Corriere della Sera - La Lettura
Il Regno Disunito
La Brexit segna l’inizio della fine del Regno Unito? Per i suoi promotori, dovrebbe essere l’alba di un f ul g i do a v ve ni re , dove l a Gran Bretagna si libera dai ceppi dell’Unione Europea e si lancia nel mare aperto del mondo, pronta ad adempiere al suo destino di nazione globale. Ma il risultato potrebbe essere la disgregazione di quella che è probabilmente stata finora l’unione multinazionale di maggiore successo della storia.
Le crepe erano in realtà apparse in superficie già con il referendum del 2016: sia la popolazione della Scozia che dell’Irlanda del Nord avevano votato a maggioranza per restare nella Ue ed era stato solo il voto preponderante dell’Inghilterra che aveva spostato la bilancia dalla parte della Brexit. Dunque una domanda esistenziale aveva visto le nazioni costitutive del Regno Unito collocarsi su versanti opposti.
La questione che ora si pone con maggiore urgenza è quella scozzese: molti prevedono che sarà il tema dominante della premiership di Boris Johnson nei prossimi anni. All’indomani del voto del 12 dicembre, che ha visto il trionfo dei conservatori a livello nazionale ma allo stesso tempo il successo dei nazionalisti scozzesi a livello locale, la prima ministra di Edimburgo, Nicola Sturgeon, ha immediatamente messo sul tavolo la richiesta di un nuovo referendum sull’indipendenza.
Una prima consultazione popolare si era svolta nel 2014 e aveva visto prevalere la volontà di preservare l’Unione britannica: un voto, si diceva, che avrebbe mandato in soffitta almeno per una generazione la questione della secessione scozzese. Ma, ribattono ora i nazionalisti, i fatti sul terreno sono nel frattempo cambiati: allora si trattava di restare all’interno di un Regno Unito che era saldamente ancorato all’Unione Europea, ora si finisce per essere trascinati fuori dall’Ue contro la propria volontà.
Ma non c’è solo questo. Negli ultimi anni si è andata solidificando una totale divergenza politica fra Scozia e Inghilterra. Se a sud del Vallo di Adriano i conservatori si sono affermati come una specie di «partito della nazione» (a dicembre hanno raccolto il 47% dei voti), a Edimburgo lo stesso si può dire dei nazionalisti, che ormai coagulano attorno a sé il 45% dei consensi. In Scozia i partiti «britannici» (i conservatori e i laburisti) sono ridotti al ruolo di comparse: e una figura come Boris Johnson (la quintessenza dell’inglese) è bersaglio di astio rancoroso. Infatti il nazionalismo scozzese ha una matrice progressista: il partito guidato da Nicola Sturgeon è una formazione di sinistra che ha come modello le socialdemocrazie scandinave e vede nella Brexit un progetto reazionario di stampo neothatcheriano.
Va detto che l’unione fra Scozia e Inghilterra non è mai stata qualcosa di scontato: è il risultato di una fusione volontaria fra due regni, all’inizio del Settecento, che si erano aspramente combattuti per secoli. E anche dopo l’Atto di Unione la Scozia mantenne caratteristiche distinte, dal sistema legale a quello di istruzione fino alle istituzioni religiose. Entrambi trassero vantaggi dall’unificazione: gli scozzesi ebbero accesso al mercato e ai porti inglesi, tramite i quali poterono proiettarsi nel mondo; gli inglesi costruirono e amministrarono l’impero