Corriere della Sera - La Lettura
Anche la traduzione è un’opera Autori (e loro interpreti) a Bergamo
«Tradurre non è distruggere. Significa qui mostrare che un testo continua». Il poeta francese Henri Meschonnic (1932-2009) lo scriveva in Pour la poétique II (Gallimard, 1973). È il senso della traduttologia moderna, spiega Fabio Scotto, professore ordinario di Letteratura francese all’Università degli Studi di Bergamo e direttore del Centro internazionale per gli studi sulle avanguardie e la modernità (Cisam), nonché interprete delle parole di
Meschonnic. Dalla negazione del dogma novecentesco dell’obiezione pregiudiziale — che sostiene l’impossibilità della traduzione — si è arrivati a ragionare in termini di risultato finale. «Non ci si può soffermare sul conteggio delle parole, ma bisogna considerare la traduzione come l’opera di un autore», chiarisce Scotto. Una sorta di dialogo alla pari tra autore e traduttore. Consapevolezza cui si è giunti a secoli di distanza dalle prime traduzioni, che
prediligevano il «senso» e tralasciavano in qualche modo la «forma». Raccontare l’evoluzione del tradurre è lo scopo del convegno Traduzioni esemplari e saggi storici sul tradurre dal Romanticismo a oggi,
organizzato all’Università di Bergamo il 22 e 23 gennaio dal professor Scotto, in collaborazione con Septet, Soft, Centre de traduction littéraire de Lausanne e Instituto Cervantes di Milano. Tra i relatori anche il poeta José María Micó (1961, qui accanto un suo verso da Biografia, in Caleidoscopio,
Passigli, 2018, tradotto da Pietro Taravacci). Micó racconterà la sua esperienza con la traduzione della Commedia dantesca. Presente lo stesso Taravacci, interprete di Micó e docente dell’Università di Trento.