agricoltura) e l’invenzione della scrittura».
Il libro afferma in più punti che la scienza moderna, da Galileo e Newton in poi, si è fortemente matematizzata, con un grado di astrazione sempre maggiore: erano più facili, i miti? «Non direi che la scienza arcaica fosse immediatamente comprensibile — spiega il fisico —, anzi il complesso cosmo arcaico ha richiesto una cospicua visione sinottica, ma c’erano almeno delle immagini, delle storie (seppure intricate e insolite), che erano in grado di veicolare quelle conoscenze».
E lo sguardo «sinottico» che avvicina la scienza ad altre discipline sarebbe utile anche alla scienza contemporanea, conclude Sellitto: «È un tema su cui gli autori erano molto sensibili. Si erano messi fortemente in gioco attraversando discipline diverse e altamente specialistiche. L’accademia non ha accolto bene il loro libro principale che, curiosamente, ha affascinato un grande numero di lettori». Tra l’altro, gli stessi de Santillana e von Dechend erano consapevoli degli sviluppi delle scienze: «Al Mit erano in contatto con Wiener, McCulloch, Pitts e Lettvin, pionieri della cibernetica e delle reti neurali. È anche interessante notare — riguardo al ruolo dell’invarianza e della simmetria nel cosmo arcaico — la loro importanza nella fisica moderna, a un livello di complessità diverso, dove per esempio le fasi della materia sono classificate in termini di gruppi di simmetria e “rotture spontanee di simmetria”, o dicendo che l’evoluzione iniziale dell’universo attraversa una successione di “transizioni di fase”. Come nel mito arcaico, queste idee continuano ad agire, seppure in forme diverse».