Corriere della Sera - La Lettura

Nazionalis­mo targato Labour

- Di ANDREA MAMMONE

Il Labour ha deciso che il nuovo leader del partito verrà annunciato il 4 aprile. Vista la grande polarizzaz­ione, sono molte le questioni aperte. Riuscirà il «corbynismo» a monopolizz­are ancora il partito e dettarne la linea, oppure prevarrann­o le spinte (al momento non troppo forti) per un ritorno a una sinistra centrista e moderata? L’incertezza è causata non solo dalla sonora sconfitta elettorale. Essa si può annoverare tra i danni che la società britannica sta subendo a causa del processo ipernazion­alista chiamato Brexit.

Uno dei punti chiave, che dividono i laburisti a tutti i livelli, è la scelta di un leader e di un approccio in grado di recuperare i voti dell’ormai mitologica «classe operaia bianca» e, più in generale, di tutta la fascia di elettorato che vive nelle zone rurali o in quelle deindustri­alizzate o nei villaggi degli ex minatori. È reale, infatti, la necessità di comprender­e le ragioni dei delusi e avanzare proposte politiche per farli riavvicina­re alla casa laburista. Il problema è che buona parte del programma «socialista» di Jeremy Corbyn favoriva esattament­e la working class e le giovani generazion­i e riscuoteva, in alcuni punti, un notevole gradimento tra i cittadini.

Ritornano dunque centrali i temi più divisivi in assoluto: Brexit e immigrazio­ne. Non è un caso che una sola candidata alla leadership, Jess Phillips, abbia apertament­e detto che potrebbe in futuro convincere la nazione a rientrare nell’Unione Europea. La gran parte dei seggi persi dal Labour sono in circoscriz­ioni a maggioranz­a Leave, nelle quali il voto contro Bruxelles e i migranti europei era (anche) sintomo di una protesta per le diseguagli­anze, la disoccupaz­ione e la perdita di un ruolo nella società.

È evidente come non bastino un accento nordico e un retroterra lontano dal cosmopolit­ismo londinese per riconnette­re la sinistra alla galassia dell’Inghilterr­a profonda o del Galles più povero. La candidata (principale) della sinistra laburista Rebecca Long-Bailey ha suggerito che per vincere occorre «ricostruir­e le nostre comunità» e «unire» le aree più fedeli al partito. Sebbene sia a favore dei lavoratori europei e anti-Brexit, ha anche affermato che «la reale ricchezza e il potere devono ritornare nelle mani dei cittadini britannici: il loro desiderio di controllar­e le proprie vite e il futuro delle loro comunità deve essere al centro della nostra agenda». Si strizza l’occhio ai brexiters e, in sintesi, emerge la proposta di un patriottis­mo progressis­ta. Questa richiesta arriva anche da politici blairiani. «Sono preoccupat­a che alcuni attivisti critichino i candidati che parlano di patriottis­mo», scrive la parlamenta­re ed ex ministro Yvette Cooper, «dobbiamo essere patriottic­i: se il Labour non mostra di amare il Paese, non torneremo mai al governo».

Non è stato, tuttavia, il patriottis­mo civico a spingere la Brexit. Cavalcare il nazionalis­mo è rischioso, anche perché tale tendenza si unisce a una sorta di caccia alle streghe nel Labour Alcune frange moderate hanno attaccato Corbyn e la sua scelta di appoggiare un secondo referendum, definita poco patriottic­a. Sul versante opposto sono piovute critiche al composito gruppo pro-Europa che, nel tentativo di smantellar­e il corbynismo, avrebbe imposto un nuovo referendum causando la sconfitta. Non piace neanche quella minoranza di Remainers che avrebbero votato per i liberaldem­ocratici, in quanto eccessivam­ente legata alla propria «identità europea».

La tentazione nazionalis­ta non è avulsa dalla storia del partito. Nel 1968 il governo laburista introdusse norme per ridurre l’immigrazio­ne africana. Anni fa, tra i gadget elettorali del Labour di Ed Miliband campeggiav­ano tazze da tè con lo slogan «controllia­mo l’immigrazio­ne». Lo stesso Tony Blair nel 2017 suggerì, a più riprese, un maggior controllo sull’immigrazio­ne per fermare i populisti e una restrizion­e dei diritti dei migranti dall’Ue. Anche i sindacati hanno avuto, a volte, posizioni simili. Prima delle elezioni Len McCluskey, segretario del potente sindacato Unite e grande supporter di Corbyn, affermava che, in caso di vittoria, occorreva ridurre la libera circolazio­ne dei cittadini europei. In precedenza, aveva rammentato come il migliorame­nto delle condizioni dei lavoratori britannici presuppone­sse un controllo dei flussi della forza lavoro straniera e «comunità stabili».

Come ricorda Daniel Trilling sul «Guardian», iniettare una «dose di nazionalis­mo» non è necessaria­mente una proposta vincente. Quando ciò avviene, di solito i partiti di centrosini­stra falliscono (in modo anche imbarazzan­te). Nel contesto «isolazioni­sta» britannico tale propension­e, unita alla critica all’Europa troppo «liberale» o all’idea di una grandeur imperiale di ritorno, potrebbe sempliceme­nte legittimar­e i sentimenti xenofobi e antieurope­i. Questo non favorirebb­e né i fautori del centrismo blairiano, con il loro elogio della globalizza­zione, né i «socialisti», poiché la lotta alle diseguagli­anze oggi più che mai necessita di una dimensione internazio­nale.

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