Corriere della Sera - La Lettura
Nazionalismo targato Labour
Il Labour ha deciso che il nuovo leader del partito verrà annunciato il 4 aprile. Vista la grande polarizzazione, sono molte le questioni aperte. Riuscirà il «corbynismo» a monopolizzare ancora il partito e dettarne la linea, oppure prevarranno le spinte (al momento non troppo forti) per un ritorno a una sinistra centrista e moderata? L’incertezza è causata non solo dalla sonora sconfitta elettorale. Essa si può annoverare tra i danni che la società britannica sta subendo a causa del processo ipernazionalista chiamato Brexit.
Uno dei punti chiave, che dividono i laburisti a tutti i livelli, è la scelta di un leader e di un approccio in grado di recuperare i voti dell’ormai mitologica «classe operaia bianca» e, più in generale, di tutta la fascia di elettorato che vive nelle zone rurali o in quelle deindustrializzate o nei villaggi degli ex minatori. È reale, infatti, la necessità di comprendere le ragioni dei delusi e avanzare proposte politiche per farli riavvicinare alla casa laburista. Il problema è che buona parte del programma «socialista» di Jeremy Corbyn favoriva esattamente la working class e le giovani generazioni e riscuoteva, in alcuni punti, un notevole gradimento tra i cittadini.
Ritornano dunque centrali i temi più divisivi in assoluto: Brexit e immigrazione. Non è un caso che una sola candidata alla leadership, Jess Phillips, abbia apertamente detto che potrebbe in futuro convincere la nazione a rientrare nell’Unione Europea. La gran parte dei seggi persi dal Labour sono in circoscrizioni a maggioranza Leave, nelle quali il voto contro Bruxelles e i migranti europei era (anche) sintomo di una protesta per le diseguaglianze, la disoccupazione e la perdita di un ruolo nella società.
È evidente come non bastino un accento nordico e un retroterra lontano dal cosmopolitismo londinese per riconnettere la sinistra alla galassia dell’Inghilterra profonda o del Galles più povero. La candidata (principale) della sinistra laburista Rebecca Long-Bailey ha suggerito che per vincere occorre «ricostruire le nostre comunità» e «unire» le aree più fedeli al partito. Sebbene sia a favore dei lavoratori europei e anti-Brexit, ha anche affermato che «la reale ricchezza e il potere devono ritornare nelle mani dei cittadini britannici: il loro desiderio di controllare le proprie vite e il futuro delle loro comunità deve essere al centro della nostra agenda». Si strizza l’occhio ai brexiters e, in sintesi, emerge la proposta di un patriottismo progressista. Questa richiesta arriva anche da politici blairiani. «Sono preoccupata che alcuni attivisti critichino i candidati che parlano di patriottismo», scrive la parlamentare ed ex ministro Yvette Cooper, «dobbiamo essere patriottici: se il Labour non mostra di amare il Paese, non torneremo mai al governo».
Non è stato, tuttavia, il patriottismo civico a spingere la Brexit. Cavalcare il nazionalismo è rischioso, anche perché tale tendenza si unisce a una sorta di caccia alle streghe nel Labour Alcune frange moderate hanno attaccato Corbyn e la sua scelta di appoggiare un secondo referendum, definita poco patriottica. Sul versante opposto sono piovute critiche al composito gruppo pro-Europa che, nel tentativo di smantellare il corbynismo, avrebbe imposto un nuovo referendum causando la sconfitta. Non piace neanche quella minoranza di Remainers che avrebbero votato per i liberaldemocratici, in quanto eccessivamente legata alla propria «identità europea».
La tentazione nazionalista non è avulsa dalla storia del partito. Nel 1968 il governo laburista introdusse norme per ridurre l’immigrazione africana. Anni fa, tra i gadget elettorali del Labour di Ed Miliband campeggiavano tazze da tè con lo slogan «controlliamo l’immigrazione». Lo stesso Tony Blair nel 2017 suggerì, a più riprese, un maggior controllo sull’immigrazione per fermare i populisti e una restrizione dei diritti dei migranti dall’Ue. Anche i sindacati hanno avuto, a volte, posizioni simili. Prima delle elezioni Len McCluskey, segretario del potente sindacato Unite e grande supporter di Corbyn, affermava che, in caso di vittoria, occorreva ridurre la libera circolazione dei cittadini europei. In precedenza, aveva rammentato come il miglioramento delle condizioni dei lavoratori britannici presupponesse un controllo dei flussi della forza lavoro straniera e «comunità stabili».
Come ricorda Daniel Trilling sul «Guardian», iniettare una «dose di nazionalismo» non è necessariamente una proposta vincente. Quando ciò avviene, di solito i partiti di centrosinistra falliscono (in modo anche imbarazzante). Nel contesto «isolazionista» britannico tale propensione, unita alla critica all’Europa troppo «liberale» o all’idea di una grandeur imperiale di ritorno, potrebbe semplicemente legittimare i sentimenti xenofobi e antieuropei. Questo non favorirebbe né i fautori del centrismo blairiano, con il loro elogio della globalizzazione, né i «socialisti», poiché la lotta alle diseguaglianze oggi più che mai necessita di una dimensione internazionale.